venerdì 27 aprile 2007

Workingman's Death

Non è un buon documentario questo Workingman's Death, diretto da Michael Glawogger e di produzione austro-tedesca. Non mi piace, e anzi mi infastidisce: non perché è un film dal budget molto alto, girato in pellicola con ottime riprese; anzi, ce ne fossero ancora di documentari girati con la profondità formale e sostanziale della pellicola; no, è una questione di sguardo. La regia osserva da lontano, anche quando la macchina da presa tallona le persone e segue da molto vicino le loro azioni; i soggetti sono semplicemente oggetti da studiare, e lo studio non è nemmeno approfondito, ma assai superficiale. Questo film è un paradosso: è stato girato in pellicola, è uscito nelle sale, dura quasi due ore; ma avrebbe dovuto passare al massimo in TV, in un posto come Discovery Channel o roba simile, essere più breve e soprattutto avere più empatia.
Workingman's Death è composto da cinque episodi che intendono raccontare il lavoro manuale nel XXI° secolo; ciascuno ha un banale titolo di sensazione, appiccicato lì solo per fare spettacolo: "Eroi" racconta la vita dei minatori ucraini del Donbass; "Fantasmi" mostra un giorno di lavoro dei portatori di zolfo in Indonesia; "Leoni" scende - con ottuso sadismo - nel girone infernale di un mattatoio a cielo aperto a Port Harcourt, in Nigeria; "Fratelli" narra degli operai che sulle coste pachistane smantellano le petroliere in disuso; infine l'immancabile capitolo sulla Cina, girato nelle fonderie di Liaoning, si intitola - indovinate un po' - "Futuro". In tutte queste storie, nonostante le immagini banalmente spettacolari e le interviste ai lavoratori, non c'è anima. L'"Epilogo" è stato girato a Duisburg, in Germania, nell'ex complesso siderurgico ora trasformato in parco di divertimenti; i protagonisti non sono più lavoratori manuali, ma ragazzini che si rincorrono facendosi scherzi idioti: è qui il centro del film. Lo scopo di Workingman's Death non è comprendere, ma mostrare; non è empatizzare con i lavoratori, bensì spettacolarizzarli, trasformarli in fenomeni da baraccone per noi "fortunati" occidentali che nel lavorare non ci sporchiamo (fisicamente) le mani e non usiamo quasi più i muscoli. Tutti i protagonisti del film odiano il proprio lavoro, e l'insistenza sull'associazione lavoro-morte, a partire dal titolo, è talmente forte che alla fine perde di significato: il lavoro manuale è morte, consiste nella morte, tutto qui; "la morte al lavoro" sarebbe stato un buon titolo italiano, per quanto imbecille, da affibbiare a Workingman's Death. Leggete cosa scrive l'autore sul sito web promozionale del film: "Il lavoro può essere molte cose. Spesso è a malapena visibile; qualche volta, difficile da spiegare; e in molti casi, impossibile da ritrarre. Il duro lavoro manuale è visibile, spiegabile e si può ritrarre. Ecco perché penso spesso che sia l'unico lavoro reale". Belle parole, complimenti. Che fortuna esistano ancora quei poveri disgraziati da ritrarre, eh Michael? Bella la vita del documentarista, fosse sempre così...

