sabato 22 dicembre 2007

Leoni per agnelli

Robert Redford è tornato alla regia, sette anni dopo La leggenda di Bagger Vance (The Legend of Bagger Vance, 2000). E' sempre un piacere ritrovarlo e rivederlo: qui è anche attore protagonista, assieme ad altre star come Meryl Streep e Tom Cruise. Si prova una specie di affetto  guardando il suo volto scavato dalle rughe e come denudato dal tempo, che ha lasciato l'anima ben visibile: l'anima di un grande uomo di cinema, sempre lontano dal compromesso e dalla superficialità. Questo Leoni per agnelli (Lions for Lambs) conferma prepotentemente l'atteggiamento politico ed esistenziale di Redford, improntato al dubbio, alla riflessione profonda e alla ricerca continua. Lions for Lambs è un'opera filosofica acuta e complessa basata su presupposti semplicissimi: tre dialoghi che si svolgono contemporaneamente, nel giro di un'ora, in luoghi diversi. A Washington, nello studio del senatore repubblicano Tom Cruise che accoglie la giornalista veterana Meryl Streep per un'intervista; in un'università della California, presso lo studio del professore di scienze politiche Robert Redford che ha convocato il suo studente Andrew Garfield per un colloquio chiarificatore; in Afghanistan, sulle alture innevate del teatro di guerra, dove i militari Michael Pena e Derek Luke, rimasti soli, devono fronteggiare la tempesta e il nemico in avvicinamento. Campi e controcampi, inquadrature a camera fissa, pochissimi effetti speciali o altre diavolerie da action movie, perchè la vera azione sta nei dialoghi: avvincenti, serrati, benissimo scritti, fanno del film non soltanto un duro e assai intelligente pamphlet antimilitaristico, ma una vera e propria meditazione sul libero arbitrio e sul destino, oltre che una analisi lucida e impietosa della politica statunitense contemporanea. Poco naturalismo quindi: i personaggi sono palesemente simbolici, e la regia sottolinea questo, oltre che con i (non) movimenti di macchina, tramite la recitazione. Guardate Tom Cruise, come interpreta senza mezzi toni la sicurezza maligna e ipocrita del politico rampante esperto in strategia militare; godetevi  le idiosincrasie di Meryl Streep, nervosa, piena di dubbi e tormenti, quanto mai "fisica" nella sua interpretazione; mentre Robert Redford sa dosare alla perfezione la sagacia, l'umanità e la sofferenza di uno scienziato che rifiuta di perdere la speranza nel futuro e la fede in un mondo migliore. Lions for Lambs è un film necessario, di quelli che sanno leggere e interpretare la contemporaneità alla luce del passato, e fare domande imprescindibili sul futuro.

venerdì 21 dicembre 2007

La promessa dell'assassino

Titolo italiano assai becero per il bellissimo Eastern Promises, ultimo lavoro del mio adorato David Cronenberg. Film cupo, difficile, enigmatico; film ingannatore, che promette senza mantenere. Il movimento di macchina iniziale sembra quasi da musical; ma subito lo spettatore è investito da un paio di colpi allo stomaco in perfetto stile Cronenberg, con il rischio del knock-out. Sembrano due inneschi narrativi, e buona parte di quel che segue pare confermarlo; ma nel film non ci sarà nessun fuoco d'artificio finale, nessuna detonazione-risoluzione narrativa. Proprio così: Cronenberg fa credere di essere alle prese con un gangster movie, splendidamente morboso e iperrealistico; ma è soltanto una copertura. Nel procedere del film, la narrazione viene sapientemente disarticolata, fino a farla giungere a una specie di punto morto (proprio nel luogo in cui Nikolai e Kiril sono soliti scaricare cadaveri nel Tamigi, come se a venire scaricato nel fiume fosse ora il "corpo" del film di genere). Splendida è l'immagine che segue: una oscura "natività" profana che squarcia il velo dell'apparenza e fa precipitare nelle profondità del simbolico, alla ricerca disperata di appigli attraverso i quali decifrare tutto quel che si è appena visto. Ma è troppo tardi, alla conclusione del film lo spettatore rimane solo di fronte al mistero, un po' come accade ai protagonisti. Nulla è davvero come sembra: il film è ambientato in una Londra livida e priva di speranza, ma quasi tutti i fatti si svolgono nell'ambito della comunità russa (e sono frequenti nel film i riferimenti all'altrove della patria lasciata o del passato sovietico); mentre tutti i personaggi hanno segreti indicibili, ai quali la sceneggiatura accenna senza rivelarli pienamente. Un discorso a parte merita Nikolai, interpretato dal fantastico Viggo Mortensen, sempre più bravo: l'enunciazione associa il protagonista di questo film a quello del precedente lavoro di Cronenberg, lo splendido A History of Violence: in entrambi i film una brusca svolta della sceneggiatura rivela il negativo e il positivo del personaggio, e appare ben chiaro che c'è un vero e proprio gioco di specchi fra le due opere; superfici riflettenti essendo il volto e il corpo di Mortensen, che è doppiamente bravo proprio perché recita avendo ben presente anche il personaggio del film precedente (là una storia americana, qui una storia russa... E via congetturando). Bravissimi anche Vincent Cassel e Armin Mueller-Stahl, mentre Naomi Watts è un po' troppo matrioska, a mio parere; ma forse la colpa non è sua, bensì del personaggio che interpreta... Ad ogni modo, tutto quel che ho appena scritto è una misera accozzaglia di appunti, basati su ricordi gentilmente offerti dalla mia sgangherata memoria visiva; quel che è certo è che il film è un capolavoro, da vedere e rivedere, tentando di avvicinarvisi come una parabola fa con il proprio asintoto.

mercoledì 12 dicembre 2007

Paranoid Park

Gus Van Sant è uno dei miei autori preferiti, i suoi capolavori a mio parere sono Drugstore Cowboy (1989) e Elephant (2003). Proprio a partire da quest'ultimo, Van Sant ha intrapreso un cammino stilistico assai particolare, proseguito con il successivo Last Days (2005) e giunto oggi all'estremo Paranoid Park (che non potendo vincere un'altra Palma d'Oro ha ricevuto a Cannes il "Premio per il 60° Anniversario" del festival). Il mondo filmato da Van Sant è privo di alcuni tratti fondamentali che caratterizzano la "normale" esperienza della cosiddetta realtà: in primo luogo a mancare sono le connessioni causa/effetto, la cui assenza trasforma le storie narrate dal regista in una serie di avvenimenti poco più che casuali, senza alcun apparente legame a parte il loro svolgersi in successione sulla superficie dello schermo. A questa mancanza di senso "esteriore" corrisponde un altrettanto profondo vuoto interiore dei personaggi: incapaci di trovare un motivo per le loro azioni, i ragazzi e le ragazze su cui - quasi unicamente - si concentra lo sguardo di Van Sant sono vittime della casualità degli avvenimenti che li riguardano, e che sempre irrimediabilmente li travolgono; ma questo accade senza che la loro psiche o la loro interiorità ne soffra particolarmente, dato che psiche e interiorità di questi giovani personaggi paiono ridotte ai minimi termini. Del tutto privi di sentimenti di solidarietà e di empatia, i protagonisti di Van Sant sono automi freddi e sradicati, dèditi a reiterare azioni primarie ed elementari, e condannati a vagare senza meta nella luce livida e altrettanto glaciale della metropoli o della provincia americana. Nello stile di Van Sant due elementi sono poi particolarmente rilevanti e coerenti con le tematiche scelte: il montaggio e la colonna sonora. Nel primo caso, alla predetta casualità degli avvenimenti narrati (a livello semantico) si accompagna la casualità del loro accostamento narrativo (a livello sintattico): il montaggio è infatti apparentemente casuale, mescola i diversi piani narrativi e i diversi punti di vista per giungere alla costruzione della storia attraverso un racconto frammentato e sghembo, fitto di flashback e prolessi mediante i quali l'enunciazione intende confondere lo spettatore, per renderlo partecipe dello stato quasi catatonico in cui si trova il protagonista. Strumento atto al medesimo scopo è la colonna sonora: lo spettatore è infatti spesso incapace di stabilire se i suoni e le canzoni siano on, off oppure over (la voce narrante di Alex in Paranoid Park, in apparenza un monologo interiore che commenta gli avvenimenti mentre accadono, si rivela al termine del film la lettura di una lettera scritta dal protagonista stesso nel finale della storia); tanto più che al pari del montaggio visivo anche quello sonoro procede in modo discontinuo, abbinando rumori e voci a segmenti visivi ai quali essi non "appartengono", essendo relativi ad avvenimenti anteriori o posteriori nella storia. In Paranoid Park (tratto da un romanzo di Blake Nelson) il vuoto emotivo del protagonista è rappresentato dalle lunghe riprese amatoriali di skateboarding al rallentatore che - con una colonna sonora di ballate retrò totalmente fuori contesto - riempiono i pensieri del personaggio, incapace di provare emozioni di livello più che elementare (paura e disgusto). La visione antropologica di Van Sant è senz'altro terrificante, ma non conosco nessun altro regista che sappia entrare con tale dolorosa profondità, e agghiacciante disincanto, nell'animo giovanile contemporaneo. Assenza di sentimenti, nessi logici, motivazioni; conformismo e consumismo come unici punti fermi di esistenze poco più che biologiche. Non manca molto a tutto questo e anzi, forse già ci siamo.

mercoledì 5 dicembre 2007

The Kingdom

Da Peter Berg, regista del mitico Cose molto cattive (Very Bad Things, 1998) e di questo film, mi aspettavo di più. Invece The Kingdom non è niente di speciale. Trattasi di film d'azione semi-manicheo ambientato in Arabia Saudita, dove una squadra di agenti speciali dell'FBI deve indagare su un attentato che ha colpito una comunità di residenti americani, impiegati delle compagnie petrolifere. Ci sono riferimenti ad Al-Qaeda, Osama ecc., il film ha qualche velleità socio-politica: ma tali velleità sono vane, perché non c'è traccia di riflessione o di dubbio lungo le due ore di durata; soltanto la scena finale contiene un bagliore di consapevolezza, un po' pochino. Quindi, dicevo, pura azione: il film è prodotto anche da Michael Mann, e lo si vede chiaramente nell'ultima parte in occasione di un conflitto a fuoco saturo di adrenalina (alla lunga, però, non immune dalla sindrome-sparatutto). Personaggi poco più che robotizzati e interpretazioni scadenti, a cominciare da quella di un Jamie Foxx del tutto fuori parte.

martedì 4 dicembre 2007

Across the Universe

Un interessante ma freddino concept movie. Così definirei Across the Universe, ultimo film di Julie Taymor (il suo precedente è il ben noto Frida, ma la Taymor è soprattutto una regista teatrale, qui qualche notizia). Curiosa coincidenza che questo film esca a poca distanza dal bellissimo I'm not there, con il quale condivide l'idea di base: partire dalle canzoni e dalle biografie di mostri sacri della musica "pop" contemporanea (là Bob Dylan, qui i Beatles) e cercare di ricavarne storie buone per lo schermo. La Taymor non è Todd Haynes, e Across the Universe è assai diverso da I'm not there, anche se non proprio da buttare. Qui il canone del musical è il punto di riferimento principale: le canzoni dei Beatles cantate dagli attori sono gli snodi del film e il suo punto forte, anzi si può dire che il copione sia stato sviluppato usando i pezzi più gloriosi dei Fab Four come puntelli. Poi ci sono altre amenità: Jude, il protagonista, arriva a New York da Liverpool all'inizio dei '60 scorsi e porta un caschetto inconfondibile, mentre Lucy perde il fidanzato in Vietnam e si trasferisce a sua volta nella Grande Mela, in un appartamento assieme a Sadie (tipa assai sexy che canta come Janis Joplin), alla cara Prudence e a un chitarrista di colore che suona e veste come Jimi Hendrix e ha una storia con Sadie. Un altro inquilino dell'appartamento, Max, somiglia un po' troppo a Kurt Cobain, mentre fanno comparsate i veri Joe Cocker e Bono Vox. Detto questo, a tratti il film è una vera palla, specialmente negli inserti psichedelici virati in acido; ma alla fine il baraccone resta in piedi, grazie alla dose massiccia di immaginario pre- e post-sessantottino post-modernamente riciclato per l'occasione. Soltanto una domanda: che bisogno c'era?

