venerdì 30 novembre 2007

Rai Uno, il girone dei Benigni

Senza volerlo - sia chiaro - ieri sera ho assistito a una decina di minuti dello "spettacolo" di Roberto Benigni sul primo canale del servizio pubblico. Non mi ero informato e non sapevo perché Benigni tornasse in televisione, avevo soltanto sentito le réclame nei telegiornali, sempre del servizio pubblico: uno show fatto di "satira, sesso e lettura di Dante", dicevano. Boh. Comunque, ad un certo punto mi ritrovo davanti il toscanaccio nazionale, quello che aveva cominciato da TeleVacca e dall'Inno-del-corpo-sciolto, tutto tirato a lucido, ben pettinato e infilato dentro un bell'abito stile Prada o D&G, o roba simile. Lo guardo distrattamente e penso: cosa gli è capitato? No, lo so, sono io ad avere perso colpi; del resto non ho mai seguito molto Benigni, non ho nemmeno mai visto La vita è bella, ahimè. Ad un certo punto vedo che Benigni  ha vicino a sè un leggìo, così comincio anche ad ascoltare quello che dice, per quanto difficile sia distinguere le parole nel suo eloquio torrenziale: giuro, mi perdo un terzo di quello che gli esce di bocca, per quanto la sua pronuncia è stropicciata; penso: si fermerà un momento, e le terzine del Poeta, che sublimano qualunque umana voce lor si presti, faranno il resto... No. Il leggìo rimane in disparte, mentre Benigni va avanti per la sua strada: ce n'è per tutti (quelli dell'altra parte), Berlusconi Fini Casini Ferrara Calderoli Maroni Buttiglione Storace ecc. ecc. Nulla di male per carità, ci mancherebbe; però mi ha lasciato un po' perplesso il tono delle "gag". Per esempio, vado a memoria: "Buttiglione... Buttiglione è uno che secondo me manco c'ha più il pisello... Ha raggiunto l'atarassia... [...] Rocco si scherza eh? Rocco, 'un me fa' causa ti prego... Comunque non credo che mi farebbe causa, perché se dico che Buttiglione c'ha tre o quattro piselli e lui mi fa causa, poi ci ritroviamo davanti al giudice e lui gli deve fa' vedere quanti piselli ha se vuole vincere... Rocco... Si scherza... Rocco e i suoi piselli...". Imitando Storace: " Ma che cazzo fanno 'sti frosci fiji de 'na mignotta?" e via così. Sono rimasto lì davanti dieci minuti scarsi, e devo aver sentito la parola "cazzo" una decina di volte: una media interessante, da prima serata del primo canale del servizio pubblico. E chi poi si lamenta della volgarità diffusa e imperante non ha capito nulla: no, perché questo è uno spettacolo per famiglie, uno spettacolo di beneficenza (Benigni ripete spesso: "mandate i messaggini eh? Più sono meglio è", così deduco che sia in atto una raccolta fondi) e di alta cultura. Chissà se più tardi Benigni avrà letto il Paradiso. Mi fa tremar le vene e i polsi soltanto pensarci.