martedì 24 aprile 2007

The Good Shepherd

Grande Matt Damon: non è da tutti saper sostenere - quasi in solitudine - un film come questo. Quasi tre ore per raccontare la storia dell'Agenzia di gran lunga più importante negli Stati Uniti del secondo dopoguerra (il suo nome non è certo un segreto...) attraverso la vita di uno dei suoi "fondatori", il signor Edward Wilson. Robert De Niro, al suo secondo film dietro la macchina da presa, non è forse l'autore ideale per un'opera di questo genere e di questa portata: e succede più di una volta che il film inciampi o si perda o imbocchi un vicolo cieco. La regia ha comunque il merito di tentare d'avvicinarsi quanto più possibile all'anima dei personaggi, peraltro riuscendovi fino a un certo punto: laddove gli attori sono di grande livello (per esempio John Turturro, e poi William Hurt e Billy Crudup) De Niro ha vita facile nel rappresentare debolezze, viltà o remoti tormenti interiori; quando però le doti recitative latitano, i personaggi si trasformano in figurine di terzo piano (è il caso di Angelina Jolie, che interpreta la moglie di Wilson).
Occorre però ricordare di nuovo che il film ha un unico vero protagonista, il buon pastore [minuscole mie] del titolo: un uomo che sacrifica tutto, compresi gli affetti primari, alla causa del proprio Paese. La Patria è l'unico vero amore di Wilson: non il figlio, nè la moglie sposata senza sentimenti, nè un'amante di gioventù abbandonata senza alcun rimpianto quando le circostanze lo richiedono. La CIA nelle intenzioni di De Niro e dello sceneggiatore Eric Roth (Munich) sembra divenire una metafora dell'America stessa, un Paese che procede a forza di inganni e segreti e considera le sue vittime un semplice prezzo da pagare, neppure troppo elevato. "Gli amici possono essere nemici, e i nemici amici" dice a Wilson il suo omologo sovietico, l'unico personaggio che non tradirà mai davvero il protagonista. E alla fine, dopo avere voltato le spalle a tutti coloro che lo hanno amato veramente, a Wilson non rimane che il freddo abbraccio, marmoreo e tombale, della nuova sede dell'Agenzia; assieme a una tristezza opprimente, accettata con rassegnazione tanto silenziosa quanto segretamente fanatica. Matt Damon, torno a dire, è grandioso: questa rimarrà sicuramente una delle sue migliori interpretazioni, per il modo in cui sa mostrare lo spegnersi lento ma inesorabile di un'anima.

sabato 21 aprile 2007

The Prestige

Sì, lo so che è uscito da un bel pezzo, io ne avevo addirittura una copia pirata gentilmente fornita da [omissis], ma quando l'altra sera il film è arrivato nel cinema sotto casa mia non ho resistito. E ho sbagliato, perché The Prestige è un altro film senz'anima, un gioco di scatole cinesi, un meccanismo (quasi) perfetto per divertire lo spettatore; e nulla più. Christopher Nolan è un buon regista, Insomnia mi era piaciuto molto, ma era altro cinema: anche in quel caso, come in ogni film del cineasta londinese, la forma era la sostanza (per intenderci, il montaggio creava nello spettatore l'impressione di essere anch'esso vittima dell'insonnia sofferta dal protagonista, interpretato da Al Pacino), ma con il valore aggiunto dal grande approfondimento psicologico dei personaggi; in The Prestige invece nulla rimane di quell'approfonimento, perché tutte le energie del film sono concentrate nel tentare di far funzionare al meglio una trama avente l'unico scopo di creare un'illusione nello spettatore, proprio come i due personaggi principali del film fanno con il loro pubblico; ma è un'impresa che si rivela vana. In più le prove attoriali di Christian Bale, Hugh Jackman e Scarlett Johansson (peraltro buoni attori, di solito) sono da dimenticare: performance del tutto convenzionali, che rendono semplici marionette i personaggi interpretati. Bravi invece Michael Caine e David Bowie (che interpreta Nikola Tesla ed è l'unica buona ragione per vedere il film), ma non è una novità.