Lascia perdere, Johnny!

Un mezzo pasticcio l'esordio alla regia di Fabrizio Bentivoglio; eppure al film non mancavano certo i crediti, a cominciare dal cast: Toni Servillo ed Ernesto Mahieux, per cominciare, più lo stesso Bentivoglio semi-protagonista. Recitazioni impeccabili, per carità; ma anche Servillo (che del resto appare in un ruolo marginale, da star conscia della propria grandezza) gigioneggia e alla fine perde ai punti con il fratello Peppe, fondatore degli Avion Travel ma anche ottimo attore; mentre Mahieux non aggiunge nulla a una macchietta che sembra uscita dal cinema italiano di serie B degli anni '50. Si respira aria di commedia all'italiana in Lascia perdere, Johnny!, ma è aria viziata: Bentivoglio non ha particolari doti registiche e perde ben presto il controllo del film, fra personaggi che compaiono e scompaiono senza motivo, buchi di sceneggiatura e uno svolgimento che in realtà è un insieme di scenette buono solo per giustificare qualche bella performance da cantante di Peppe Servillo (lui e Bentivoglio sono molto amici, qualche anno fa girarono il Paese con un concerto-spettacolo teatrale degli Avion Travel). La storia non ha senso, le gag non fanno ridere, si ha l'impressione che tutti siano lì per divertirsi senza preoccuparsi troppo del risultato. Un sacco di talento sprecato dunque: a quello degli attori (ci sono anche Lina Sastri e Valeria Golino, oltre al giovane esordiente protagonista Antimo Merolillo, non male) si aggiungono quello di Luca Bigazzi alla fotografia e di Domenico Procacci, alla produzione con la sua Fandango. Mi fa rabbia, e spero serva di lezione a Bentivoglio e a chi come lui pensa che un perfetto commediante debba per forza essere anche un regista decente.

Nella valle di Elah

Bellissimo e sconvolgente. In the valley of Elah conferma Paul Haggis uno dei migliori sceneggiatori americani di oggi, oltre a metterne in piena luce il talento registico già affiorato con il precedente Crash. Il copione ha un impianto splendidanebre anticonvenzionale: per gran parte del suo svolgimento esso sembra configurare un perfetto plot di genere investigativo che ha le apparenze di una cupa e serrata indagine poliziesca di ambientazione militare; ma nell'ultima parte il film svela la sua vera natura di riflessione morale ed esistenziale sull'America contemporanea: dopo avere creato una tensione altissima ed avere prefigurato la soluzione dell'enigma, Haggis libera improvvisamente l'opera dalle sovrastrutture di genere, facendo "implodere" drammaturgicamente l'indagine narrata per lasciare un vuoto attraverso il quale traspare l'assurda condizione della società statunitense, simboleggiata perfettamente dal proprio apparato militare. Livido e quasi privo di speranza, In the valley of Elah diviene ancora più agghiacciante quando si ricorda che il film racconta fatti realmente accaduti negli Stati Uniti alla fine del novembre 2004, proprio mentre in Iraq stava avendo luogo la terribile "offensiva" di Falluja, durante la quale gli americani utilizzarono le tristemente note bombe al fosforo bianco (le cui tremende conseguenze sulla popolazione vengono mostrate nel film dai video amatoriali dei soldati statunitensi).
Haggis è poi magistrale nel delineare i suoi personaggi: nonostante il film segua per buona parte i canoni del genere poliziesco, i mirabili personaggi del film vengono connotati più attraverso le loro reticenze, le loro stasi e i loro silenzi che mediante le parole o le azioni. In questo il regista è ben coadiuvato dalla straordinaria recitazione dei protagonisti: Tommy Lee Jones è in stato di grazia, la sua interpretazione è quanto mai sofferta, partecipe e commovente, senza mai nemmeno lontanamente sfiorare il patetico e anzi rifuggendolo con tutte le forze. L'attore, ormai senza dubbio uno dei più grandi del panorama internazionale, è giunto alla sua apoteosi e il suo personaggio, duro, profondo e controverso, rimarrà nella Storia del cinema. Bravissima anche Charlize Theron, attrice vera e matura, qui ancora alle prese con un personaggio complesso dalle molte sfumature al quale sa conferire profonda umanità e dolcezza, assieme alla coscienza della propria impotenza di fronte agli eventi e a una rabbiosa volontà di farvi fronte, o almeno tentare; ricordo infine Susan Sarandon, mater dolorosa e allucinata, alla fine senza più lacrime da versare.

venerdì 30 novembre 2007

Rai Uno, il girone dei Benigni

Senza volerlo - sia chiaro - ieri sera ho assistito a una decina di minuti dello "spettacolo" di Roberto Benigni sul primo canale del servizio pubblico. Non mi ero informato e non sapevo perché Benigni tornasse in televisione, avevo soltanto sentito le réclame nei telegiornali, sempre del servizio pubblico: uno show fatto di "satira, sesso e lettura di Dante", dicevano. Boh. Comunque, ad un certo punto mi ritrovo davanti il toscanaccio nazionale, quello che aveva cominciato da TeleVacca e dall'Inno-del-corpo-sciolto, tutto tirato a lucido, ben pettinato e infilato dentro un bell'abito stile Prada o D&G, o roba simile. Lo guardo distrattamente e penso: cosa gli è capitato? No, lo so, sono io ad avere perso colpi; del resto non ho mai seguito molto Benigni, non ho nemmeno mai visto La vita è bella, ahimè. Ad un certo punto vedo che Benigni  ha vicino a sè un leggìo, così comincio anche ad ascoltare quello che dice, per quanto difficile sia distinguere le parole nel suo eloquio torrenziale: giuro, mi perdo un terzo di quello che gli esce di bocca, per quanto la sua pronuncia è stropicciata; penso: si fermerà un momento, e le terzine del Poeta, che sublimano qualunque umana voce lor si presti, faranno il resto... No. Il leggìo rimane in disparte, mentre Benigni va avanti per la sua strada: ce n'è per tutti (quelli dell'altra parte), Berlusconi Fini Casini Ferrara Calderoli Maroni Buttiglione Storace ecc. ecc. Nulla di male per carità, ci mancherebbe; però mi ha lasciato un po' perplesso il tono delle "gag". Per esempio, vado a memoria: "Buttiglione... Buttiglione è uno che secondo me manco c'ha più il pisello... Ha raggiunto l'atarassia... [...] Rocco si scherza eh? Rocco, 'un me fa' causa ti prego... Comunque non credo che mi farebbe causa, perché se dico che Buttiglione c'ha tre o quattro piselli e lui mi fa causa, poi ci ritroviamo davanti al giudice e lui gli deve fa' vedere quanti piselli ha se vuole vincere... Rocco... Si scherza... Rocco e i suoi piselli...". Imitando Storace: " Ma che cazzo fanno 'sti frosci fiji de 'na mignotta?" e via così. Sono rimasto lì davanti dieci minuti scarsi, e devo aver sentito la parola "cazzo" una decina di volte: una media interessante, da prima serata del primo canale del servizio pubblico. E chi poi si lamenta della volgarità diffusa e imperante non ha capito nulla: no, perché questo è uno spettacolo per famiglie, uno spettacolo di beneficenza (Benigni ripete spesso: "mandate i messaggini eh? Più sono meglio è", così deduco che sia in atto una raccolta fondi) e di alta cultura. Chissà se più tardi Benigni avrà letto il Paradiso. Mi fa tremar le vene e i polsi soltanto pensarci.

mercoledì 28 novembre 2007

Olocausto Canadese

Non è uno scherzo. Presente il Canada? Il secondo Paese più grande al mondo, quel posto che nei film di Michael Moore sembra il paradiso in terra, dove nessuno spara e dove le porte delle case sono sempre aperte? Lavorando, qualche tempo fa mi sono imbattuto in un file PDF che mostra tutta un'altra faccia del pacioso grande Paese nordamericano. Il file lo trovate qui. Cosa c'è scritto? Traduco alla meglio le prime parole: "Nascosto dalla Storia. L'Olocausto Canadese. La storia mai raccontata del genocidio delle popolazioni aborigene da parte della Chiesa e dello Stato in Canada. Rapporto su un'inchiesta indipendente e ancora in corso sopra le 'Scuole Residenziali' per Nativi Canadesi e il loro retaggio". E via così. Ancora una volta devo ammettere la mia orrida ignoranza della Storia contemporanea, mentre devo ammettere di non ricordare alcun contributo alla memoria di questo evento da parte dell'arena mediatica nazionale (ma c'è qualcosa di strano in questo?). Wikipedia contiene una breve voce sull'argomento, voce che si può riassumere pressappoco così: Hidden From History: The Canadian Holocaust è un libro di Kevin Annett, ex appartenente alla Chiesa Unita del Canada, che per il libro ha raccolto numerosissime testimonianze di prima mano di nativi sopravvissuti alle residential schools, e che a causa delle sue pubblicazioni (incluso un sito web) è stato più volte in pericolo di vita (cronologia). Secondo Annett, soprattutto fra la fine del XIX e la metà del XX secolo, le residential schools divennero campi di lavoro forzato e luoghi di sterminio, nei quali ad esempio i bambini aborigeni venivano deliberatamente esposti al contagio della tubercolosi o utilizzati come cavie per test farmacologici, il più delle volte letali; secondo le testimonianze raccolte le scuole erano pure luoghi di abuso fisico e sessuale, anche nei confronti dei più giovani. In Canada esiste persino una "Società dei Sopravvissuti alle Scuole Residenziali Nazionali" (traduzione dal titolo del sito web).
Più leggo, più mi sembra assurdo che certe cose rimangano fuori dai discorsi mediatici che definiscono le priorità dell'opinione pubblica. Chissà cosa studiano i ragazzini d'Italia nelle loro "scuole superiori", chissà dove si fermano i programmi di Storia al 5° anno. Immagino che lo studio della Storia - non soltanto a livello universitario - sia una delle avventure intellettuali più avvincenti, e rimpiango di non avere intrapreso seriamente quel cammino: da giovani si compiono errori, ma forse l'errore più grande è non tentare di rimediare in seguito. Occuparsi di Storia è occuparsi a fondo della natura umana, con i suoi abissi e i suoi vertici; significa perlomeno elevare l'esercizio della memoria a disciplina e a stella polare della propria esistenza, per tentare infine di comprendere le
ragioni dell'oggi e le potenzialità del futuro.

mercoledì 21 novembre 2007

Meduse

Piccolo prezioso film proveniente da Israele, Meduzot (regia di Etgar Keret e Shira Geffen) arriva in Italia grazie alla distribuzione della Sacher di Nanni Moretti; ed è una delizia. Vite che si sfiorano appena sullo sfondo di una Tel-Aviv trasognata e sospesa, sconfinamenti senza soluzione di continuità nel sogno, nel ricordo e nella fantasia: vero, bellissimo realismo magico. Purtroppo non conosco quasi per nulla la cultura ebraica, e perdo così buona parte dei segni e rispettivi significati che costellano il film; ma l'opera è assai densa e complessa, nonostante la sua apparente levità, con una ingente stratificazione semantica. Non c'è molto da aggiungere: si tratta di un lavoro geniale, perfettamente scritto, diretto e interpretato, al centro del quale stanno la memoria, la ricerca di sè attraverso il ricordo e il desiderio di amare ed essere amati, contro ogni avversità. Imperdibile.

