sabato 26 maggio 2007

Quattro minuti

Come ci si sentirebbe se qualcuno ci svegliasse dal sonno notturno facendo esplodere un colpo d'arma da fuoco nella nostra stanza? Penso di essermi avvicinato a questa sensazione un paio di sere fa, andando al cinema dopo una giornata qualunque e vedendo Quattro minuti: una fucilata, un film netto, sconvolgente e doloroso. Arriva dalla Germania Vier Minuten, diretto da Chris Kraus e interpretato da due magnetiche attrici, l'anziana Monica Bleibtreu e la giovanissima Hannah Herzsprung, che ci si augura poter rivedere anche in altri film - distribuiti anche in Italia, possibilmente.
La più grande meraviglia del film è le sceneggiatura: perfetta, un meccanismo impeccabile dal primo all'ultimo fotogramma, che trae risalto anche da un montaggio ottimo, preciso e serrato. Non lascia tregua allo spettatore Quattro Minuti, ma è tutt'altro che il semplice, per quanto straordinario, divertimento di una serata; il film ha molto da dire su cosa sia la libertà, la vera libertà: su come non si sappia viverla quando si crede di averla, così come non è essenziale vivere fuori da una cella per essere davvero liberi.

In memoria di me

Non è facile scrivere dell'ultimo film di Saverio Costanzo, come non sarebbe stato facile scrivere del primo, Private. Costanzo è molto bravo, è già un grande, e In memoria di me è un film bellissimo. Perché? I motivi sono diversi; inizio dal più facile, gli attori. Christo Jivkov è il protagonista, perfetto per il suo ruolo: gli occhi divorano l'intero suo volto, e lo sguardo che da essi scaturisce esprime con pari intensità il dubbio e la paura, ma anche una morbosa curiosità verso il prossimo; e poi il giudizio, quel velo opaco che si frappone fra il nostro animo e quello degli altri, anch'essi con le loro paure e i loro dubbi, per noi sempre meno rilevanti. Oltre che al bravissimo interprete del Mestiere delle Armi, la mia memoria va alla folgorante apparizione di Fausto Russo Alesi, nello straziante ruolo di un giovane che comprende, acutamente e dolorosamente, di avere fatto un grande errore; un ruolo dalle poche parole, tutto affidato al silenzio e allo sguardo, obliquo e sfuggente; spero che Russo Alesi si possa incontrare di nuovo sul grande schermo, e presto. Poi ci sono le interpretazioni di Filippo Timi (nel ruolo più apertamente "intenso" del film, e al quale va la maggiore empatia da parte dell'autore), Marco Baliani (ottimo comprimario: il suo personaggio, di secondo piano, è rivestito di un'umanità profonda ma in qualche modo irrimediabilmente corrotta) e André Hennicke, il Padre Superiore, che vive in un errore non si sa come derivato da buone premesse.
Il silenzio di In memoria di me non è un semplice contenuto, bensì la materia dalla quale il film ha origine: un silenzio nel quale riflettere, leggere, scrivere, cercare se stessi o una ragione più profonda e oscura; e questo silenzio si avverte in tutto il suo incombere grazie al continuo avanzare e indietreggiare lento della macchina da presa, lungo gli androni o i portici del chiostro (il film è stato girato nel monastero di San Giorgio Maggiore, a Venezia), spesso alle spalle dei personaggi; e nelle inquadrature quasi kubrickiane che imprigionano i protagonisti in una tridimensionalità senza punti di fuga. Il silenzio infine fa risaltare le parole, e viceversa.
Ma perché In memoria di me è così importante? Perché qualunque risposta si possa scegliere alla fine del film, questa risposta non è la cosa che più importa; ciò che più importa è il percorso che si compie per giungervi. Non c'è alcun giudizio nelle scene finali, ma solo una tacita esortazione a non interrompere mai il proprio cammino di ricerca. Ciascuno è diverso da ogni altro, ognuno di noi può comprendere l'amore soltanto nel modo che gli è concesso dalla sua vita e dalla sua storia personale; ma quello che davvero conta è non smettere di interrogarsi, e di cercare.