Il mio Paese

Nel 1960 il grande Joris Ivens, su commissione dell'allora presidente dell'ENI Enrico Mattei, girò il documentario L'Italia non è un Pese povero (vedere http://www.eni.it/cultura-energia/ita/cinema/cinema_eni_milano_ita.htm), commmissionato al fine di rendere noti all'opinione pubblica i potenziali benefici economici derivanti all'Italia dall'estrazione degli idrocarburi. Il documentario era un viaggio nel Paese da nord a sud che, mentre dava conto dei progressi nell'industria estrattiva nazionale, raccontava in modo inedito la vita della popolazione in alcune zone della penisola: dalla Valle Padana passando per Venezia e Ravenna fino ad arrivare alle regioni meridionali, con tappa finale a Gela. Il film avrebbe dovuto essere trasmesso dalla RAI, ma venne distrutto dalla censura che lo mandò infine in onda, diversi anni più tardi, con il beffardo titolo Frammenti di un film di Joris Ivens.
Tra il 2005 e il 2006 Daniele Vicari, uno dei registi più promettenti della nostra scena, già autore di Velocità Massima e del bellissimo L'orizzonte degli eventi, ha percorso in direzione contraria il tragitto di Ivens, per raccontare la situazione economica e sociale dei luoghi esplorati quasi cinquant'anni prima dal grande documentarista olandese: è questa la sostanza di Il mio Paese, lungo e pregevole documentario sociale di solida fattura, quasi "classico" nel suo modo di osservare e narrare, e militante al pari del suo predecessore. Al centro del film stanno le visioni del paesaggio italiano, variamente martoriato nell'aspetto e nello spirito: le case della periferia di Gela costruite fra i rifiuti senza alcun piano regolatore, le colline brulle intorno a Melfi, e poi la periferia di Prato, il leviatano di Porto Marghera... Questo centrare lo sguardo sul visibile costituisce la forza del film, ma allo stesso tempo uno dei suoi punti di debolezza, laddove a beneficio dell'osservazione paesaggistica vengono in parte trascurate, o poco approfondite, le storie dei singoli. Le persone e le loro storie sono in alcuni casi trattate in modo troppo episodico, con un eccesso di semplificazione che alla lunga può impedire l'instaurarsi di un legame empatico fra chi vede e chi è veduto.
Ma Il mio Paese rimane un'opera senz'altro degna di interesse, coraggiosa e originale; una nota di merito va anche al paratesto web del film, costituito da un ottimo sito internet (www.ilmiopaese.it) tramite il quale è anche possibile accedere a Il mio Paese 2.0, un grandioso progetto di documentario "condiviso": tramite la piattaforma vlog TheBlogTV, chiunque può inviare un breve video che racconti aspetti della vita quotidiana come il lavoro, il degrado urbano, la scuola o quant'altro; i filmati verranno poi selezionati e montati con la supervisione dello stesso Daniele Vicari, e il documentario che ne scaturirà verrà presentato al prossimo Festival di Bellaria. Bravi, avanti così!

Pasolini prossimo nostro

Non c'è molto da aggiungere su Pasolini prossimo nostro; il documentario di Giuseppe Bertolucci parla da solo, e come: perché a parlare è Pasolini stesso, intervistato dal critico tedesco Gideon Bachmann in diversi momenti fra il 1960 e il 1975. La parte più cospicua della testimonianza pasoliniana è stata raccolta durante la lavorazione del terribile Salò o le 120 giornate di Sodoma, che era ancora in fase di montaggio quando il suo autore fu assassinato. Bertolucci ha montato brani audio e video (questi ultimi originariamente a colori) delle interviste di Bachmann con una selezione di fotografie scattate dalla fotografa Deborah Beer sul set di Salò: il risultato non è solo un ideale commentario di quello che da molti è considerato il testamento cinematografico dell'intellettuale friulano, ma anche un feroce e implacabile atto d'accusa contro la società contemporanea, di cui Pasolini aveva lucidamente colto gli aspetti più tremendi e alienanti già più di trent'anni fa. Si ascolta Pasolini con il fiato sospeso, sentendosi direttamente accusati (e a ragione) dalle sue parole: la violenza di ogni potere, l'oggettificazione dei corpi e delle persone, la stupidità disperante dei giovani, la merda che il consumismo tutti i giorni ci costringe a ingoiare... Questo film dovrebbero vederlo tutti, al di là delle scelte e dei meriti dell'autore, forse anche al di là delle singole opinioni: la perdita di Pasolini è ancora più bruciante oggi, 32 anni dopo, soprattutto quando il nostro sguardo, dopo una panoramica sulla realtà circostante, finisce sulla nostra immagine che questa realtà impietosamente riflette.