L'abbuffata

Un pasticcio totale, ecco cos'è l'ultimo film di Mimmo Calopresti. Anzi, si potrebbe pure parlare di schifezza. Dico subito delle (pochissime) cose buone del film, così poi mi posso sfogare: la cosa migliore è la colonna sonora, firmata da Sergio Cammariere e dal Parto Delle Nuvole Pesanti: credo siano brani inediti, almeno quelli di Cammariere, ma non mi sono informato; le canzoni sono belle, parole e musica del sud, calore, ritmo e voci scure. C'è Diego Abatantuono, la migliore interpretazione del film - anche se non proprio sopraffina perchè un po' gigionesca; ma il suo personaggio è di gran lunga il più bello, il suo dolore è reale e si percepisce chiaramente anche sotto le battute troppo facili. Poi ci sono i due cammei di Donatella Finocchiaro e Valeria Bruni Tedeschi: le due attrici sono brave come sempre e salvano i propri personaggi, anche se in extremis. Ok per Paolo Briguglia ed Elena Bouryka, ma niente di più. Il paesaggio è quello della Calabria, ma come merito del film è un po' stiracchiato.
Tornando dunque al gran pastrocchio di Calopresti: boh... Cosa gli è capitato, cosa voleva fare? Se il suo scopo era un film sulla spazzatura cinetelevisiva contemporanea, bisogna dire che si sia avvicinato così tanto al proprio soggetto da venirne irrimediabilmente contaminato, con il risultato che anche il suo film è spazzatura. Se vuoi raccontare l'assurdo non puoi farlo in modo assurdo, Mimmo; altrimenti dove sta la differenza fra te e loro? Passi che tu ti metta a fare il protagonista del film senza saper recitare, ma proprio per niente; va bene, può essere un riferimento ai molti attori che non sanno fare il proprio mestiere, oltre che una risposta a tutti quelli che ti dicono sarebbe meglio tu rimanessi dietro la macchina da presa (per evidenti motivi). Ma il film non sta in piedi, Mimmo: questo non è cinema, non è niente! Non ci sono quasi personaggi, non c'è uno straccio di storia con un pezzetto di significato al di là dell'ovvio, o una battuta da ricordare. Se volevate divertirvi, tu e i tuoi amici, andavate a cena fuori per gli affari vostri! E Depardieu, cosa mi rappresenta Depardieu, perché sta nel film? Volevi girare una "favola" sul Paese che va a picco? Sui cari vecchi valori di una volta che ci possono salvare? Dài, Mimmo... Nè capo nè coda, solo due ore buttate via dentro un cinema.

Piano, solo

Una bella sorpresa l'ultimo lavoro di Riccardo Milani, scritto con Ivan Cotroneo, Sandro Petraglia e Claudio Piersanti: il film è una dolorosa e commovente biografia del pianista jazz Luca Flores, scomparso tragicamente nel 1995. Flores è stato uno dei più grandi musicisti jazz italiani di sempre: compositore e performer eccelso, ha suonato con Chet Baker, Dave Holland, Massimo Urbani (qui un sito web a lui dedicato, per chi volesse conoscere meglio la sua musica). Milani ultimamente aveva lavorato molto per la televisione: sue per esempio furono le fiction RAI sul sequestro Soffiantini e su Cefalonia; però il regista, classe 1958, non cade nell'errore di girare un film per la tv: Piano, solo è la narrazione lancinante della tragedia di un'anima tormentata dalla malattia, ma i suoi toni sono trattenuti e non vi è alcuna spettacolarizzazione del dolore; piuttosto, un'intima empatia verso il protagonista del racconto e verso la sua famiglia, e una ammirazione silenziosa e discreta. Un grande applauso a tutto il cast: prima di tutti a Kim Rossi Stuart, grandissimo, che oggi è uno dei migliori attori italiani e che affronta questo ruolo con misura ma con profondo trasporto; poi a Jasmine Trinca, anche lei oramai a pieno titolo nella meglio gioventù del nostro cinema: una ragazza di 26 anni che ha iniziato a recitare quasi per caso ma ha presto dimostrato di saper fare ogni tipo di parte. Lode pure a Paola Cortellesi, molto brava: come per tutti i veri comici, anche dietro la sua maschera si celava un grande talento drammatico, del quale per fortuna i registi nostrani si sono accorti in fretta. Ottimi coprotagonisti sono poi Michele Placido - maestoso nella sua cauta saggezza attoriale - e Sandra Ceccarelli, magnetica come sempre, assieme a Corso Salani, Mariella Valentini, Claudio Gioè e Roberto De Francesco.

Ai confini del Paradiso

Fatih Akin è nato nel 1973. Non l'avrei mai detto, specialmente dopo aver visto il suo ultimo, bellissimo Auf der anderen Seite (il titolo turco è Yasamin kiyisinda). Un film del tutto diverso dal precedente Gegen die wand (uscito in Italia con lo stupido titolo La sposa turca, quando la traduzione letterale sarebbe stata perfetta: "Contro il muro"); avevo molto amato anche quel film, ma gli preferisco quest'ultimo: perché Akin, a 34 anni, ha alzato la posta scrivendo e dirigendo un'opera di gran lunga più complessa, misteriosa e struggente. La sceneggiatura è davvero splendida, ed è costruita con sapienza impressionante: il copione, vincitore a Cannes 2007, è tecnicamente ineccepibile nell'incrociare i destini di diversi personaggi, così come nell'inusuale e perfetta architettura narrativa; nello stesso tempo, mostra una profonda attenzione alla psicologia dei singoli personaggi, superbamente delineati durante i molti cambiamenti che le loro esistenze gli impongono. Il merito maggiore della scrittura di Akin è quello di saper stemperare la propria possente geometria nell'emozione che scaturisce dalle relazioni fra i personaggi, trasformandosi così in racconto mirabile. Come in quasi tutti i film del regista turco-tedesco, gli avvenimenti si svolgono fra la Germania, a Brema, e la Turchia, a Istanbul e Trebisonda: questo contrasto fra le due estremità dell' Europa che fondano l'identità stessa del regista di Amburgo, oltre a sostanziare le simmetrie incrociate che stanno alla base del film, sottolinea la distanza fra i personaggi e la loro volontà, o non volontà, di ritrovarsi. Ottime le recitazioni di tutti i protagonisti, intensi e seducenti.

sabato 17 novembre 2007

Dedicato (con invidia) a chi sa ancora sperare

Questa mattina ho trovato su BlogBabel il link a questo articolo di Repubblica. L'articolo risale a un giorno e quattro ore fa (in questo momento), il fatto a cui si riferisce lo precede di un giorno. Tutti i giorni visito più volte il portale web dell'Ansa, dove questa "notizia" non è mai apparsa. Sul nuovo sito del Corriere, nemmeno. Nulla nei TG. Un fatto senza peso? Su BlogBabel si può trovare la discussione (assai esile) che l'articolo ha generato nella blogosfera italiana: non ho quasi nulla da aggiungere, a parte che in alcuni interventi ho notato una certa propensione a ignorare i possibili significati del fatto riportato, per concentrarsi su aspetti "tecno-sociologici" o addirittura per giustificare, banalmente e con motivazioni assurde e incomprensibili, gli autori del gesto. Nessuna rilevanza data all'aspetto "razziale" della vicenda, per fortuna. Segno che l'integrazione ha smesso di essere un problema? Lo spero. Per quanto mi riguarda, rimango attonito e allibito, in un silenzio interrogativo che non otterrà risposta alcuna, evidentemente. Per inciso, l'Ansa riporta in queste ore un'altro evento agghiacciante, accaduto negli Stati Uniti ma legato al precedente da un filo ancora quasi invisibile: il filo che conduce alla faccia più oscura della tecnologia, a ciò di cui si parla soltanto per lanci d'agenzia (quando capita) o brevi flash mediatici destinati all'evanescenza. Ma il bullismo elettronico, fenomeno in Italia ancora ignorato, non resterà a lungo una semplice etichetta da appiccicare a fatti di cronaca nei quali la violenza giovanile si mescola all'utilizzo "pop" della telematica: c'è ben altro in ballo. Il cyberbullying è soltanto uno degli aspetti sensibili della rivoluzione in corso, oscura e inquietante. Non ho idea di cosa stia accadendo; immagino abbia a che fare con la tecnologia e la scienza e con l'impatto che esse avranno sulle vite e sulle coscienze, rimodellandole in modo imprevedibile; e non saranno soltanto rose e viole, questo è certo. L'onda è ancora lontana, ma si avvicina alla riva. Saremo pronti? Non credo.

lunedì 12 novembre 2007

The Bourne Ultimatum

Avevo visto il primo film della serie quando era uscito, qualche anno fa, e mi ero divertito molto. Poi ho visto in DVD il secondo, che era molto diverso dal primo, e mi aveva detto poco (forse, anzi sicuramente, perché non l'avevo visto sul grande schermo, e in una sala buia: andare al cinema fa ancora molta differenza, anche per un action movie). Infine ho visto il terzo episodio, che invece è davvero uno spettacolo pirotecnico, pura adrenalina, una goduria. The Bourne Ultimatum, come il capitolo precedente The Bourne Supremacy, è diretto da Paul Greengrass (Bloody Sunday, United 93) e scritto da Tony Gilroy; il primo episodio invece era diretto da Doug Liman e si vedeva, perché c'era meno azione e qualche articolato tentativo di introspezione, se non ricordo male. Greengrass e Gilroy hanno cambiato molto il personaggio, lavorando di sottrazione e compensando con un copione a prova di bomba e dosi massicce di montaggio tarantolato più macchina a mano, condendo infine il tutto con repentini cambi di ambientazione (Ultimatum è stato girato a Mosca, Londra, Torino, Madrid, Tangeri e infine New York). Matt Damon è talmente bravo che il suo personaggio, un ex assassino della CIA vittima di un programma di addestramento "sperimentale", riesce ancora a sembrare un essere umano nonostante il volto costantemente corrucciato e la (finta, voluta, apparente) inespressività. La saga è stata tratta da un romanzo di Robert Ludlum: non so quanto vi sia del testo di partenza, ma so che in platea tocca trattenere il fiato per quasi due ore, incollati alla poltrona. Anche questo è Cinema, per fortuna.

