sabato 22 dicembre 2007

Leoni per agnelli

Robert Redford è tornato alla regia, sette anni dopo La leggenda di Bagger Vance (The Legend of Bagger Vance, 2000). E' sempre un piacere ritrovarlo e rivederlo: qui è anche attore protagonista, assieme ad altre star come Meryl Streep e Tom Cruise. Si prova una specie di affetto  guardando il suo volto scavato dalle rughe e come denudato dal tempo, che ha lasciato l'anima ben visibile: l'anima di un grande uomo di cinema, sempre lontano dal compromesso e dalla superficialità. Questo Leoni per agnelli (Lions for Lambs) conferma prepotentemente l'atteggiamento politico ed esistenziale di Redford, improntato al dubbio, alla riflessione profonda e alla ricerca continua. Lions for Lambs è un'opera filosofica acuta e complessa basata su presupposti semplicissimi: tre dialoghi che si svolgono contemporaneamente, nel giro di un'ora, in luoghi diversi. A Washington, nello studio del senatore repubblicano Tom Cruise che accoglie la giornalista veterana Meryl Streep per un'intervista; in un'università della California, presso lo studio del professore di scienze politiche Robert Redford che ha convocato il suo studente Andrew Garfield per un colloquio chiarificatore; in Afghanistan, sulle alture innevate del teatro di guerra, dove i militari Michael Pena e Derek Luke, rimasti soli, devono fronteggiare la tempesta e il nemico in avvicinamento. Campi e controcampi, inquadrature a camera fissa, pochissimi effetti speciali o altre diavolerie da action movie, perchè la vera azione sta nei dialoghi: avvincenti, serrati, benissimo scritti, fanno del film non soltanto un duro e assai intelligente pamphlet antimilitaristico, ma una vera e propria meditazione sul libero arbitrio e sul destino, oltre che una analisi lucida e impietosa della politica statunitense contemporanea. Poco naturalismo quindi: i personaggi sono palesemente simbolici, e la regia sottolinea questo, oltre che con i (non) movimenti di macchina, tramite la recitazione. Guardate Tom Cruise, come interpreta senza mezzi toni la sicurezza maligna e ipocrita del politico rampante esperto in strategia militare; godetevi  le idiosincrasie di Meryl Streep, nervosa, piena di dubbi e tormenti, quanto mai "fisica" nella sua interpretazione; mentre Robert Redford sa dosare alla perfezione la sagacia, l'umanità e la sofferenza di uno scienziato che rifiuta di perdere la speranza nel futuro e la fede in un mondo migliore. Lions for Lambs è un film necessario, di quelli che sanno leggere e interpretare la contemporaneità alla luce del passato, e fare domande imprescindibili sul futuro.

venerdì 21 dicembre 2007

La promessa dell'assassino

Titolo italiano assai becero per il bellissimo Eastern Promises, ultimo lavoro del mio adorato David Cronenberg. Film cupo, difficile, enigmatico; film ingannatore, che promette senza mantenere. Il movimento di macchina iniziale sembra quasi da musical; ma subito lo spettatore è investito da un paio di colpi allo stomaco in perfetto stile Cronenberg, con il rischio del knock-out. Sembrano due inneschi narrativi, e buona parte di quel che segue pare confermarlo; ma nel film non ci sarà nessun fuoco d'artificio finale, nessuna detonazione-risoluzione narrativa. Proprio così: Cronenberg fa credere di essere alle prese con un gangster movie, splendidamente morboso e iperrealistico; ma è soltanto una copertura. Nel procedere del film, la narrazione viene sapientemente disarticolata, fino a farla giungere a una specie di punto morto (proprio nel luogo in cui Nikolai e Kiril sono soliti scaricare cadaveri nel Tamigi, come se a venire scaricato nel fiume fosse ora il "corpo" del film di genere). Splendida è l'immagine che segue: una oscura "natività" profana che squarcia il velo dell'apparenza e fa precipitare nelle profondità del simbolico, alla ricerca disperata di appigli attraverso i quali decifrare tutto quel che si è appena visto. Ma è troppo tardi, alla conclusione del film lo spettatore rimane solo di fronte al mistero, un po' come accade ai protagonisti. Nulla è davvero come sembra: il film è ambientato in una Londra livida e priva di speranza, ma quasi tutti i fatti si svolgono nell'ambito della comunità russa (e sono frequenti nel film i riferimenti all'altrove della patria lasciata o del passato sovietico); mentre tutti i personaggi hanno segreti indicibili, ai quali la sceneggiatura accenna senza rivelarli pienamente. Un discorso a parte merita Nikolai, interpretato dal fantastico Viggo Mortensen, sempre più bravo: l'enunciazione associa il protagonista di questo film a quello del precedente lavoro di Cronenberg, lo splendido A History of Violence: in entrambi i film una brusca svolta della sceneggiatura rivela il negativo e il positivo del personaggio, e appare ben chiaro che c'è un vero e proprio gioco di specchi fra le due opere; superfici riflettenti essendo il volto e il corpo di Mortensen, che è doppiamente bravo proprio perché recita avendo ben presente anche il personaggio del film precedente (là una storia americana, qui una storia russa... E via congetturando). Bravissimi anche Vincent Cassel e Armin Mueller-Stahl, mentre Naomi Watts è un po' troppo matrioska, a mio parere; ma forse la colpa non è sua, bensì del personaggio che interpreta... Ad ogni modo, tutto quel che ho appena scritto è una misera accozzaglia di appunti, basati su ricordi gentilmente offerti dalla mia sgangherata memoria visiva; quel che è certo è che il film è un capolavoro, da vedere e rivedere, tentando di avvicinarvisi come una parabola fa con il proprio asintoto.