Le vite degli altri

E' vero peccato che un film giusto e necessario come Le vite degli altri venga penalizzato da tanti difetti, il più evidente dei quali è un grande problema di sceneggiatura che si manifesta nella schizofrenia dei personaggi: le radicali mutazioni negli atteggiamenti dei protagonisti sono tanto repentine quanto inattendibili, e vengono rese ancora più improbabili da attori che, nella maggior parte dei casi, avrebbero dovuto essere scelti con maggiore cura. Le recitazioni sono a tratti imbarazzanti, soprattutto nel caso della coppia Sebastian Koch-Martina Gedeck (lo scrittore e l'attrice); e anche il terzo protagonista Ulrich Muhe (il capitano della Stasi incaricato di spiare i due coniugi) fornisce un'interpretazione quasi monocorde. Su tutto purtroppo incombe - per l'ennesima volta - lo spettro di una regia simil-televisiva, che appiattisce il film fino alla bidimensionalità propria dei suoi personaggi.
Eppure l'esordio
(Oscar 2006 per il miglior film straniero) alla regia di Florian Henckel von Donnersmarck, autore anche del copione, non è da dimenticare. Se il suo film è monotono, senza picchi nè abissi, tale dev'essere stata la vita al tempo della DDR e della Stasi: un tempo nel quale alle persone non era consentito avere nulla per sè, ma tutto andava sacrificato al Partito e al Popolo, in un atroce paradosso per cui le vite di ciascuno dovevano venire annullate proprio in nome del bene comune. Allora, se le recitazioni sono piatte e uniformi, tali dovevano apparire anche le esistenze di coloro che si sono trovati a cercare di sopravvivere in quel buco nero del Novecento. E gli occhi di Ulrich Muhe, nell'ultima inquadratura del film, portano mirabilmente in loro il dolore di un'intera epoca e il peso schiacciante degli errori compiuti, ma anche il desiderio del riscatto e della redenzione.

mercoledì 18 aprile 2007

A est di Bucarest

Molto bello e originale A est di Bucarest (il titolo originale è A Fost Sau N-a Fost?, che stando ai traduttori online si potrebbe rendere con "E' tardi o non è tardi?") film d'esordio del regista Corneliu Porumboiu che ha vinto la Camera d'Or a Cannes 2006 per la migliore opera prima. A est di Bucarest è un film fatto di mistero e di reticenza: sin dall'inizio l'enunciazione scelta dal regista appare sommessa, volutamente semplice e piana, con la macchina da presa fissa a riprendere - senza stacchi di montaggio o campi/controcampi - brevi momenti della vita non straordinaria di alcuni personaggi all'inizio della loro giornata. Siamo in Romania, in una cittadina da qualche parte a oriente della capitale appunto, qualche giorno prima di Natale. Tutto sembra come al solito, ovvio, scontato, quasi banale: un professore di liceo che ha fatto bisboccia al sera prima litiga con la moglie per via dello stipendio sperperato, un anziano signore in un altro appartamento tenta di far funzionare un apparecchio televisivo gusto e riceve la visita di una vicina, un terzo personaggio che si intuisce lavorare in televisione discute con la consorte e fa continue telefonate per rintracciare l'ospite della sua prossima trasmissione. E' la poco appariscente quotidianità di alcune esistenze, non uguali nè troppo diverse rispetto ad altre come loro; eppure quei piani sequenza, quelle pause nelle conversazioni sembrano costruire un'attesa, un paradossale climax senza variazione di intensità. E infatti la seconda parte del film è il nucleo dell'opera, una specie di grottesca resa dei conti nello studio televisivo della cittadina, dove il giornalista ha portato con sè il professore e l'anziano pensionato in qualità di testimoni privilegiati della Rivoluzione di 16 anni prima: così quella giornata appparentemente qualunque prima di Natale si rivela essere il 22 dicembre, anniversario della fuga di Ceausescu da Bucarest e della fine del comunismo in Romania. La domanda che il giornalista pone ai suoi ospiti e che è il centro del film è: c'è stata o non c'è stata la Rivoluzione nella nostra città, in questo stesso giorno di 16 anni fa? E il punto di vista del film diventa magicamente quello della telecamera che riprende lo sgangherato talk-show, con un mirabile piano sequenza fatto di zoomate in avanti e all'indietro, inquadrature sbagliate, movimenti di macchina assurdi... Mentre in studio si cerca di rispondere alla domanda e le versioni dei fatti si contraddicono clamorosamente, in platea è impossibile trattenere le risate. Ma alla fine del film ogni cosa farà ritorno al mistero della quotidianità e delle domande senza risposta. Porumboiu a 32 anni è già un Autore, sentiremo parlare ancora di lui, e sempre meglio. Cast splendido, tutti bravissimi nel percorso dall'accidia alla tristezza e poi alla rabbia, attraverso una comicità irresistibile quanto tacita.