Un'altra giovinezza

Youth Without Youth è il titolo originale dell'ultimo film di Francis Ford Coppola, tratto dal romanzo omonimo di Mircea Eliade, pubblicato in rumeno, negli Stati Uniti, nel 1976 (titolo originale: Tinereţe fără de tinereţe). Evito di fare una riassunto di pessima qualità della voce inglese di Wikipedia che lo riguarda, e lascio il link per chi voglia approfondire. Non posso dire che il film mi sia piaciuto, ma neppure che si tratti di un film sbagliato, o brutto. Anzi. Francis Ford Coppola non è mai stato uno stupido per quanto ne so, e in questo film deve avere creduto molto, se non altro perché si tratta del suo ritorno dietro la macchina da presa dopo dieci anni, dai tempi cioè di L'uomo della pioggia. Credo che per apprezzare il film fino in fondo sarebbe stato necessario conoscere il romanzo di partenza, che è probabilmente un compendio delle teorie filosofiche e delle conoscenze storico-linguistiche e religiose di Eliade sotto forma narrativa. Non sapendo nulla del libro, mi limito a parlare di quel che ho visto sullo schermo. Il film, a partire dal titolo originale, è dominato dal tema del doppio, in particolare come riflesso speculare del sè. Il montaggio del mitico Walter Murch sottolinea assai bene questo tema, sicuramente arduo da affrontare visivamente. Anche Tim Roth, bravissimo protagonista del film, fa un ottimo lavoro nello sdoppiarsi in due diverse personalità (anche se è talvolta a disagio nel ruolo del protagonista da anziano; e d'altronde questo personaggio è per Roth una sfida, essendo assai lontano dai ruoli che si è soliti riconoscergli come "ideali"). Ad ogni modo, a causa di questa dominanza tematica del doppio, il film soffre talvolta di eccessivo schematismo, mentre in altri momenti rischia di divenire patetico e quasi morboso, cosa sottolineata dalla fotografia crepuscolare e a tratti stucchevole. Nel cast ci sono Bruno Ganz, sempre straordinario, Alexandra Maria Lara, intensa e anch'ella in un doppio ruolo, nonchè il buon Matt Damon in veste di comparsa.

Giorni e nuvole

Finalmente è tornato anche Silvio Soldini, tre anni dopo Agata e la tempesta; questo Giorni e nuvole ha tutta l'aria di essere un'opera "minore" (sia detto senza alcuna connotazione negativa) nella cinematografia del regista milanese, per più di una ragione. Innanzitutto manca la fotografia di Luca Bigazzi, quasi un marchio per i film di Soldini (e sarebbe stato davvero bello vedere la sua interpretazione di Genova, città nella quale il film è ambientato); poi manca Licia Maglietta, che se non altro è l'attrice con la quale ha girato i migliori film del recente passato. Ma non si tratta soltanto di cast&credits: Giorni e nuvole è un film sommesso e accorato, con unità di luogo e concentrato su due soli protagonisti, la coppia formata da Elsa (Margherita Buy) e Michele (Antonio Albanese). Un film realistico: totalmente legato alla realtà contemporanea, disincantato e amaro, quasi privo di quelle spendide aperture al caso e all'inatteso che per i protagonisti di tanti film del regista segnano l'inizio di un'esistenza nuova. In Giorni e nuvole è come se Soldini facesse definitivamente i conti con questo aspetto del suo cinema: anche qui è l'inatteso a dare il via alla storia, e anche qui le esistenze dei protagonisti sono destinate a mutare radicalmente; ma la sostanza del film è assai diversa da quella, ad esempio, di Le acrobate o di Pane e tulipani. Giorni e nuvole è caratterizzato da uno sviluppo narrativo quasi assente: non ci sono svolte, vertici o cadute, ma soltanto una accumulazione di brevi segmenti narrativi che mostrano situazioni tipiche e ripetute. Il montaggio è assai indicativo di questo nuovo tipo di narrazione: le scene sono molto brevi, girate spesso con un'unica macchina da presa, mentre gli stacchi fra una scena e l'altra intervengono proprio quando pare che la tensione narrativa del singolo segmento stia salendo; in altre parole, Soldini sembra voler trasmettere allo spettatore stesso la frustrazione di cui sono vittima i suoi protagonisti, allo stesso tempo dando l'idea della nuova, imperfetta e - è il caso di dirlo - precaria esistenza quotidiana di Elsa e Michele. E' come se il Soldini di Agata e la tempesta si fosse calato dalla atemporalità stralunata del suo film precedente alla contemporaneità triste e banale delle vite di molti di noi. Ma c'è sempre un punto di fuga, foss'anche soltanto la volta affrescata di una cappella riportata alla luce da Elsa dopo un lungo lavoro di restauro: alla fine del film i due protagonisti si rispecchiano dal basso in quell'affresco, scoperto passo dopo passo proprio come il montaggio del film, scena dopo scena, procede nel denudare l'esistenza dei protagonisti per lasciarli infine alla estatica contemplazione dell'unica cosa che gli è rimasta, il loro legame. Il finale, bellissimo, è la sola parte del film in cui la poetica del regista si fa evidente, ma Giorni e nuvole rimane un film differente: esperimento o svolta radicale è difficile a dirsi, data la magnifica imprevedibilità del lavoro di Soldini. Sta di fatto che Antonio Albanese è un bravissimo attore, anche se non è una novità; mentre Margherita Buy, pur in una delle sue parti migliori, dimostra ancora una volta di possedere uno spettro espressivo non particolarmente ampio. Elogio infine a Giuseppe Battiston: come Soldini si è accorto da tempo, l'attore friulano ha un valore inestimabile, essendo forse l'unico vero caratterista a tutto tondo del cinema italiano di questi anni. Anni Buy, appunto.

La giusta distanza

Non mi ha convinto l'ultimo film di Carlo Mazzacurati, e anzi ho faticato talvolta a riconoscere l'autore - che ho sempre apprezzato moltissimo - dietro le sue immagini e i suoi personaggi. Eppure il regista padovano con La giusta distanza è ritornato ai luoghi del suo lavoro d'esordio, il bellissimo Notte italiana: a fare da sfondo alle vicenda narrata, oggi come allora, è il paesaggio del Basso Polesine, vicino al delta del Po; oggi quel paesaggio viene mostrato attraverso la fotografia di Luca Bigazzi, certamente il miglior direttore della fotografia oggi in Italia; e Bigazzi fa molto bene il suo lavoro, come al solito, trasformando il paesaggio nel vero protagonista del film. Il problema, per uno che conosca almeno un po' quei luoghi, è proprio la distanza fra il modo in cui sono raffigurati nel film e la loro, oserei dire, ontologia. Bigazzi si accosta al paesaggio con grande rispetto, sapendo di esservi straniero, lui che tanti anni fa esordì splendidamente assieme all'amico Silvio Soldini con un nuovo tipo di rappresentazione dello spazio urbano (penso a Giulia in Ottobre e a L'aria serena dell'ovest): la sua fotografia è sommessa, tenue, e si tiene lontana dalle potenziali suggestioni "bucoliche" di quelle terre remote; eppure è una fotografia, che non aderisce alla realtà di quei luoghi, finendo - a mio parere quasi per eccesso di eleganza, o di ricerca formale - con l'allontanarsi dallo spirito dei luoghi e con l'offrirne una rappresentazione a volte scontata, altre volte eccessivamente "poetica". Le terre del Delta sono estreme in ogni senso: in quei luoghi l'animo si trova contemporaneamente di fronte all'Infinito e al Nulla, mentre la rappresentazione di Mazzacurati e Bigazzi tende ad attenuare le specificità del paesaggio, integrandolo nella generica e inflazionata idea cinematografica della "provincia italiana", con tutte le approssimazioni che ne conseguono. Questa banalizzazione dei luoghi fa il paio con quella dei personaggi: non soltanto di quelli secondari, nel film poco più che macchiette, ma soprattutto dei protagonisti. Buona è l'interpretazione di Hassan data da Ahmed Hafiene, discreta quella di Mara ad opera di Valentina Lodovini; ma entrambi i personaggi a mio parere hanno difetti di scrittura, specialmente quello della ragazza (non è ben chiaro quanto la sua superficialità e il suo comportamento quasi casuale siano volontà oppure "sviste" del copione, o della regia). Anche il narratore, Giovanni, interpretato dal notevole esordiente Giovanni Capovilla, è controverso: per tre quarti del film la sua presenza sulla scena è strumentale soltanto a quella della sua voce narrante, oltre che al tentativo di costruire un intreccio giallo peraltro assai malriuscito. E proprio la volontà di Mazzacurati di girare un film che, partendo da sotto-generi ben precisi (film "di provincia", storia d'amore interrazziale, giallo, film di denuncia) risulti altro dalla sommatoria dei sotto-generi stessi, porta alla estrema fragilità dell'impianto narrativo, lontanissimo dalla solidità e dalla compattezza di opere come Un'altra vita, Il toro o Vesna va veloce; mentre qui, e dispiace molto dirlo, si è ancora una volta più vicini allo sguardo e alla dimensione della fiction televisiva. Mazzacurati, a differenza di quello che accade al suo giovane protagonista, non sa tenere la giusta distanza: il suo sguardo vuole essere troppo comprensivo, e così il regista si allontana dall'umanità dei suoi personaggi e dallo spirito dei suoi luoghi.

mercoledì 24 ottobre 2007

Michael Clayton

Era da un pezzo che non mi emozionavo tanto per un film. Michael Clayton, scritto e diretto da Tony Gilroy - al suo esordio dietro la macchina da presa - è davvero bellissimo, un piccolo capolavoro. Il merito è molteplice: prima di tutto la sceneggiatura è un gioiello, senza difetti, complessa ma trasparente, capace di scavare nell'animo dei personaggi senza provocare cali di tensione nella storia, e di far funzionare in modo impeccabile il flashback che sta alla base del racconto. La regia aderisce perfettamente al copione, secca e tagliente, forte ed essenziale: bisogna davvero congratularsi con Gilroy, alla sua prima prova ha fatto subito centro (mentre come sceneggiatore aveva già messo a segno diversi colpi, essendo l'autore della saga di Jason Bourne, di Rapimento e Riscatto e di L'avvocato del Diavolo, per citare alcuni suoi lavori precedenti). E poi c'è la recitazione: non avevo mai visto un George Clooney tanto dolente, amareggiato e misurato, la sequenza dei titoli di coda è da antologia; assieme a lui, grandissimo, ci sono Tilda Swinton, sempre perfetta, un Tom Wilkinson magnificamente disperato e Sydney Pollack, che è sempre un piacere veder recitare. Fotografia di Robert Elswit, musiche di James Newton Howard, produttore esecutivo Steven Soderbergh assieme allo stesso Clooney e ad Anthony Minghella... Insomma, Michael Clayton, in concorso a Venezia quest'anno, è un film nel quale molti hanno creduto: e l'emozione dello spettatore nasce anche dalla percezione di questo impegno, così alto nella ricerca della bellezza e nel racconto del Mistero.