mercoledì 12 dicembre 2007

Paranoid Park

Gus Van Sant è uno dei miei autori preferiti, i suoi capolavori a mio parere sono Drugstore Cowboy (1989) e Elephant (2003). Proprio a partire da quest'ultimo, Van Sant ha intrapreso un cammino stilistico assai particolare, proseguito con il successivo Last Days (2005) e giunto oggi all'estremo Paranoid Park (che non potendo vincere un'altra Palma d'Oro ha ricevuto a Cannes il "Premio per il 60° Anniversario" del festival). Il mondo filmato da Van Sant è privo di alcuni tratti fondamentali che caratterizzano la "normale" esperienza della cosiddetta realtà: in primo luogo a mancare sono le connessioni causa/effetto, la cui assenza trasforma le storie narrate dal regista in una serie di avvenimenti poco più che casuali, senza alcun apparente legame a parte il loro svolgersi in successione sulla superficie dello schermo. A questa mancanza di senso "esteriore" corrisponde un altrettanto profondo vuoto interiore dei personaggi: incapaci di trovare un motivo per le loro azioni, i ragazzi e le ragazze su cui - quasi unicamente - si concentra lo sguardo di Van Sant sono vittime della casualità degli avvenimenti che li riguardano, e che sempre irrimediabilmente li travolgono; ma questo accade senza che la loro psiche o la loro interiorità ne soffra particolarmente, dato che psiche e interiorità di questi giovani personaggi paiono ridotte ai minimi termini. Del tutto privi di sentimenti di solidarietà e di empatia, i protagonisti di Van Sant sono automi freddi e sradicati, dèditi a reiterare azioni primarie ed elementari, e condannati a vagare senza meta nella luce livida e altrettanto glaciale della metropoli o della provincia americana. Nello stile di Van Sant due elementi sono poi particolarmente rilevanti e coerenti con le tematiche scelte: il montaggio e la colonna sonora. Nel primo caso, alla predetta casualità degli avvenimenti narrati (a livello semantico) si accompagna la casualità del loro accostamento narrativo (a livello sintattico): il montaggio è infatti apparentemente casuale, mescola i diversi piani narrativi e i diversi punti di vista per giungere alla costruzione della storia attraverso un racconto frammentato e sghembo, fitto di flashback e prolessi mediante i quali l'enunciazione intende confondere lo spettatore, per renderlo partecipe dello stato quasi catatonico in cui si trova il protagonista. Strumento atto al medesimo scopo è la colonna sonora: lo spettatore è infatti spesso incapace di stabilire se i suoni e le canzoni siano on, off oppure over (la voce narrante di Alex in Paranoid Park, in apparenza un monologo interiore che commenta gli avvenimenti mentre accadono, si rivela al termine del film la lettura di una lettera scritta dal protagonista stesso nel finale della storia); tanto più che al pari del montaggio visivo anche quello sonoro procede in modo discontinuo, abbinando rumori e voci a segmenti visivi ai quali essi non "appartengono", essendo relativi ad avvenimenti anteriori o posteriori nella storia. In Paranoid Park (tratto da un romanzo di Blake Nelson) il vuoto emotivo del protagonista è rappresentato dalle lunghe riprese amatoriali di skateboarding al rallentatore che - con una colonna sonora di ballate retrò totalmente fuori contesto - riempiono i pensieri del personaggio, incapace di provare emozioni di livello più che elementare (paura e disgusto). La visione antropologica di Van Sant è senz'altro terrificante, ma non conosco nessun altro regista che sappia entrare con tale dolorosa profondità, e agghiacciante disincanto, nell'animo giovanile contemporaneo. Assenza di sentimenti, nessi logici, motivazioni; conformismo e consumismo come unici punti fermi di esistenze poco più che biologiche. Non manca molto a tutto questo e anzi, forse già ci siamo.

