mercoledì 24 ottobre 2007

Michael Clayton

Era da un pezzo che non mi emozionavo tanto per un film. Michael Clayton, scritto e diretto da Tony Gilroy - al suo esordio dietro la macchina da presa - è davvero bellissimo, un piccolo capolavoro. Il merito è molteplice: prima di tutto la sceneggiatura è un gioiello, senza difetti, complessa ma trasparente, capace di scavare nell'animo dei personaggi senza provocare cali di tensione nella storia, e di far funzionare in modo impeccabile il flashback che sta alla base del racconto. La regia aderisce perfettamente al copione, secca e tagliente, forte ed essenziale: bisogna davvero congratularsi con Gilroy, alla sua prima prova ha fatto subito centro (mentre come sceneggiatore aveva già messo a segno diversi colpi, essendo l'autore della saga di Jason Bourne, di Rapimento e Riscatto e di L'avvocato del Diavolo, per citare alcuni suoi lavori precedenti). E poi c'è la recitazione: non avevo mai visto un George Clooney tanto dolente, amareggiato e misurato, la sequenza dei titoli di coda è da antologia; assieme a lui, grandissimo, ci sono Tilda Swinton, sempre perfetta, un Tom Wilkinson magnificamente disperato e Sydney Pollack, che è sempre un piacere veder recitare. Fotografia di Robert Elswit, musiche di James Newton Howard, produttore esecutivo Steven Soderbergh assieme allo stesso Clooney e ad Anthony Minghella... Insomma, Michael Clayton, in concorso a Venezia quest'anno, è un film nel quale molti hanno creduto: e l'emozione dello spettatore nasce anche dalla percezione di questo impegno, così alto nella ricerca della bellezza e nel racconto del Mistero.

venerdì 19 ottobre 2007

In questo mondo libero

E' tornato anche il nostro caro vecchio Ken Loach, e quando esce un suo nuovo film è sempre come incontrare un amico che non vedevi da tempo e che conosci molto bene. Settantuno anni portati da leone, con la rabbia e l'energia di un trentenne ma la maestria registica della sua età, Ken racconta un'altra storia di ingiustizia della sua Gran Bretagna (questa volta l'attenzione è sul lavoro interinale e sull'immigrazione). E' chiaro che ci sono alcune tipicità nel cinema di Loach: i suoi protagonisti provengono sempre da una certa classe sociale, e ciò che loro capita dipende sempre dal sistema delle classi di cui essi fanno parte. Loach crede nella Rivoluzione, certo; è un regista politicamente impegnato, anzi, è il regista impegnato per eccellenza, se vogliamo continuare ad usare un certo gergo trito e ritrito con il quale si è soliti approcciare il lavoro del cineasta inglese. Eppure, vedendo quasi tutti i film di Loach da Ladybird, Ladybird (1994) in avanti, mi sono convinto che non si tratti soltanto di classi, proletariato, rivoluzione e via dicendo. I film di Loach hanno una dimensione più profonda, una risonanza di eternità: sia che affrontino vicende del passato, sia che guardino in faccia il presente, sono sempre il male e la tragicità della condizione umana a mostrarsi ben evidenti sullo schermo. Lo stesso plot di It's a free world..., opera del bravo Paul Laverty (che ha vinto l'Osella per la migliore sceneggiatura a Venezia 2007), ha una struttura che ricorre in molti altri film di Loach: un personaggio proveniente dal proletariato cerca di uscire dalla propria condizione sconfinando nell'illegalità e finisce col pagarne le conseguenze, impreviste e imprevedibili; eppure ogni film del grande Ken possiede una sensibilità a sè stante, mai replicabile. Come sempre poi, a questa autorialità fortissima fa da contraltare la recitazione perfetta del cast, che riesce a far apparire sullo schermo le persone, non i semplici personaggi; ed è davvero mirabile il modo in cui il taglio documentaristico dei film di Loach riesce a produrre ogni volta una rappresentazione straziante dell'eterna tragedia umana.

Il buio nell'anima

Che delusione l'ultimo film di Neil Jordan. The Brave One comincia bene, fa sperare: i grattacieli di New York che si muovono dietro un vetro deformante, e intanto la voce over della protagonista parla di ricordi, di cose perdute, del cambiamento. Ma poi il personaggio di Erica Bain (Jodie Foster, del tutto fuori forma) cade a pezzi: è la sceneggiatura a volerlo, certo, ma nel seguito del film il copione non sa dare una forma a questo disordine tragico. La storia mette molta carne al fuoco (quello delle pallottole, soprattutto), vuole toccare molti temi ma così facendo, appunto, si sbriciola e perde di senso. Dal punto di vista della drammaturgia, il film non mi è sembrato molto compatto: ci sono diversi personaggi che sembrano entrare in scena ma che poi spariscono quasi inspiegabilmente, e questo fa pensare che non avrebbero nemmeno dovuto esserci. I dialoghi sono a volte implausibili fino all'assurdità, mentre il film si trasforma paradossalmente da dramma introspettivo a poliziesco più o meno spettacolare, ma di seconda mano. La cosa peggiore è il fatto che, dopo aver posto un interrogativo morale non da poco (è lecito farsi giustizia da sè, quando l'Autorità è assente o impotente?), il film risponde ad esso in modo totalmente hollywoodiano, superficiale, ottuso; finge comprensione e umanità, ma il suo è soltanto un modo di chiudere i conti sbrigativamente con il meccanismo filmico del finale catartico, previsto e voluto dallo spettatore. Solo un meccanismo, ecco cos'è The Brave One, e funziona anche molto male.