venerdì 19 ottobre 2007

In questo mondo libero

E' tornato anche il nostro caro vecchio Ken Loach, e quando esce un suo nuovo film è sempre come incontrare un amico che non vedevi da tempo e che conosci molto bene. Settantuno anni portati da leone, con la rabbia e l'energia di un trentenne ma la maestria registica della sua età, Ken racconta un'altra storia di ingiustizia della sua Gran Bretagna (questa volta l'attenzione è sul lavoro interinale e sull'immigrazione). E' chiaro che ci sono alcune tipicità nel cinema di Loach: i suoi protagonisti provengono sempre da una certa classe sociale, e ciò che loro capita dipende sempre dal sistema delle classi di cui essi fanno parte. Loach crede nella Rivoluzione, certo; è un regista politicamente impegnato, anzi, è il regista impegnato per eccellenza, se vogliamo continuare ad usare un certo gergo trito e ritrito con il quale si è soliti approcciare il lavoro del cineasta inglese. Eppure, vedendo quasi tutti i film di Loach da Ladybird, Ladybird (1994) in avanti, mi sono convinto che non si tratti soltanto di classi, proletariato, rivoluzione e via dicendo. I film di Loach hanno una dimensione più profonda, una risonanza di eternità: sia che affrontino vicende del passato, sia che guardino in faccia il presente, sono sempre il male e la tragicità della condizione umana a mostrarsi ben evidenti sullo schermo. Lo stesso plot di It's a free world..., opera del bravo Paul Laverty (che ha vinto l'Osella per la migliore sceneggiatura a Venezia 2007), ha una struttura che ricorre in molti altri film di Loach: un personaggio proveniente dal proletariato cerca di uscire dalla propria condizione sconfinando nell'illegalità e finisce col pagarne le conseguenze, impreviste e imprevedibili; eppure ogni film del grande Ken possiede una sensibilità a sè stante, mai replicabile. Come sempre poi, a questa autorialità fortissima fa da contraltare la recitazione perfetta del cast, che riesce a far apparire sullo schermo le persone, non i semplici personaggi; ed è davvero mirabile il modo in cui il taglio documentaristico dei film di Loach riesce a produrre ogni volta una rappresentazione straziante dell'eterna tragedia umana.

Il buio nell'anima

Che delusione l'ultimo film di Neil Jordan. The Brave One comincia bene, fa sperare: i grattacieli di New York che si muovono dietro un vetro deformante, e intanto la voce over della protagonista parla di ricordi, di cose perdute, del cambiamento. Ma poi il personaggio di Erica Bain (Jodie Foster, del tutto fuori forma) cade a pezzi: è la sceneggiatura a volerlo, certo, ma nel seguito del film il copione non sa dare una forma a questo disordine tragico. La storia mette molta carne al fuoco (quello delle pallottole, soprattutto), vuole toccare molti temi ma così facendo, appunto, si sbriciola e perde di senso. Dal punto di vista della drammaturgia, il film non mi è sembrato molto compatto: ci sono diversi personaggi che sembrano entrare in scena ma che poi spariscono quasi inspiegabilmente, e questo fa pensare che non avrebbero nemmeno dovuto esserci. I dialoghi sono a volte implausibili fino all'assurdità, mentre il film si trasforma paradossalmente da dramma introspettivo a poliziesco più o meno spettacolare, ma di seconda mano. La cosa peggiore è il fatto che, dopo aver posto un interrogativo morale non da poco (è lecito farsi giustizia da sè, quando l'Autorità è assente o impotente?), il film risponde ad esso in modo totalmente hollywoodiano, superficiale, ottuso; finge comprensione e umanità, ma il suo è soltanto un modo di chiudere i conti sbrigativamente con il meccanismo filmico del finale catartico, previsto e voluto dallo spettatore. Solo un meccanismo, ecco cos'è The Brave One, e funziona anche molto male.

venerdì 28 settembre 2007

Espiazione

Non molto da dire su Espiazione, tratto dall'omonimo romanzo di McEwan ad opera del regista Joe Wright, già autore di un adattamento da Pride and Prejudice di Jane Austen. Non è un brutto film - come pensavo prima di vederlo, vittima di stupidi preconcetti da trailer e dei pregiudizi su Keira Knightley; non è un capolavoro, certo, ma c'è una buona trovata narrativa: niente di nuovo nella sostanza, ma il film - credo seguendo le tracce del suo ipotesto - si concentra sulla possibilità, grazie alla finzione, di restituire ai personaggi ciò che il destino (narrativo) gli ha tolto. In tal modo Atonement crea una sorta di nastro di Moebius fra realtà e finzione, alla fine (?) del quale coloro che sopravvivono, nel ricordo dello spettatore (rimanendo così, in qualche modo, vivi nella cosiddetta realtà) sono coloro ai quali la realtà (del romanzo) aveva tolto tutto. Potere della finzione appunto, in questo caso utilizzato per espiare un 'peccato' di gioventù dalle terribili conseguenze. Alla fine del film c'è Vanessa Redgrave, cinque minuti di fuoco freddo che valgono da soli il film.

martedì 18 settembre 2007

L'ora di punta/Il dolce e l'amaro

Questi due li metto insieme per diverse ragioni: innanzitutto, sono talmente brutti che insieme non valgono nemmeno il prezzo di un biglietto, e mi rompe perdere troppo tempo su roba simile; poi, entrambi erano in concorso a Venezia, rappresentanti del cinema italiano contemporaneo. Terza ragione: questi due pasticci sono l'ennesima dimostrazione che in Italia spesso se vuoi uscire al cinema devi girare un film per la tv.
L'ora di punta è diretto da Vincenzo Marra, che non è esattamente un regista da buttare (Vento di terra, del 2004, era un bel film, sentito e dolente) e per questo dà il maggior dispiacere: la storia, la semplice trama del film, scritta dallo stesso Marra, è assurda, implausibile; per di più è mal raccontata, piena di buchi, dimenticanze, svarioni drammaturgici. Un mezzo disastro, e il resto lo fanno i personaggi e gli attori, a pari merito: il protagonista, una guardia di finanza dalle umili origini e dalla moralità evanescente che si improvvisa palazzinaro, proprio non sta in piedi; ed è interpretato dall'imbarazzante Michele Lastella, faccia da guappo ed espressioni incontrollabili. C'è Fanny Ardant, va bene, ma anche lei ha due facce in tutto, col sorriso e senza; e la giovane amante del protagonista è imbastita alla meglio su Giulia Bevilacqua, la quale al momento non sembra poter fare meglio che in Distretto di Polizia (non che io guardi Distretto di Polizia, si intende). Il film è prodotto da Rai Cinema.
E veniamo a Il dolce e l'amaro, definito da Marco Muller "il più graffiante film sulla mafia degli ultimi anni" (sic; la citazione l'ho trovata sul sito ufficiale di Donatella Finocchiaro, protagonista del film). La prima cosa che mi è venuta in mente vedendo il film è stata: ma come hanno fatto la Finocchiaro e Luigi Lo Cascio, due attori davvero grandi e che io amo molto, ad accettare di fare questo film? La regia dell'esordiente Andrea Porporati è praticamente nulla, sembra che gli attori siano lasciati a se stessi e perfino i due protagonisti finiscono col non fare una gran figura. Per il resto, Il dolce e l'amaro si potrebbe definire come "il primo film trash sulla mafia che non sa di essere trash", pieno com'è di luoghi comuni preistorici su mafiosi, donne dei mafiosi, riunioni di mafiosi, sughi al pomodoro di mafiosi in carcere, ecc. ecc. Il copione è pessimo, un colabrodo al pari della sceneggiatura di Marra, e anch'esso del tutto implausibile e talvolta ridicolo. Illumina brevemente la scena Fabrizio Gifuni, nel piccolo ruolo di un magistrato, ucciso però prima dal film stesso che da una bomba di Cosa Nostra. Il film è prodotto da Medusa Film.
Doppio aborto. E lo sappiamo tutti di chi è il merito: se due film come questi escono in sala e arrivano in concorso a Venezia, la colpa non è dei registi o degli attori, ma di chi li fa uscire e arrivare in alto. I produttori ragazzi, i produttori! Il cinema italiano è più o meno in mano alla casta dei produttori, che a parte Fandango e Maggioni sono rimasti dei cinematografari vecchio stile ammanicati con la politica romana. Chissà quanti film sono rimasti nei cassetti
a Roma, girati solo per avere i soldi dei finanziamenti statali e poi buttati via; chissà quanti di essi erano migliori di questi due, e intanto i film italiani più belli escono con dieci copie in tutto e tocca vederli per la prima volta sei mesi dopo, in qualche sperduto cinema d'essai a metà settimana. E' l'Italia, monnezza!

Io non sono qui

I'm not there è il titolo di una canzone di Bob Dylan del 1956, prima di essere quello del film - splendido - di Todd Haynes. Ma il titolo italiano è un disastro e rovina subito tutto: non si può tradurre "I'm not there" con "Io non sono qui", non ha nessun senso, non ci azzecca per niente. Perché il titolo della canzone e del film potrebbe ambire a sintetizzare in poche parole il senso di una vita, la vita di Bob Dylan: "io non sono là" (traduzione lievemente più plausibile, dato che "there" è molto diverso da "here": "here" significa "qui", prossimità, vicinanza; "there", distanza, lontananza, altrove). Perché Bob Dylan non ha mai voluto stare là dove la gente lo cercava, nè fare quello che ci si aspettava da lui; ha sempre preferito, nella sua esistenza straordinaria, essere da un'altra parte.
E così fa il film di Haynes: inafferrabile e ineffabile, porta con sè lo spettatore, per quasi due ore e mezza, in un viaggio fantastico che non è una biografia, nè un finto documentario, nè un romanzo per immagini. Impossibile dire cosa sia I'm not there, e ancor più assurdo sarebbe il desiderio di classificarlo, di farlo rientrare in uno schema preesistente o in un genere canonizzato. Questo film in qualche modo è Bob Dylan: ci sono le sue canzoni, gemme eterne, cantate da lui in over oppure in qualche caso dagli attori; ci sono i personaggi delle sue canzoni che prendono vita e si mescolano con le altre storie e vite dylaniane, in un inestricabile e indistinguibile continuo di bellezza; ci sono le parole delle sue canzoni trasformate in battute di dialogo (ed è un peccato non poter avere il film in lingua originale, o perlomeno sottotitolato); ci sono personaggi con vite simili ma non uguali a quelle del Nostro; e ci sono, anche, rimandi, citazioni e prese per i fondelli di tutti i film e audiovisivi che hanno avuto Dylan per soggetto o per oggetto: da Don't Look Back di D. A. Pennebaker fino al recente No Direction Home di Scorsese, passando ovviamente per Pat Garrett & Billy The Kid di Sam Peckinpah. Insomma, è un nuovo tipo di racconto cinematografico: suggestioni, echi, risonanze, tracce che prendono vita sullo schermo e si fanno materia narrativa, allo stesso tempo narrando le varie fasi della vita di Dylan come nessun dannato biopic saprebbe mai fare. Meraviglioso.
Fra gli attori, difficile scegliere: Cate Blanchett, che ha vinto quest'anno la Coppa Volpi per la sua interpretazione (di un personaggio maschile), è quasi incredibile per come ha saputo fare suoi i gesti e gli atteggiamenti del Dylan più indimenticabile, ovvero quello del biennio 1965-66; c'è un bravissimo e insolito Richard Gere che interpreta Billy The Kid, Christian Bale e Heath Ledger sono molto intensi, e Charlotte Gainsbourg è struggente nel suo personaggio pieno di rimpianto e malinconia.