martedì 17 aprile 2007

La strada di Levi

Non dev'essere stato facile per Davide Ferrario e Marco Belpoliti, autori di questo documentario bello e importante, decidere come porsi nei confronti di La Tregua, lo splendido racconto del ritorno a casa di Primo Levi. Hanno scelto il modo migliore, secondo me: tenere il libro a distanza, la buona distanza del tempo. In questo modo le visioni dello scrittore e quelle dei due registi non si sovrappongono, ma viaggiano parallele come i binari infiniti sui quali Primo ha attraversato l'Europa del 1945 per ritornare da Auschwitz a Torino. Ferrario, uno dei migliori documentaristi italiani in circolazione, e Belpoliti, che fra le altre cose è curatore di tutte le opere di Levi per Einaudi, hanno percorso lo stesso tragitto di Primo, ma sull'asfalto adiacente la strada ferrata. In entrambi i racconti la narrazione procede per "tappe" significanti: nel libro e nel film sono i luoghi a produrre maggiore o minore senso, attraverso le visioni dei rispettivi autori; ma sono rimasto un po' perplesso nel percepire una specie di dissonanza, non so quanto voluta dai due documentaristi: mentre il viaggio di La Tregua è lento, e la sostanza del racconto meno "concentrata", per così dire, nelle diverse tappe, l'opera di Ferrario e Belpoliti è veloce e nervosa, procede a scatti, con un andamento quasi da videoclip. Non basta la voce di Umberto Orsini, che legge (troppo velocemente) brevi brani di La Tregua, a cucire fra loro gli aneddoti di cui La strada di Levi si compone; nè la musica di Daniele Sepe, molto bella ma eccessiva e fremente, è sufficiente a trasformare in vero percorso un insieme di momenti: e così purtroppo il riferimento del film al cammino di Levi pare trasformarsi in semplice spunto, punto di partenza e di arrivo con cui chiudere il cerchio. Forse non c'era davvero altra strada da percorrere per i due coraggiosi documentaristi torinesi, ai quali va riconosciuta tutta la bontà del loro intento. E alla fine del film una lettera scritta da Primo a Mario Rigoni Stern, che la legge davanti alla macchina da presa, fa davvero tremare l'anima.

Un ultimo appunto: per caso, nella mia ignoranza, mi è capitato di andare a vedere La strada di Levi la sera del 10 aprile; mentre ero in macchina, dalla radio ho appreso che il giorno successivo sarebbe ricorso il ventesimo anniversario della morte di Primo. Una corrispondenza che ha reso l'andare al cinema quella sera ancora più importante. Il giorno dopo anche la televisione ha ricordato, purtroppo a suo modo, Primo Levi: scegliendo di parlare dello scrittore più per la sua fine che per l'intera sua vita. Tristemente, come era accaduto qualche anno fa per un altro grande torinese, Franco Lucentini, pare che la morte - soltanto per il suo essere cronologicamente ultima - basti essa sola a (ri)comprendere un'intera esistenza.