mercoledì 28 novembre 2007

Olocausto Canadese

Non è uno scherzo. Presente il Canada? Il secondo Paese più grande al mondo, quel posto che nei film di Michael Moore sembra il paradiso in terra, dove nessuno spara e dove le porte delle case sono sempre aperte? Lavorando, qualche tempo fa mi sono imbattuto in un file PDF che mostra tutta un'altra faccia del pacioso grande Paese nordamericano. Il file lo trovate qui. Cosa c'è scritto? Traduco alla meglio le prime parole: "Nascosto dalla Storia. L'Olocausto Canadese. La storia mai raccontata del genocidio delle popolazioni aborigene da parte della Chiesa e dello Stato in Canada. Rapporto su un'inchiesta indipendente e ancora in corso sopra le 'Scuole Residenziali' per Nativi Canadesi e il loro retaggio". E via così. Ancora una volta devo ammettere la mia orrida ignoranza della Storia contemporanea, mentre devo ammettere di non ricordare alcun contributo alla memoria di questo evento da parte dell'arena mediatica nazionale (ma c'è qualcosa di strano in questo?). Wikipedia contiene una breve voce sull'argomento, voce che si può riassumere pressappoco così: Hidden From History: The Canadian Holocaust è un libro di Kevin Annett, ex appartenente alla Chiesa Unita del Canada, che per il libro ha raccolto numerosissime testimonianze di prima mano di nativi sopravvissuti alle residential schools, e che a causa delle sue pubblicazioni (incluso un sito web) è stato più volte in pericolo di vita (cronologia). Secondo Annett, soprattutto fra la fine del XIX e la metà del XX secolo, le residential schools divennero campi di lavoro forzato e luoghi di sterminio, nei quali ad esempio i bambini aborigeni venivano deliberatamente esposti al contagio della tubercolosi o utilizzati come cavie per test farmacologici, il più delle volte letali; secondo le testimonianze raccolte le scuole erano pure luoghi di abuso fisico e sessuale, anche nei confronti dei più giovani. In Canada esiste persino una "Società dei Sopravvissuti alle Scuole Residenziali Nazionali" (traduzione dal titolo del sito web).
Più leggo, più mi sembra assurdo che certe cose rimangano fuori dai discorsi mediatici che definiscono le priorità dell'opinione pubblica. Chissà cosa studiano i ragazzini d'Italia nelle loro "scuole superiori", chissà dove si fermano i programmi di Storia al 5° anno. Immagino che lo studio della Storia - non soltanto a livello universitario - sia una delle avventure intellettuali più avvincenti, e rimpiango di non avere intrapreso seriamente quel cammino: da giovani si compiono errori, ma forse l'errore più grande è non tentare di rimediare in seguito. Occuparsi di Storia è occuparsi a fondo della natura umana, con i suoi abissi e i suoi vertici; significa perlomeno elevare l'esercizio della memoria a disciplina e a stella polare della propria esistenza, per tentare infine di comprendere le
ragioni dell'oggi e le potenzialità del futuro.

mercoledì 21 novembre 2007

Meduse

Piccolo prezioso film proveniente da Israele, Meduzot (regia di Etgar Keret e Shira Geffen) arriva in Italia grazie alla distribuzione della Sacher di Nanni Moretti; ed è una delizia. Vite che si sfiorano appena sullo sfondo di una Tel-Aviv trasognata e sospesa, sconfinamenti senza soluzione di continuità nel sogno, nel ricordo e nella fantasia: vero, bellissimo realismo magico. Purtroppo non conosco quasi per nulla la cultura ebraica, e perdo così buona parte dei segni e rispettivi significati che costellano il film; ma l'opera è assai densa e complessa, nonostante la sua apparente levità, con una ingente stratificazione semantica. Non c'è molto da aggiungere: si tratta di un lavoro geniale, perfettamente scritto, diretto e interpretato, al centro del quale stanno la memoria, la ricerca di sè attraverso il ricordo e il desiderio di amare ed essere amati, contro ogni avversità. Imperdibile.