Gli amori di Astrea e Céladon

A quasi 87 anni, Eric Rohmer ha ancora la forza e il coraggio dei suoi esordi. Il suo ultimo film, Les amours d'Astrée et Céladon, è tratto da quello che in Francia viene chiamato "il Romanzo dei Romanzi": L'Astrée di Honoré d'Urfé, considerato appunto il primo roman-fleuve della letteratura francese, di ambientazione pastorale; edito tra il 1607 e il 1627, è costituito da 5 parti, 40 storie e 60 libri. Non dev'essere una passeggiata affrontare un testo di tale complessità; e ci vuole coraggio, senza dubbio, ad allontanarsi dalle proprie consuete ambientazioni contemporanee (con la recente eccezione dello splendido L'Anglaise et le Duc) per narrare una storia situata nella Gallia del V secolo dopo Cristo. Rohmer, il cui "tocco magico" nella rappresentazione della realtà è ben noto, qui compie una brusca inversione verso l'antinaturalismo: sin dai titoli di testa, lo spettatore viene avvertito del fatto che il film è stato girato in una regione della Francia diversa da quella nella quale il testo di partenza ambientava la vicenda narrata, perché i luoghi "originari" sono oggi deturpati dalla speculazione edilizia; così come, puntualizzano le didascalie iniziali, i costumi degli attori corrispondono alla visione che i francesi del XVII secolo avevano dei loro compatrioti di dodici secoli prima.
Rohmer è quindi interessato non a una mimesi, ma a una decisa meta-rappresentazione. C'è un forte schematismo nel film, una apparente rigidità di cui non si trova traccia nell'ultima produzione del maestro francese; l'opera ha un andamento più teatrale che cinematografico, con pochi brevi movimenti di macchina e molte inquadrature fisse; gli attori sono spesso ripresi a mezzobusto o in primo piano, più raramente in totale.
Nell'ultima parte del film Astrea non sa riconoscere, se non nel finale risolutivo, il suo Céladon, pur con il viso di questi non celato da alcuna maschera; in tale rappresentazione-nella-rappresentazione risiede il segreto di questo difficile film: l'amore, anzi gli amori di Astrea e di Céladon devono scontrarsi continuamente con delle rappresentazioni, sovrastrutture del senso che impediscono ai due di ritrovarsi e di dare pienezza al loro sentimento, modificando di volta in volta la natura e l'intensità di quest'ultimo. E così dietro l'apparenza del film in costume si nasconde un'analisi del rapporto amoroso che trascende qualunque epoca: Rohmer è sempre se stesso, per quanto l'inafferrabilità e il segreto del suo sguardo si celino questa volta fra le maglie di una evidente messa in scena e non, come spesso è accaduto in passato, dietro la sublime leggerezza con la quale il regista ha mostrato - trasfigurandole mirabilmente - le più comuni situazioni della quotidianità contemporanea.

mercoledì 5 settembre 2007

Fast Food Nation

E' profonda la tristezza che prende lo spettatore dopo la visione di Fast Food Nation, del bravo ed eclettico Richard Linklater (molti, probabilmente, ricordano il piccolo cult Prima dell'alba). Non si tratta solamente di quello che viene raccontato sullo schermo, ma anche del modo in cui lo si racconta. Linklater ha raggiunto una specie di maturità sommessa grazie alla quale riesce a rimanere lontano da ogni retorica facile e magniloquente che può prendere il sopravvento ogniqualvolta si formula un giudizio, ad esempio, sul proprio Paese. Perché questo è Fast Food Nation: non un film sugli hamburger e sulla merda che da sempre contengono, bensì un amaro squarcio sulla realtà contemporanea degli Stati Uniti d'America. La storia dei fast-food che vendono panini ripieni di batteri fecali è quasi soltanto un pretesto, un abbozzo di racconto lungo il cui tenue percorso allo spettatore capita di incontrare frammenti di varia umanità e di tutte le classi sociali; e la cosa migliore nello sguardo di Linklater è che non c'è un inizio e non c'è una fine in questa storia: tutto è così da sempre, e probabilmente, anche se non di certo, così continuerà a essere. I personaggi del film si svelano a poco a poco o cambiano faccia repentinamente, ma nessuno di loro alla fine risulta ancora apparire come ce lo eravamo immaginato all'inizio; e quasi tutti cambiano in peggio, perché se nelle persone c'è qualcosa di buono, sembra voler dire Linklater, prima o poi questo qualcosa sparirà a causa del contesto in cui le persone si trovano prigioniere. L'unica eccezione forse è ancora rappresentata dai giovani, in special modo dal personaggio interpretato da Ethan Hawke (attore feticcio di Linklater) e dalla sua giovane nipote Amber: il primo, non più adolescente, sprona la seconda a non fermarsi, a cambiare, a fare qualcosa: la ragazza sembra raccogliere la sfida, anche se forse troppo ingenuamente, e con altri giovani come lei tenta di passare all'azione; ma ciò che ne risulta è stupido e banale. Eppure, l'autore del film sembra credere ancora nella possibilità che le cose cambino: prova ne è il fatto che, se anche alla fine del film nulla muterà nella realtà rappresentata rispetto all'inizio, le vicende di ogni personaggio non si chiudono, ma rimangono come sospese; i diversi fili narrativi non si incontrano, ognuno viene lasciato a se stesso senza indizi, ma anche senza una vera conclusione, come se (quasi) ognuno potesse fare ancora in tempo a cambiare vita.
Però è la tristezza a dominare; e i poveri capi di bestiame macellati e smembrati alla fine del film potrebbero anche essere una metafora degli individui che della loro carne si nutriranno in un qualunque fast-food americano: incapaci di fuggire dal proprio recinto anche con i cancelli aperti, incapaci di rinunciare alla propria condizione di eterni prigionieri del sistema.

domenica 2 settembre 2007

Soffio

Kim Ki-Duk fa un tipo di cinema che amo particolarmente: astratto, silenzioso, criptico, lento ma con improvvise accelerazioni di violenza e disperazione. I suoi copioni sono sempre piuttosto ineffabili, e quest'ultimo Breathe non fa eccezione: ad un'inizio dal naturalismo quasi ottuso seguono sviluppi imprevedibili e soprattutto totalmente implausibili; ma questo non è assolutamente un problema, perché il cinema di Kim vive di simboli, accostamenti, risonanze e correlativi - oggettivi o meno. La vicenda della languida madre di famiglia tradita dallo stolido marito che si innamora di un condannato nel braccio della morte è soltanto un pretesto per esplorare le possibilità e i limiti estremi del sentimento amoroso: il soffio che dà il titolo al film potrebbe rappresentare la vita, ma anche l'amore, che si può dare, ricevere o togliere; tentare però di ridurre a schema un film del regista sudcoreano sarebbe sbagliato, oltre che probabilmente impossibile. I personaggi di Kim sono sempre soli, in fondo, anche se non da sempre: hanno perso qualcosa, prima o poi nella loro esistenza, e continuano a vivere tentando di riconquistare ciò che hanno perduto, ad ogni costo. Il regista compare qui in una specie di cameo, nel ruolo demiurgico dell'invisibile direttore carcerario che osserva gli incontri fra il condannato a morte e la giovane madre attraverso una videocamera e un monitor: Kim non è estraneo nemmeno all'ironia e all'autoironia, purché esse servano a costruire un universo parallelo a quello reale, che da quest'ultimo mutua i caratteri fisici e psichici basilari ma che funziona in un modo tutto suo. Cinema di ricerca instancabile e imprendibile, che non si cura delle regole e delle convenienze, in questo assai simile alla biografia dell'autore: per Kim la macchina da presa è uno strumento - fra altri - di comprensione ed esplorazione dell'universo, specialmente di quello interiore.

4 mesi, 3 settimane, 2 giorni

La struttura di 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (4 luni, 3 saptamini si 2 zile) non potrebbe essere più semplice: una protagonista, Otilia (Anamaria Marinca), unità di tempo (un giorno nel febbraio 1987) e si può dire anche di luogo (Bucarest). Da simili premesse il regista Cristian Mungiu fa scaturire un'opera dall'impatto emotivo devastante, sommessa e reticente ma che non lascia tregua allo spettatore. Anche la storia narrata è assolutamente lineare: una ragazza, Gabita, che studia al Politecnico di Bucarest e abita in un collegio universitario della città, ha preso la decisione di abortire e chiede aiuto alla sua compagna di stanza Otilia: inizia così una breve ma tragica odissea fra stanze e corridoi del collegio, atrii e camere d'albergo, la casa del fidanzato di Otilia e le strade buie e innevate di Bucarest. Non si parla mai di dittatura, di Ceausescu o di comunismo; eppure ogni inquadratura trasuda paura, incertezza, rassegnazione. Il centro del film è un vuoto di senso che equivale al vuoto politico in cui era caduta un'intera nazione; in quel vuoto finiscono per cadere anche persone come Otilia, che ancora possiedono un'anima e sono disposte a donarsi, a cercare di vivere in pienezza nonostante tutto. Otilia ama il suo ragazzo e vuole bene alle amiche con cui abita; ma quello che passerà per aiutare proprio una di loro le toglierà, forse per sempre, una parte importante di se stessa; tutto questo a causa di una becera legge anti-abortista scaturita a sua volta da un aborto della Storia. Non si tratta di un discorso morale, anzi; la Storia schiaccia le storie dei singoli, ci racconta Mungiu, e non necessariamente coloro che vengono schiacciati soccombono lottando eroicamente o in un'aura di retorico coraggio; chi soccombe è semplicemente chi vorrebbe vivere la propria vita in modo semplice senza rinunciare ai sentimenti e alle emozioni. Otilia lotta, appunto, non propriamente in modo coraggioso o nobile, ma semplicemente per tentare di conservare la propria umanità in un contesto nel quale essa non viene contemplata, e in cui le persone finiscono con l'essere trasformate in oggetti o perlomeno in identità astratte e prive di senso (anche morale, infine). Ecco dunque il significato del povero feto abbandonato sul pavimento di un bagno in una stanza d'albergo e poi gettato in un bidone della spazzatura: il risultato di tutte le norme, di tutti gli apparati e le pianificazioni è la trasformazione degli esseri umani in oggetti, e la riduzione a nulla del valore della loro vita esistenza umanità.
La regia di Mungiu è perfetta, di un'intensità altissima e costante, ed è supportata da una recitazione mirabile: in primo luogo della protagonista Anamaria Marinca, straordinaria, e poi degli eccellenti comprimari Laura Vasiliu, Vlad Ivanov e Alex Potocean. Palma d'Oro a Cannes 2007.