domenica 8 aprile 2007

Pesi e misure del Caso


Sono molto arrabbiato e non so bene perché. Potrei prendermela con i Talebani che hanno ucciso Ajmal Naqshbandi, 24 ore prima che scadesse l'ultimatum. Potrei farlo perché sono luridi assassini, ma poi dovrei prendermela anche con le fantomatiche "forze NATO" che continuano a vomitare le loro bombe maledette sull'Afghanistan: va bene, non c'è problema.
Ma posso prendermela con le coincidenze? Naqshbandi è morto oggi alle tre del pomeriggio afghane; il portavoce della banda che lo teneva prigioniero ha telefonato alla Reuters poco dopo, dal suo telefono satellitare (scrive il Corriere della Sera). Il giorno di Pasqua da noi, ora di pranzo. Per tutta la giornata nessuno dice niente, si sa, bisogna verificare. Prodi conferma intorno alle 19:30, aggiungendo il suo fermo no a ogni strumentalizzazione politica. Soltanto allora la notizia viene diffusa in Italia.
Il Caso ha voluto che la morte di questo ragazzo di 23 anni avvenisse mentre l'Occidente ha la pancia più piena, alla vigilia delle nostre gite fuori porta. Forse non farà tanto baccano questa morte, sicuramente non quanto ne ha fatto il circo mediatico successivo alla liberazione di Mastrogiacomo, quando tutti erano giustamente felici per il giornalista e nessuno perdeva tempo a chiedersi come avesse fatto il Governo a salvare la faccia. Io non sono un esperto di Relazioni Internazionali e non so se la richiesta di rilascio dei Talebani in cambio di Mastrogiacomo sia stata una mossa tanto stupida e pericolosa, come dice qualcuno; ho la mia opinione, ma qui e ora posso soltanto arrabbiarmi con il Caso e con le sue coincidenze.

sabato 7 aprile 2007

Uova di Pasqua Google

Cliccate qui: www.google.com/tisp e fatevi quattro risate! Sempre fuori di testa i ragazzi di Google, questo è il loro pesce d'aprile 2007: la versione beta di un nuovo kit di connessione ADSL, funzionante attraverso i servizi igienici! Oggi invece il Corriere racconta, in questo articolo, dell'ultimo easter egg ("Uovo di Pasqua") di Google: il servizio Google Maps consiglia, agli utenti che richiedono itinerari Europa-USA, di attraversare l'Oceano Atlantico a nuoto... Buona Pasqua a tutti!

giovedì 5 aprile 2007

Red Road

Inizia splendidamente Red Road di Andrea Arnold, premio della Giuria a Cannes 2006: il silenzio e la dissoluzione dello sguardo nei tanti monitor che circondano la protagonista Jackie (Kate Dickie, molto brava) mostrano - per sottrazione appunto - l'anima del film: l'ellissi, il fuori campo, l'assenza. Una tensione cupa e afona permea ogni inquadratura, mentre lo spettatore cerca di capire chi sia realmente Jackie, quali siano i legami con le persone che si vedono intorno a lei, cosa contenga il suo passato e quali siano, infine, i suoi pensieri.
Jackie di professione fa l'osservatrice: controlla la città dove vive, Glasgow, attraverso gli occhi elettronici delle miriadi di telecamere collocate ovunque a spiare i movimenti delle persone, con la scusa di prevenire crimini e aggressioni. Jackie registra tutto e archivia i nastri, poi torna nel suo appartamento a passare il tempo con la solitudine. Nulla fa differenza nella sua vita, non un invito a un matrimonio che le ricorda il passato, nè la squallida relazione con un collega.
Finché un giorno Jackie crede di riconoscere su uno dei suoi monitor un volto che il tempo aveva momentaneamente nascosto: e l'esistenza della donna acquisisce uno scopo nuovo.
Red Road è anche un esperimento: prodotto dalla Zentropa di Von Trier, è il primo episodio di una trilogia filmata in digitale in tre diverse città scozzesi, con gli stessi attori che conservano i loro personaggi, e ciascun film girato da un regista diverso.
Detto questo, forse sarebbe meglio aspettare gli altri due film per dare un giudizio; ma mi sembra che a un certo punto Red Road esaurisca la sua spinta iniziale, e si diluisca progressivamente fino a perdere quanto di buono possedeva: la tensione, il silenzio, le assenze che riempivano lo schermo. Aspettiamo e vedremo, to be continued...