sabato 19 maggio 2007

Frank Gehry, creatore di sogni

Sketches of Frank Gehry è il bellissimo titolo originale del film, primo documentario nella carriera del grande Sydney Pollack. Sketch in inglese significa diverse cose: prima di tutto "schizzo, abbozzo", poi "descrizione sommaria, profilo generale", e infine "scenetta", nel senso che anche noi italiani (a parte alcuni distributori cinematografici) diamo di solito al termine. Il film è tutte queste cose: Pollack, amico di Gehry da molti anni, apre il documentario (girato in digitale con un paio di videocamere prosumer) proprio con una sequenza di alcuni bozzetti di Gehry, e procede per tutto il film con lo stesso stile rapido e incisivo di quelle prime immagini. Grande artigiano di Hollywood, il regista racconta lo spirito dell'amico architetto attraverso brevi interviste a Gehry e altri personaggi gravitanti nella sua orbita, mescolando queste chiacchierate alle immagini delle sublimi realizzazioni che il genio di Los Angeles ha disseminato sulla superficie del pianeta.
Di solito i documentari in cui il regista decide di mettersi in scena assieme all'oggetto del proprio racconto non sono i migliori; ma questo film è un'eccezione. Pollack, che dichiara da subito in voce fuori campo di non capire nulla nè di architettura nè di documentari, è un grandissimo narratore, uno dei più grandi del cinema americano contemporaneo; se e quando decide di apparire nel suo film lo fa a ragion veduta, senza alcuna vanità ma soltanto per far capire bene quello che sta facendo, ovvero un ritratto ad un amico fuori del comune. Vediamo - non troppo spesso - il regista chiacchierare sommessamente con Gehry, fra le mani una piccola videocamera con la quale inquadra il volto dell'architetto, mentre questi risponde a una domanda o ascolta una sommessa, e mai banale, opinione del suo interlocutore. Intanto il film scorre meravigliosamente, scenetta dopo scenetta in cui Gehry è protagonista-mattatore senza compiacimento, mostrando con sincerità pregi e difetti delle sue opere come di se stesso. I primi superano di gran lunga i secondi evidentemente, e il "profilo generale" dell'architetto potrà anche risultare una descrizione incompleta, o imperfetta, ma non certo sommaria: perché il film è pieno di umanità e di affetto, e spiega chi è Frank Gehry molto meglio di un trattato d'architettura.

Spider Man 3

Ah, dimenticavo: un paio di settimane fa ho visto Spider Man 3, di Sam Raimi. Io sono un grande ammiratore di Raimi, il suo film più bello è A Simple Plan, del 1998, il suo capolavoro. Qui, con il terzo episodio dell'Uomo Ragno il livello è un po' più basso, ma stiamo parlando di un altro tipo di film: un serial, un blockbuster, anche se l'intera saga di Spidey - tutta diretta da Raimi - è senz'altro notevole, prima di tutto per l'iniezione di umanità e di debolezza interiore che il regista fa al suo eroe. E d'altronde, qual è il momento più interessante nella vita di un supereroe Marvel? Quello in cui il Male si insinua nel Bene come un virus in una cellula sana; ed è quel che capita in questo terzo episodio: Spider Man diventa cattivo, vendicativo, egoista e presuntuoso, una vera goduria; intanto in città l'unica cosa importante è dare spettacolo, chi compie le imprese più eclatanti viene subito idolatrato dai media, per poi cadere in disgrazia il giorno dopo al minimo sospetto di errore. Mi ricorda un po' quello che capita nelle nostre città, nel mondo reale (ammesso che ancora ne esista uno)... Ad ogni modo, a parte i vari aspetti edificanti il film tesse abbastanza bene la sua tela - pur con qualche smagliatura di troppo - e riesce a catturare lo spettatore grazie agli immancabili (ottimi) effetti speciali e alla faccia di gomma di Tobey Maguire, che sembra davvero un personaggio dei fumetti con la sua capacità di incarnare la schizofrenia di Spider Man in ogni dettaglio. Bella e brava Kirsten Dunst, la cui sensibile interpretazione conferisce al film una tridimensionalità "spirituale" che non stona con il bozzettismo del contesto.