L'abbuffata

Un pasticcio totale, ecco cos'è l'ultimo film di Mimmo Calopresti. Anzi, si potrebbe pure parlare di schifezza. Dico subito delle (pochissime) cose buone del film, così poi mi posso sfogare: la cosa migliore è la colonna sonora, firmata da Sergio Cammariere e dal Parto Delle Nuvole Pesanti: credo siano brani inediti, almeno quelli di Cammariere, ma non mi sono informato; le canzoni sono belle, parole e musica del sud, calore, ritmo e voci scure. C'è Diego Abatantuono, la migliore interpretazione del film - anche se non proprio sopraffina perchè un po' gigionesca; ma il suo personaggio è di gran lunga il più bello, il suo dolore è reale e si percepisce chiaramente anche sotto le battute troppo facili. Poi ci sono i due cammei di Donatella Finocchiaro e Valeria Bruni Tedeschi: le due attrici sono brave come sempre e salvano i propri personaggi, anche se in extremis. Ok per Paolo Briguglia ed Elena Bouryka, ma niente di più. Il paesaggio è quello della Calabria, ma come merito del film è un po' stiracchiato.
Tornando dunque al gran pastrocchio di Calopresti: boh... Cosa gli è capitato, cosa voleva fare? Se il suo scopo era un film sulla spazzatura cinetelevisiva contemporanea, bisogna dire che si sia avvicinato così tanto al proprio soggetto da venirne irrimediabilmente contaminato, con il risultato che anche il suo film è spazzatura. Se vuoi raccontare l'assurdo non puoi farlo in modo assurdo, Mimmo; altrimenti dove sta la differenza fra te e loro? Passi che tu ti metta a fare il protagonista del film senza saper recitare, ma proprio per niente; va bene, può essere un riferimento ai molti attori che non sanno fare il proprio mestiere, oltre che una risposta a tutti quelli che ti dicono sarebbe meglio tu rimanessi dietro la macchina da presa (per evidenti motivi). Ma il film non sta in piedi, Mimmo: questo non è cinema, non è niente! Non ci sono quasi personaggi, non c'è uno straccio di storia con un pezzetto di significato al di là dell'ovvio, o una battuta da ricordare. Se volevate divertirvi, tu e i tuoi amici, andavate a cena fuori per gli affari vostri! E Depardieu, cosa mi rappresenta Depardieu, perché sta nel film? Volevi girare una "favola" sul Paese che va a picco? Sui cari vecchi valori di una volta che ci possono salvare? Dài, Mimmo... Nè capo nè coda, solo due ore buttate via dentro un cinema.

Piano, solo

Una bella sorpresa l'ultimo lavoro di Riccardo Milani, scritto con Ivan Cotroneo, Sandro Petraglia e Claudio Piersanti: il film è una dolorosa e commovente biografia del pianista jazz Luca Flores, scomparso tragicamente nel 1995. Flores è stato uno dei più grandi musicisti jazz italiani di sempre: compositore e performer eccelso, ha suonato con Chet Baker, Dave Holland, Massimo Urbani (qui un sito web a lui dedicato, per chi volesse conoscere meglio la sua musica). Milani ultimamente aveva lavorato molto per la televisione: sue per esempio furono le fiction RAI sul sequestro Soffiantini e su Cefalonia; però il regista, classe 1958, non cade nell'errore di girare un film per la tv: Piano, solo è la narrazione lancinante della tragedia di un'anima tormentata dalla malattia, ma i suoi toni sono trattenuti e non vi è alcuna spettacolarizzazione del dolore; piuttosto, un'intima empatia verso il protagonista del racconto e verso la sua famiglia, e una ammirazione silenziosa e discreta. Un grande applauso a tutto il cast: prima di tutti a Kim Rossi Stuart, grandissimo, che oggi è uno dei migliori attori italiani e che affronta questo ruolo con misura ma con profondo trasporto; poi a Jasmine Trinca, anche lei oramai a pieno titolo nella meglio gioventù del nostro cinema: una ragazza di 26 anni che ha iniziato a recitare quasi per caso ma ha presto dimostrato di saper fare ogni tipo di parte. Lode pure a Paola Cortellesi, molto brava: come per tutti i veri comici, anche dietro la sua maschera si celava un grande talento drammatico, del quale per fortuna i registi nostrani si sono accorti in fretta. Ottimi coprotagonisti sono poi Michele Placido - maestoso nella sua cauta saggezza attoriale - e Sandra Ceccarelli, magnetica come sempre, assieme a Corso Salani, Mariella Valentini, Claudio Gioè e Roberto De Francesco.