mercoledì 4 aprile 2007

Centochiodi

La bellezza profonda di Centochiodi si percepisce a distanza di tempo, nel ricordo e nella riflessione, come avviene per ogni vera bellezza. Ermanno Olmi intende con questo film congedarsi dal cinema di finzione per ritornare all'inizio della sua carriera, al documentario; e ritornare fra la gente, come il protagonista di questo film.
Vedendo Centochiodi si avverte una dissonanza fondamentale: il film è girato in modo estremamente "naturalistico", ma non è un'osservazione o una riproduzione della realtà. Gli attori sono tutti non professionisti, e Raz Degan a sua volta non è un vero attore, anche se la ieraticità del suo viso non è mai inespressiva; in fondo non importa chi siano gli attori, se quello che si mette in scena è una sacra rappresentazione. Il paesaggio del fiume Po, del basso mantovano, è visto con lo sguardo attento e partecipe che Olmi tenne per Lungo il fiume; ma come quello non era un "semplice" documentario, anche questo film non racconta una storia con un inizio e una fine, sebbene il suo svolgimento sia lineare proprio come il corso del grande fiume.
Centochiodi è piuttosto una parabola, come quelle che il professore protagonista del film, dopo la fuga dall'Università di Bologna, racconta alle persone che vengono a portargli cibo e vino in cambio di compagnia, nella casa diroccata che l'uomo ha preso come dimora; una parabola che racconta la vita di Cristo in modo puntuale, con citazioni precise e parafrasi del testo evangelico; ma il racconto non è certo ortodosso, il suo significato è duro e per nulla scontato.
Centochiodi parla all'anima e la tocca, scuotendola dal torpore; il suo narrare sommesso cela un abisso di verità, le parole del film ci inchiodano alla nostra povertà come gli antichi volumi vengono "crocifissi" sul pavimento della biblioteca. Quale povertà? Il non saper comprendere che tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico.

La masseria delle allodole

Rabbia e incredulità sono i miei unici ricordi de La masseria delle allodole, inguardabile pastrocchio dei (furono) Paolo e Vittorio Taviani. Che io sappia, è il primo film - perlomeno in Italia - a raccontare l'orrore senza fine e senza colpevoli del genocidio armeno in Turchia; è tratto dal romanzo omonimo di Antonia Arslan, per quanto liberamente adattato; gli autori sono stati tra i più visionari e anticonformisti della storia del cinema italiano nel secondo Novecento...
Ma sono stati, furono, appunto: nulla sembra essere rimasto della loro forza e della loro identità. Per più di due ore al malcapitato e fiducioso spettatore tocca sopportare, ancora una volta, uno sciropposo film per la televisione gonfiato a 35 millimetri. Personaggi senz'anima, a due dimensioni, deprimenti anche per le interpretazioni da operetta di Paz Vega, Ángela Molina, Mohammed Bakri, Tchéky Karyo, Hristo Jivkov, André Dussolier, Arsinée Khanjian e via maledicendo. Una vergogna ridurre a tal modo questa pagina terribile della storia universale: il "Grande Male", le Marce della Morte, due milioni e mezzo di persone assassinate dai Giovani Turchi... Tutto ridotto e appiattito, trasformato in un melodramma patetico e insulso, scritto malissimo e girato da novellini, senza un moto interiore, senza empatia, nulla. Un disastro.