La duchessa di Langeais

Amore e passione come sofferenza, violenza, sopraffazione e dolore. Parrebbe un'equazione perlomeno inflazionata, ma lo sguardo di Jacques Rivette è tutt'altro che accomodante. Classe 1928, uno dei padri della Nouvelle Vague, il regista francese ritorna dopo quattro anni dal precedente lavoro con la trasposizione cinematografica di un romanzo di Balzac pubblicato nel 1834, Ne touchez pas la hache; il film però è ben altro che una rievocazione storica. Piuttosto, si può parlare di un gioco psicologico dalla geometria misteriosa quanto implacabile. La storia è divisa in parti nette, all'interno di ciascuna delle quali è ben chiaro che esiste un rapporto di forza fra Antoinette de Langeais (Jeanne Balibar, magnetica) e Armand de Montriveau (Guillaume Depardieu, bravo nel cupo tormento del suo personaggio): ma in questo rapporto non è mai ovvio chi sia a dominare e chi venga dominato. Nella prima parte del film pare essere la duchessa a condurre il gioco, mentre nella seconda il giovane generale di Napoleone appare in vantaggio; ma si tratta soltanto di apparenze. Chi vede il film non arriva mai a poter comprendere l'intimo dei protagonisti, che rimane misterioso e indecifrabile. La grandezza di Rivette in questo bellissimo film risiede nel saper comprimere una tempesta occulta di passione e sentimento all'interno delle inquadrature a camera pressochè fissa, dentro il montaggio lento e sommesso, dentro il silenzio, che è vera figura sullo sfondo dei dialoghi formali e trattenuti fra i protagonisti. Nel film, girato quasi totalmente in interni, ogni azione sembra essere simulazione; sembra, appunto, perché lo spettatore viene lasciato mirabilmente solo di fronte alle vicende dei personaggi, senza indicazioni che imprigionino il giudizio all'interno di percorsi predefiniti. Perfino il fatto che numerose didascalie dal testo balzachiano intercorrano a raccordare o sottolineare le scene finisce per diventare un indizio della libertà interpretativa lasciata allo spettatore: se le parole di Balzac sono deboli puntelli di oggettività, tutto il resto che appare sullo schermo è lasciato al dominio del sentimento e della soggettività. Ammantato di un'atmosfera metafisica e quasi onirica, Ne touchez pas la hache ("non toccate la scure") è un film dalla pura autorialità che rifiuta di apparire tale, e che per ciò lo è tanto più profondamente.

martedì 28 agosto 2007

Il Flauto Magico

Il film inizia con un piano sequenza mirabolante, una danza della macchina da presa e del profilmico con aura da classico, sulle note dell'ouverture dello Zauberflote mozartiano; poi i personaggi iniziano a dialogare... cantando. E' il momento in cui lo spettatore potrebbe rimanere un po' sorpreso; ma l'incanto leggero che caratterizzava l'apertura del film prosegue, per più di due ore. Il bravissimo Kenneth Branagh ha adattato per il grande schermo Il flauto magico e lo ha ambientato fra le trincee della Grande Guerra: il libretto in inglese è di Stephen Fry, che ha scritto anche la sceneggiatura assieme allo stesso Branagh. Gran lavoro, ottima confezione; gli attori ovviamente sono tutti grandi performer lirici, non saprei giudicare la loro arte principale ma davanti alla macchina da presa nessuno fa brutta figura, anzi. Inutile secondo me farsi domande, anche questo è cinema: nonostante qualche calo di tensione, il film è un'opera omogenea, rigorosa (dal punto di vista cinematografico) e anche coraggiosa; avvicinare il cinema alla lirica non è cosa di tutti i giorni, Branagh e i suoi ci sono riusciti molto bene. Complimenti.

sabato 25 agosto 2007

Sicko

Ritorna la bella stagione al cinema, inaugurata in Italia dal nuovo documentario del grande/grosso Michael Moore. Come molti già sapranno, Sicko si "occupa" del sistema sanitario statunitense e, come già sapranno gli estimatori di Moore, il risultato è come sempre un film a metà fra il comico e l'horror. La forza del cinema di Moore sta senz'altro nell'originalità dell'approccio, che non teme di mescolare - a volte troppo grossolanamente - il patetico, il tragico e il ridicolo; ma a questa forza fa da contraltare una debolezza, per così dire, di sguardo: intendendo per debolezza una certa chiusura mentale e una certa autoreferenzialità che portano Moore, per così dire, ad accontentarsi della propria visione del mondo. E' chiaro che Sicko è un film di denuncia, non di esplorazione: e pertanto presuppone prima di tutto una tesi da dimostrare, poi il raccogliere indizi che possano dare credito a questa tesi; ma anche se c'è una visione ben chiara all'autore, quest'ultimo non dovrebbe mai avere la tentazione di piegare la realtà alle proprie esigenze, dovrebbe semmai verificare se e quanto la propria opinione e lo stato delle cose siano adiacenti. Il sottoscritto, si badi bene, non esprime opinioni in merito ai contenuti, non avendone le capacità: può darsi benissimo, in altre parole, che il sistema sanitario americano faccia accapponare la pelle, che l'America sia diventata un Paese che butta via i propri cittadini quando questi non hanno abbastanza soldi per curarsi, o che il profitto sia diventato l'anima stessa degli USA; così come in Canada, Inghilterra, Francia o a Cuba il sistema sanitario pubblico potrebbe essere paradisiaco; io queste cose non le so, non ho esperienze in merito e non posso giudicare. Ma da come si muove il film, mi sembra che Moore abbia raccolto un bel po' di tessere da mosaico, ognuna con una faccia colorata e l'altra faccia nera: al momento di fare la sua composizione, l'autore piazza tutte le tessere americane con la faccia nera rivolta verso lo spettatore, e fa il contrario con quelle degli altri Stati. Possibile che la realtà abbia solo due facce? Per il vecchio Mike sembra proprio così, e lui ha deciso da un bel pezzo quale faccia mostrare.
P.S. Mentre iniziavo a scrivere questo post, sul TG1 è passato un bel servizietto di un altro grosso video-opinionista, l'ineffabile Vincenzo Mollica: guarda caso, si parlava della presentazione di Sicko ieri sera a Roma (presente la ministra della sanità Turco Livia). Per l'occasione, Mike Moore era accompagnato da una guru della satira italiana: Sabina Guzzanti. Moore l'ha definita "una sorella" dal punto di vista artistico, elogiando il suo Viva Zapatero; dopodiché la stessa Guzzanti non ha esitato a fare una bella sbrodolata sul compagno di lotta americano, decantandone tra l'altro le innovazioni sul piano linguistico (?)... Spero che questa non sia la prima volta in cui mi faccio influenzare da un servizio di Mollica.

venerdì 3 agosto 2007

Cosa accade in Iraq

E' necessario leggere questo articolo da The Nation:

The Other War: Iraq Vets Bear Witness


Linko la versione completa e stampabile. E' in inglese, ma vale ampiamente la pena di leggerlo.

mercoledì 1 agosto 2007

Bassolino, una domanda

Date un po' un'occhiata a questa pagina di Google News. Sentito cos'è successo a Napoli? Pare che finalmente stiano facendo la festa a Bassolino. Ma voi avete sentito niente sui tg della RAI? Io non guardo più molto la tv, sono invecchiato e ho qualche problema di stomaco: meglio ubriacarsi che vedere un telegiornale di questi tempi. Ma se qualcuno ha sentito parlare di Bassolino in un telegiornale della RAI me lo può postare? Grazie. Così vediamo come si è evoluta la lottizzazione.

martedì 31 luglio 2007

Come l'ombra

Sin dalla prima inquadratura di Come l'ombra è ben chiaro, anzi trasparente - come la vetrata dietro la quale si muove la macchina da presa - chi sia la vera protagonista del film: Milano, o per meglio dire ciò che oggi Milano rappresenta agli occhi della brava Marina Spada, autrice e regista del film. I primi fotogrammi sembrano introdurci nell'esistenza di una persona, una donna di nome Claudia, intenta a compiere le azioni della propria quotidianità. Ma è soltanto un'apparenza: Claudia è un esempio, un simbolo, un non-soggetto che rappresenta altri milioni di soggetti simili nelle loro azioni, reazioni e relazioni. Al centro del film sta un vuoto silenzioso, che si percepisce negli interstizi dell'agire di Claudia e che permea inesorabilmente la sua esistenza e quella di un'intera città-mondo. Se Claudia rappresenta (quasi) fino alla fine il vuoto del senso e l'evidenza del nulla, la sua controparte nel film è Olga, la ragazza ucraina che attraverserà per breve tempo l'esistenza di Claudia. Olga sembra incarnare il mistero, la possibilità, e somiglia tanto alla sublime figura salvifica montaliana di Ti libero la fronte dai ghiaccioli. La sua 'funzione' nel film è offrire un'opportunità, squarciare il velo dell'algida apparenza metropolitana e dare una nuova coscienza a Claudia: la coscienza dell'altrove, in senso lato. C'è molto del primo Soldini in questo piccolo grande film, e c'è anche Michelangelo Antonioni, che c'è e ci sarà sempre. Perfetta la fotografia - sostanziale al film - a cui ha fatto da mentore nientemeno che Gabriele Basilico; efficaci i protagonisti Anita Kravos, Karolina Dafne Porcari e Paolo Pierobon.
Infine: ho avuto la fortuna di assistere alla proiezione digitale del film, che in digitale è stato anche girato; e devo dire che, nonostante la qualità passibile di miglioramento, su pellicola il film avrebbe perso e non guadagnato: perché il digitale è uno sguardo altro, diverso e anch'esso sostanziale a questo film. Qualcosa di nuovo sta iniziando.

I testimoni

Sono molto affezionato al cinema di André Téchiné: questo regista francese, uno dei migliori oggi in circolazione assieme a Robert Guédiguian, è un grande artigiano ma soprattutto un grande Autore. Il suo linguaggio filmico è sommesso e reticente, ma anche forte e solido. Un maestro con gli attori, Téchiné racconta spesso delle distanze, fisiche e mentali, fra gli uomini, con una grande capacità introspettiva e una grande pietas verso tutti i suoi personaggi; cinema dell'altrove, dell'insolito nel quotidiano, del silenzio e dell'ascolto. Con questo ultimo Les Temoines il regista ritorna nella Parigi dell'estate 1984 per narrare l'ingresso dell'AIDS nella vita di un gruppo di amici e nell'immaginario occidentale. Dico subito che il film è meno riuscito dei precedenti: la sua forza sta soprattutto nella ricostruzione storica e nell'analisi sociologica del milieu parigino dei primi anni ottanta, caratterizzato da una grande e spregiudicata vivacità sessuale; ma proprio questa vivacità nelle relazioni rischia - nel film - di togliere credibilità ai personaggi coinvolti. E' come se i rapporti rappresentati nel film, etero od omosessuali che siano, possiedano una verosimiglianza che i personaggi stessi non hanno, nelle loro scelte e decisioni: Téchiné ha tentato di rappresentare un ambiente 'facile', ma ha finito con il semplificare troppo i suoi stessi personaggi. Il film rimane comunque importante, per la sua trasparenza morale e per il suo essere appunto, al di là di ogni difetto, una vera testimonianza: attitudine alquanto rara nel cinema di oggi.