Ai confini del Paradiso

Fatih Akin è nato nel 1973. Non l'avrei mai detto, specialmente dopo aver visto il suo ultimo, bellissimo Auf der anderen Seite (il titolo turco è Yasamin kiyisinda). Un film del tutto diverso dal precedente Gegen die wand (uscito in Italia con lo stupido titolo La sposa turca, quando la traduzione letterale sarebbe stata perfetta: "Contro il muro"); avevo molto amato anche quel film, ma gli preferisco quest'ultimo: perché Akin, a 34 anni, ha alzato la posta scrivendo e dirigendo un'opera di gran lunga più complessa, misteriosa e struggente. La sceneggiatura è davvero splendida, ed è costruita con sapienza impressionante: il copione, vincitore a Cannes 2007, è tecnicamente ineccepibile nell'incrociare i destini di diversi personaggi, così come nell'inusuale e perfetta architettura narrativa; nello stesso tempo, mostra una profonda attenzione alla psicologia dei singoli personaggi, superbamente delineati durante i molti cambiamenti che le loro esistenze gli impongono. Il merito maggiore della scrittura di Akin è quello di saper stemperare la propria possente geometria nell'emozione che scaturisce dalle relazioni fra i personaggi, trasformandosi così in racconto mirabile. Come in quasi tutti i film del regista turco-tedesco, gli avvenimenti si svolgono fra la Germania, a Brema, e la Turchia, a Istanbul e Trebisonda: questo contrasto fra le due estremità dell' Europa che fondano l'identità stessa del regista di Amburgo, oltre a sostanziare le simmetrie incrociate che stanno alla base del film, sottolinea la distanza fra i personaggi e la loro volontà, o non volontà, di ritrovarsi. Ottime le recitazioni di tutti i protagonisti, intensi e seducenti.

sabato 17 novembre 2007

Dedicato (con invidia) a chi sa ancora sperare

Questa mattina ho trovato su BlogBabel il link a questo articolo di Repubblica. L'articolo risale a un giorno e quattro ore fa (in questo momento), il fatto a cui si riferisce lo precede di un giorno. Tutti i giorni visito più volte il portale web dell'Ansa, dove questa "notizia" non è mai apparsa. Sul nuovo sito del Corriere, nemmeno. Nulla nei TG. Un fatto senza peso? Su BlogBabel si può trovare la discussione (assai esile) che l'articolo ha generato nella blogosfera italiana: non ho quasi nulla da aggiungere, a parte che in alcuni interventi ho notato una certa propensione a ignorare i possibili significati del fatto riportato, per concentrarsi su aspetti "tecno-sociologici" o addirittura per giustificare, banalmente e con motivazioni assurde e incomprensibili, gli autori del gesto. Nessuna rilevanza data all'aspetto "razziale" della vicenda, per fortuna. Segno che l'integrazione ha smesso di essere un problema? Lo spero. Per quanto mi riguarda, rimango attonito e allibito, in un silenzio interrogativo che non otterrà risposta alcuna, evidentemente. Per inciso, l'Ansa riporta in queste ore un'altro evento agghiacciante, accaduto negli Stati Uniti ma legato al precedente da un filo ancora quasi invisibile: il filo che conduce alla faccia più oscura della tecnologia, a ciò di cui si parla soltanto per lanci d'agenzia (quando capita) o brevi flash mediatici destinati all'evanescenza. Ma il bullismo elettronico, fenomeno in Italia ancora ignorato, non resterà a lungo una semplice etichetta da appiccicare a fatti di cronaca nei quali la violenza giovanile si mescola all'utilizzo "pop" della telematica: c'è ben altro in ballo. Il cyberbullying è soltanto uno degli aspetti sensibili della rivoluzione in corso, oscura e inquietante. Non ho idea di cosa stia accadendo; immagino abbia a che fare con la tecnologia e la scienza e con l'impatto che esse avranno sulle vite e sulle coscienze, rimodellandole in modo imprevedibile; e non saranno soltanto rose e viole, questo è certo. L'onda è ancora lontana, ma si avvicina alla riva. Saremo pronti? Non credo.