Il mio migliore amico

Patrice Leconte è il regista de L'uomo del treno e di Confidenze troppo intime. Dispiace ricordarlo, soprattutto mentre si è seduti in platea a guardare Il mio migliore amico, che è un fiasco quasi totale, una vera tristezza. Leggo la filmografia del regista e vedo che nei due film precedenti Leconte stava "soltanto" dietro la macchina da presa, mentre qui è anche scrittore: la cosa mi intristisce ancora di più, perchè avevo creduto che questo signore parigino fosse proprio un originale, oltreché bravo nel tirare fuori il meglio dai suoi attori. E invece guardate il finale del film, quindici minuti della versione francese di "Chi vuol essere milionario", il tutto senza alcuna poesia trasfiguratrice (e ce ne vorrebbe, di tale poesia, in una scena del genere); guardate Daniel Auteuil, uno dei più bravi attori francesi in circolazione, stracco e automatico quanto mai prima d'ora, che non ce la fa proprio a rinvigorire questa storiella finto-eccentrica e troppo edificante sui benefici di una sana vita sociale... Avanti, speriamo sia solo un incidente di percorso e continuiamo a fare il tifo per il buon Leconte.

Uno su due

A me è piaciuto Uno su due, l'ultimo film di Eugenio Cappuccio: una bella storia (la sceneggiatura aveva vinto un premio Solinas nel 2001) girata con sincerità e sensibilità, e ben interpretata da Fabio Volo - attore vero - assieme al sempre ottimo Giuseppe Battiston e a un insolito, intenso Ninetto Davoli. il Volo è un avvocato di Genova, senza troppi problemi morali, che un giorno sviene in mezzo alla strada e si ritrova in una stanza d'ospedale più brutta delle altre, in attesa di una diagnosi che potrebbe essere molto pesante. Dimesso ma sempre in attesa della verità, il protagonista lascerà che la sua vita precedente gli crolli addosso, e con i cocci proverà a costruire qualcosa di buono. Non tutto tiene perfettamente nel film, i personaggi di secondo piano sono un po' macchiettistici (come avveniva nel precedente film di Cappuccio, il pur buono Volevo solo dormirle addosso) ma l'intensità del discorso non ne risente: ci sono più domande che risposte nel film, e le risposte non sono preconfezionate.

Morte di un Presidente

Davvero inquietante Death of a President, di Gabriel Range: non saprei dire se più per la forma o per la sostanza. Il film è un grandioso mockumentary, ovvero un finto documentario, sull'assassinio di George W. Bush a Chicago il prossimo 19 ottobre. La produzione e la regia sono inglesi, lo si vede bene dalla cura della messa in scena: non ci sono cadute di tensione narrativa, e i momenti più causticamente divertenti sono quelli in cui la storia si fa più tragica. A tratti il film è davvero incredibile (per modo di dire), ad esempio nella scena dell'orazione funebre di Dick Cheney, divenuto il 44° Presidente degli Stati Uniti, sul feretro del predecessore: ma come hanno fatto a girare la scena di qualcosa che non è accaduto realmente?, ci si chiede in platea; mentre vengono in mente quei filmini di Osama Bin Laden che ogni tanto comparivano sugli schermi televisivi di tutto il mondo, o la registrazione video dell'aereo che cadde sul Pentagono l'11 settembre 2001. Se l'ironia è (cito da dizionario) un "particolare modo di esprimersi che conferisce alle parole un significato contrario o diverso da quello letterale, con intento critico o derisorio", questo film non è ironico: il suo intento è anche critico e derisorio, certo, ma bisogna riconoscere che le ipotesi sul futuro degli Stati Uniti dopo un fatto del genere sono del tutto plausibili. Per quello che conta, l'amministrazione Bush non ha fatto commenti; il film è stato rifiutato da due grandi catene di sale cinematografiche a stelle e strisce, prima di approdare sugli schermi americani grazie alla non famosissima Newmarket Films. Costo dei diritti di distribuzione, un milione di dollari: tutti volevano vederlo...