Michel Serrault, Ingmar Bergman, Michelangelo Antonioni



venerdì 27 luglio 2007

Yahoo! e i torturatori cinesi (ne ha parlato qualcuno?)

http://it.theinquirer.net/2007/04/yahoo_citata_in_giudizio_per_a.html

Yahoo citata in giudizio per aver fornito informazioni al governo cinese

da The Inquirer Team: Venerdì 20 Aprile 2007, 10:40

UN’ASSOCIAZIONE che si occupa di diritti umani ha fatto causa a Yahoo per aver collaborato con il governo cinese rivelando informazioni che hanno portato all’arresto e alla tortura di alcuni dissidenti.

Click here to find out more!Secondo la CNN, la sede statunitense dell’organizzazione mondiale per i diritti umani ha chiesto i danni all’azienda e pretende che Yahoo favorisca il rilascio di tutti i detenuti.

Morton Sklar, portavoce dell’associazione, ha dichiarato che le aziende che operano all’estero dovrebbero essere più consapevoli delle loro responsabilità ed evitare di promuovere e incoraggiare gravi violazioni dei diritti umani.
Yahoo aveva consegnato dati riguardanti i suoi utenti su richiesta del governo cinese, spiegando che i suoi dipendenti avrebbero subito sanzioni civili e penali se non si fossero attenuti alle leggi locali.

(Articolo originale di Nick Farrell)

lunedì 23 luglio 2007

[senza parole]

Un articolo dell'ANSA:

2007-07-23 20:13


BOSNIACO SALVA BIMBI ITALIANI, RECUPERATO IL CORPO

VENEZIA - E' stato recuperato il corpo di Dragan Cigan, 32 anni, il muratore bosniaco scomparso in mare dopo aver tratto in salvo due bimbi di 7 e 10 che avevano chiesto aiuto perché in difficoltà tra le onde della spiaggia di Cortellazzo (Venezia). Il corpo è stato trovato nella Laguna del Mort, tra Cortellazzo ed Eraclea (Venezia). Le operazioni, condotte dalla Guardia Costiera di Jesolo (Venezia), erano riprese all'alba, con il supporto della Capitaneria di Porto di Venezia e dei vigili del fuoco - con un elicottero e gruppi di loro sommozzatori - di Mestre, Jesolo e Vicenza.


Cigan era originario di Celinac, in Bosnia, dove risiedono sua moglie con i loro due bambini: quando le grida dei piccoli che si dibattevano in acqua lo hanno allertato, si trovava sulla spiaggia libera di Cortellazzo alla foce del Piave assieme alla sorella Zorica, al cognato Sveto Gregojevic e al nipote di 10 anni, con i quali vive a San Martino di Lupari (Padova). Secondo la ricostruzione, l'uomo si è precipitato in mare per portare soccorso alla bambina. Una volta raggiunta l'ha passata a un altro extracomunitario, un marocchino di 35 anni che si trovava sulla scogliera, prima di venire travolto da un'onda che lo ha fatto scomparire sott'acqua.

Secondo il comando della Guardia Costiera jesolana il bambino é stato salvato quindi dall'intervento di altri tre bagnanti veneziani, due ragazzi di Mestre e uno di Mira. Oltre ai comprensibili momenti di paura legati alla tragedia sulla spiaggia di Cortellazzo ieri si sarebbero vissuti anche attimi di tensione tra i testimoni e i genitori dei bambini messi in salvo.

I due genitori di Roncade dopo aver riabbracciato i figli si sarebbero allontanati senza nemmeno ringraziare la famiglia di Dragan. A bloccarli gli agenti di polizia giunti sul posto per i primi rilievi. La famiglia trevigiana in ogni caso, da quanto si è appreso, se ne sarebbe andata successivamente tra gli insulti dei presenti.

venerdì 20 luglio 2007

L'uomo di vetro

Un grande film, duro, asciutto, pieno di disperazione e di autentico eroismo: questo è L'uomo di vetro, ultimo lavoro del bravissimo Stefano Incerti. Il film racconta la storia di Leonardo Vitale, il primo pentito di Cosa Nostra, che iniziò a collaborare con la giustizia nel 1972 a Palermo. Tratto dal romanzo omonimo di Salvatore Parlagreco, il film è interpretato dallo straordinario David Coco assieme ad Anna Bonaiuto e Tony Sperandeo. Incerti ha costruito magistralmente un film "doppio", come duplici sono l'animo del protagonista e la società in cui egli vive: Vitale è un assassino, ma è come se il male che ha compiuto fino ad un certo punto della sua vita non lo riguardasse da vicino; poi in lui inizia una sorta di doloroso tormento, che non lo abbandona se non dopo avere raccontato tutto quello che sa ai magistrati, senza altro fine se non quello di purificare la propria anima e arrivando perfino ad infliggersi pesanti punizioni corporali nell'intento di pagare più duramente per i propri errori. Allo stesso modo la famiglia e la società che circondano Vitale hanno una doppia faccia: quella accogliente e consolatoria ma anche opprimente dei sentimenti, e quella opaca afona e terribile dell''onore' mafioso, con la sua bestiale violenza e la sua totale assenza di pietà. Tali dimensioni nel film sono irrimediabilmente mescolate fra loro, nucleo familiare e contesto sociale sfumano uno nell'altro senza soluzione di continuità; se questo è uno dei più grandi meriti della regia e della scrittura, il protagonista del film appare tanto più grande e nobile in quanto tenta di fuggire dalla sua situazione, prova a ritrovare la sua anima e a riportarla alla vita, ben conscio delle conseguenze e senza mai rinnegare le proprie scelte. Il vetro del titolo sta a simboleggiare proprio questo: il protagonsita, oltre ad essere terribilmente fragile, è diverso da chi vive intorno a lui proprio perché cessa di essere opaco per tentare di divenire trasparente, ha la forza di guardare dentro di sè e di mostrarsi per quello che è in realtà: nessuna delle persone intorno a lui ha mai il coraggio di arrivare a tanto; la storia di Vitale trascende in tal modo il contesto mafioso e diventa un esempio da seguire, ovunque.

L'ultimo furto di Telecom Italia?

Solo due parole per dare visibilità a una notizia trovata casualmente, e di cui nessuno ha ancora parlato molto a quanto mi risulta. Premetto che sono un ex cliente Elitel e non mi trovavo affatto male con questo gestore. Ad ogni modo, date un'occhiata a questo articolo: http://www.newsmobile.it/notizia/07,07,18,0009650-1.htm. Vi si spiega in breve come Telecom Italia abbia praticamente costretto la Elitel al fallimento per potersene accaparrare i clienti. Purtroppo anch'io sono fra questi - la cosa mi ha creato, e tuttora mi crea, molto fastidio: dopo il "fallimento" di Elitel mi sono ritrovato improvvisamente, e senza alcuna notifica, privo di linea telefonica. Inizialmente ho pensato si trattasse dei soliti problemi di centralina o di manutenzione. Poco dopo però, sempre per caso, ho letto sul web della "dismissione" di Elitel, causa presunti debiti non pagati a Telecom (si veda questo articolo). Ho chiamato il servizio clienti Elitel, ma ovviamente non si riusciva a prendere la linea da casa mia, mentre telefonando da un'altra utenza il servizio Elitel risultava inattivo. In pratica la Telecom senza dire niente a nessuno si è messa a smontare le linee telefoniche e ADSL della Elitel, mettendo nei guai un mucchio di gente che con il telefono e con Internet ci deve lavorare. Anch'io ho dovuto cercare immediatamente un nuovo gestore, e anch'io ho scoperto l'acqua calda: cioè che Telecom ha una tariffa business, chiamata Teleconomy Caffè, imbattibile sulle chiamate fisso-fisso (bella forza, è l'incumbent...); per contro, con questa nuova tariffa le chiamate fisso-mobile sono impraticabili, mentre con Elitel verso i telefonini le cose andavano abbastanza bene (si poteva anche chiamare un cellulare a zero per i primi 15 minuti). Insomma, nel mio piccolo e per rimediare almeno in parte alla fesseria di essere tornato alla Telecom, scrivo questo post cercando di dare un po' più di visibilità alle malefatte del nostro ex (?) monopolista telefonico, anche sperando che questo ennesimo verminaio de noantri venga prima o poi riconosciuto ed eliminato. Telefonare costa, sognare ancora no...

venerdì 6 luglio 2007

Mio fratello è figlio unico

Lo dico sinceramente: quando Mio fratello è figlio unico è uscito, un paio di mesi fa se non sbaglio, ho rifiutato di vederlo; credevo fosse il solito film catto-comunista, ma più comunista che altro, stile Ovosodo; una stronzata alla Paolo Virzì, per intenderci. Invece non avevo capito niente, perché il film è bello, bello davvero. Merito in primo luogo del copione - autori i grandissimi Rulli-Petraglia con lo stesso regista Luchetti - che ha la medesima profonda umanità vista nel mirabile La Meglio Gioventù, oltreché la stessa attenzione alla Storia e alla società del nostro malandato Paese. Per quanto siano incredibili, o stravaganti, o assurdi gli avvenimenti che il film ci racconta, è ben chiaro che le cose sono andate proprio così: dai capi di Salò a piede libero, fino alla riscrittura marxista dell'Inno alla Gioia di Beethoven in un conservatorio occupato del '68; pestaggi, bombe, e quel che è peggio varie approssimazioni e cecità ideologiche, da una parte e dall'altra, fino al terribile ma inevitabile epilogo degli Anni di Piombo. Ben sostenuto dalla solida regia di Daniele Luchetti, il racconto degli sceneggiatori è a tratti impressionante, anche e forse proprio perché veritiero, realistico, plausibile. L'Italia tira avanti come può, sembrano volerci dire gli autori, e soltanto grazie alle buone azioni dei singoli, di chi riesce a sottrarsi alle idiozie di ogni ideologia per pensare con la propria testa e muoversi di conseguenza. Ecco perché il protagonista Accio non sarà facile da dimenticare: uno dei più bei personaggi visti nel cinema italiano degli ultimi anni, in lui si fondono una spinta ideale fortissima e un'attitudine totale all'esperienza, al vivere le cose sulla propria pelle pagando le conseguenze senza lamentarsi, e facendo silenziosamente tesoro di ogni cosa. Oltre che alla scrittura del film, il merito di questa grandezza va attribuito allo stupefacente Elio Germano, bravissimo, memorabile: ne sentiremo parlare ancora, a lungo e di sicuro: perché c'è qualcosa nel suo modo di recitare che non si è mai visto prima, una capacità incredibile di entrare nel personaggio e di farlo totalmente proprio, nei minimi dettagli. Lode anche al resto del cast: Luca Zingaretti, Angela Finocchiaro, Massimo Popolizio, Riccardo Scamarcio e Anna Bonaiuto.