lunedì 12 novembre 2007

The Bourne Ultimatum

Avevo visto il primo film della serie quando era uscito, qualche anno fa, e mi ero divertito molto. Poi ho visto in DVD il secondo, che era molto diverso dal primo, e mi aveva detto poco (forse, anzi sicuramente, perché non l'avevo visto sul grande schermo, e in una sala buia: andare al cinema fa ancora molta differenza, anche per un action movie). Infine ho visto il terzo episodio, che invece è davvero uno spettacolo pirotecnico, pura adrenalina, una goduria. The Bourne Ultimatum, come il capitolo precedente The Bourne Supremacy, è diretto da Paul Greengrass (Bloody Sunday, United 93) e scritto da Tony Gilroy; il primo episodio invece era diretto da Doug Liman e si vedeva, perché c'era meno azione e qualche articolato tentativo di introspezione, se non ricordo male. Greengrass e Gilroy hanno cambiato molto il personaggio, lavorando di sottrazione e compensando con un copione a prova di bomba e dosi massicce di montaggio tarantolato più macchina a mano, condendo infine il tutto con repentini cambi di ambientazione (Ultimatum è stato girato a Mosca, Londra, Torino, Madrid, Tangeri e infine New York). Matt Damon è talmente bravo che il suo personaggio, un ex assassino della CIA vittima di un programma di addestramento "sperimentale", riesce ancora a sembrare un essere umano nonostante il volto costantemente corrucciato e la (finta, voluta, apparente) inespressività. La saga è stata tratta da un romanzo di Robert Ludlum: non so quanto vi sia del testo di partenza, ma so che in platea tocca trattenere il fiato per quasi due ore, incollati alla poltrona. Anche questo è Cinema, per fortuna.

Un'altra giovinezza

Youth Without Youth è il titolo originale dell'ultimo film di Francis Ford Coppola, tratto dal romanzo omonimo di Mircea Eliade, pubblicato in rumeno, negli Stati Uniti, nel 1976 (titolo originale: Tinereţe fără de tinereţe). Evito di fare una riassunto di pessima qualità della voce inglese di Wikipedia che lo riguarda, e lascio il link per chi voglia approfondire. Non posso dire che il film mi sia piaciuto, ma neppure che si tratti di un film sbagliato, o brutto. Anzi. Francis Ford Coppola non è mai stato uno stupido per quanto ne so, e in questo film deve avere creduto molto, se non altro perché si tratta del suo ritorno dietro la macchina da presa dopo dieci anni, dai tempi cioè di L'uomo della pioggia. Credo che per apprezzare il film fino in fondo sarebbe stato necessario conoscere il romanzo di partenza, che è probabilmente un compendio delle teorie filosofiche e delle conoscenze storico-linguistiche e religiose di Eliade sotto forma narrativa. Non sapendo nulla del libro, mi limito a parlare di quel che ho visto sullo schermo. Il film, a partire dal titolo originale, è dominato dal tema del doppio, in particolare come riflesso speculare del sè. Il montaggio del mitico Walter Murch sottolinea assai bene questo tema, sicuramente arduo da affrontare visivamente. Anche Tim Roth, bravissimo protagonista del film, fa un ottimo lavoro nello sdoppiarsi in due diverse personalità (anche se è talvolta a disagio nel ruolo del protagonista da anziano; e d'altronde questo personaggio è per Roth una sfida, essendo assai lontano dai ruoli che si è soliti riconoscergli come "ideali"). Ad ogni modo, a causa di questa dominanza tematica del doppio, il film soffre talvolta di eccessivo schematismo, mentre in altri momenti rischia di divenire patetico e quasi morboso, cosa sottolineata dalla fotografia crepuscolare e a tratti stucchevole. Nel cast ci sono Bruno Ganz, sempre straordinario, Alexandra Maria Lara, intensa e anch'ella in un doppio ruolo, nonchè il buon Matt Damon in veste di comparsa.