mercoledì 5 dicembre 2007

The Kingdom

Da Peter Berg, regista del mitico Cose molto cattive (Very Bad Things, 1998) e di questo film, mi aspettavo di più. Invece The Kingdom non è niente di speciale. Trattasi di film d'azione semi-manicheo ambientato in Arabia Saudita, dove una squadra di agenti speciali dell'FBI deve indagare su un attentato che ha colpito una comunità di residenti americani, impiegati delle compagnie petrolifere. Ci sono riferimenti ad Al-Qaeda, Osama ecc., il film ha qualche velleità socio-politica: ma tali velleità sono vane, perché non c'è traccia di riflessione o di dubbio lungo le due ore di durata; soltanto la scena finale contiene un bagliore di consapevolezza, un po' pochino. Quindi, dicevo, pura azione: il film è prodotto anche da Michael Mann, e lo si vede chiaramente nell'ultima parte in occasione di un conflitto a fuoco saturo di adrenalina (alla lunga, però, non immune dalla sindrome-sparatutto). Personaggi poco più che robotizzati e interpretazioni scadenti, a cominciare da quella di un Jamie Foxx del tutto fuori parte.

martedì 4 dicembre 2007

Across the Universe

Un interessante ma freddino concept movie. Così definirei Across the Universe, ultimo film di Julie Taymor (il suo precedente è il ben noto Frida, ma la Taymor è soprattutto una regista teatrale, qui qualche notizia). Curiosa coincidenza che questo film esca a poca distanza dal bellissimo I'm not there, con il quale condivide l'idea di base: partire dalle canzoni e dalle biografie di mostri sacri della musica "pop" contemporanea (là Bob Dylan, qui i Beatles) e cercare di ricavarne storie buone per lo schermo. La Taymor non è Todd Haynes, e Across the Universe è assai diverso da I'm not there, anche se non proprio da buttare. Qui il canone del musical è il punto di riferimento principale: le canzoni dei Beatles cantate dagli attori sono gli snodi del film e il suo punto forte, anzi si può dire che il copione sia stato sviluppato usando i pezzi più gloriosi dei Fab Four come puntelli. Poi ci sono altre amenità: Jude, il protagonista, arriva a New York da Liverpool all'inizio dei '60 scorsi e porta un caschetto inconfondibile, mentre Lucy perde il fidanzato in Vietnam e si trasferisce a sua volta nella Grande Mela, in un appartamento assieme a Sadie (tipa assai sexy che canta come Janis Joplin), alla cara Prudence e a un chitarrista di colore che suona e veste come Jimi Hendrix e ha una storia con Sadie. Un altro inquilino dell'appartamento, Max, somiglia un po' troppo a Kurt Cobain, mentre fanno comparsate i veri Joe Cocker e Bono Vox. Detto questo, a tratti il film è una vera palla, specialmente negli inserti psichedelici virati in acido; ma alla fine il baraccone resta in piedi, grazie alla dose massiccia di immaginario pre- e post-sessantottino post-modernamente riciclato per l'occasione. Soltanto una domanda: che bisogno c'era?

Lascia perdere, Johnny!

Un mezzo pasticcio l'esordio alla regia di Fabrizio Bentivoglio; eppure al film non mancavano certo i crediti, a cominciare dal cast: Toni Servillo ed Ernesto Mahieux, per cominciare, più lo stesso Bentivoglio semi-protagonista. Recitazioni impeccabili, per carità; ma anche Servillo (che del resto appare in un ruolo marginale, da star conscia della propria grandezza) gigioneggia e alla fine perde ai punti con il fratello Peppe, fondatore degli Avion Travel ma anche ottimo attore; mentre Mahieux non aggiunge nulla a una macchietta che sembra uscita dal cinema italiano di serie B degli anni '50. Si respira aria di commedia all'italiana in Lascia perdere, Johnny!, ma è aria viziata: Bentivoglio non ha particolari doti registiche e perde ben presto il controllo del film, fra personaggi che compaiono e scompaiono senza motivo, buchi di sceneggiatura e uno svolgimento che in realtà è un insieme di scenette buono solo per giustificare qualche bella performance da cantante di Peppe Servillo (lui e Bentivoglio sono molto amici, qualche anno fa girarono il Paese con un concerto-spettacolo teatrale degli Avion Travel). La storia non ha senso, le gag non fanno ridere, si ha l'impressione che tutti siano lì per divertirsi senza preoccuparsi troppo del risultato. Un sacco di talento sprecato dunque: a quello degli attori (ci sono anche Lina Sastri e Valeria Golino, oltre al giovane esordiente protagonista Antimo Merolillo, non male) si aggiungono quello di Luca Bigazzi alla fotografia e di Domenico Procacci, alla produzione con la sua Fandango. Mi fa rabbia, e spero serva di lezione a Bentivoglio e a chi come lui pensa che un perfetto commediante debba per forza essere anche un regista decente.

Nella valle di Elah

Bellissimo e sconvolgente. In the valley of Elah conferma Paul Haggis uno dei migliori sceneggiatori americani di oggi, oltre a metterne in piena luce il talento registico già affiorato con il precedente Crash. Il copione ha un impianto splendidanebre anticonvenzionale: per gran parte del suo svolgimento esso sembra configurare un perfetto plot di genere investigativo che ha le apparenze di una cupa e serrata indagine poliziesca di ambientazione militare; ma nell'ultima parte il film svela la sua vera natura di riflessione morale ed esistenziale sull'America contemporanea: dopo avere creato una tensione altissima ed avere prefigurato la soluzione dell'enigma, Haggis libera improvvisamente l'opera dalle sovrastrutture di genere, facendo "implodere" drammaturgicamente l'indagine narrata per lasciare un vuoto attraverso il quale traspare l'assurda condizione della società statunitense, simboleggiata perfettamente dal proprio apparato militare. Livido e quasi privo di speranza, In the valley of Elah diviene ancora più agghiacciante quando si ricorda che il film racconta fatti realmente accaduti negli Stati Uniti alla fine del novembre 2004, proprio mentre in Iraq stava avendo luogo la terribile "offensiva" di Falluja, durante la quale gli americani utilizzarono le tristemente note bombe al fosforo bianco (le cui tremende conseguenze sulla popolazione vengono mostrate nel film dai video amatoriali dei soldati statunitensi).
Haggis è poi magistrale nel delineare i suoi personaggi: nonostante il film segua per buona parte i canoni del genere poliziesco, i mirabili personaggi del film vengono connotati più attraverso le loro reticenze, le loro stasi e i loro silenzi che mediante le parole o le azioni. In questo il regista è ben coadiuvato dalla straordinaria recitazione dei protagonisti: Tommy Lee Jones è in stato di grazia, la sua interpretazione è quanto mai sofferta, partecipe e commovente, senza mai nemmeno lontanamente sfiorare il patetico e anzi rifuggendolo con tutte le forze. L'attore, ormai senza dubbio uno dei più grandi del panorama internazionale, è giunto alla sua apoteosi e il suo personaggio, duro, profondo e controverso, rimarrà nella Storia del cinema. Bravissima anche Charlize Theron, attrice vera e matura, qui ancora alle prese con un personaggio complesso dalle molte sfumature al quale sa conferire profonda umanità e dolcezza, assieme alla coscienza della propria impotenza di fronte agli eventi e a una rabbiosa volontà di farvi fronte, o almeno tentare; ricordo infine Susan Sarandon, mater dolorosa e allucinata, alla fine senza più lacrime da versare.