Giorni e nuvole

Finalmente è tornato anche Silvio Soldini, tre anni dopo Agata e la tempesta; questo Giorni e nuvole ha tutta l'aria di essere un'opera "minore" (sia detto senza alcuna connotazione negativa) nella cinematografia del regista milanese, per più di una ragione. Innanzitutto manca la fotografia di Luca Bigazzi, quasi un marchio per i film di Soldini (e sarebbe stato davvero bello vedere la sua interpretazione di Genova, città nella quale il film è ambientato); poi manca Licia Maglietta, che se non altro è l'attrice con la quale ha girato i migliori film del recente passato. Ma non si tratta soltanto di cast&credits: Giorni e nuvole è un film sommesso e accorato, con unità di luogo e concentrato su due soli protagonisti, la coppia formata da Elsa (Margherita Buy) e Michele (Antonio Albanese). Un film realistico: totalmente legato alla realtà contemporanea, disincantato e amaro, quasi privo di quelle spendide aperture al caso e all'inatteso che per i protagonisti di tanti film del regista segnano l'inizio di un'esistenza nuova. In Giorni e nuvole è come se Soldini facesse definitivamente i conti con questo aspetto del suo cinema: anche qui è l'inatteso a dare il via alla storia, e anche qui le esistenze dei protagonisti sono destinate a mutare radicalmente; ma la sostanza del film è assai diversa da quella, ad esempio, di Le acrobate o di Pane e tulipani. Giorni e nuvole è caratterizzato da uno sviluppo narrativo quasi assente: non ci sono svolte, vertici o cadute, ma soltanto una accumulazione di brevi segmenti narrativi che mostrano situazioni tipiche e ripetute. Il montaggio è assai indicativo di questo nuovo tipo di narrazione: le scene sono molto brevi, girate spesso con un'unica macchina da presa, mentre gli stacchi fra una scena e l'altra intervengono proprio quando pare che la tensione narrativa del singolo segmento stia salendo; in altre parole, Soldini sembra voler trasmettere allo spettatore stesso la frustrazione di cui sono vittima i suoi protagonisti, allo stesso tempo dando l'idea della nuova, imperfetta e - è il caso di dirlo - precaria esistenza quotidiana di Elsa e Michele. E' come se il Soldini di Agata e la tempesta si fosse calato dalla atemporalità stralunata del suo film precedente alla contemporaneità triste e banale delle vite di molti di noi. Ma c'è sempre un punto di fuga, foss'anche soltanto la volta affrescata di una cappella riportata alla luce da Elsa dopo un lungo lavoro di restauro: alla fine del film i due protagonisti si rispecchiano dal basso in quell'affresco, scoperto passo dopo passo proprio come il montaggio del film, scena dopo scena, procede nel denudare l'esistenza dei protagonisti per lasciarli infine alla estatica contemplazione dell'unica cosa che gli è rimasta, il loro legame. Il finale, bellissimo, è la sola parte del film in cui la poetica del regista si fa evidente, ma Giorni e nuvole rimane un film differente: esperimento o svolta radicale è difficile a dirsi, data la magnifica imprevedibilità del lavoro di Soldini. Sta di fatto che Antonio Albanese è un bravissimo attore, anche se non è una novità; mentre Margherita Buy, pur in una delle sue parti migliori, dimostra ancora una volta di possedere uno spettro espressivo non particolarmente ampio. Elogio infine a Giuseppe Battiston: come Soldini si è accorto da tempo, l'attore friulano ha un valore inestimabile, essendo forse l'unico vero caratterista a tutto tondo del cinema italiano di questi anni. Anni Buy, appunto.

La giusta distanza

Non mi ha convinto l'ultimo film di Carlo Mazzacurati, e anzi ho faticato talvolta a riconoscere l'autore - che ho sempre apprezzato moltissimo - dietro le sue immagini e i suoi personaggi. Eppure il regista padovano con La giusta distanza è ritornato ai luoghi del suo lavoro d'esordio, il bellissimo Notte italiana: a fare da sfondo alle vicenda narrata, oggi come allora, è il paesaggio del Basso Polesine, vicino al delta del Po; oggi quel paesaggio viene mostrato attraverso la fotografia di Luca Bigazzi, certamente il miglior direttore della fotografia oggi in Italia; e Bigazzi fa molto bene il suo lavoro, come al solito, trasformando il paesaggio nel vero protagonista del film. Il problema, per uno che conosca almeno un po' quei luoghi, è proprio la distanza fra il modo in cui sono raffigurati nel film e la loro, oserei dire, ontologia. Bigazzi si accosta al paesaggio con grande rispetto, sapendo di esservi straniero, lui che tanti anni fa esordì splendidamente assieme all'amico Silvio Soldini con un nuovo tipo di rappresentazione dello spazio urbano (penso a Giulia in Ottobre e a L'aria serena dell'ovest): la sua fotografia è sommessa, tenue, e si tiene lontana dalle potenziali suggestioni "bucoliche" di quelle terre remote; eppure è una fotografia, che non aderisce alla realtà di quei luoghi, finendo - a mio parere quasi per eccesso di eleganza, o di ricerca formale - con l'allontanarsi dallo spirito dei luoghi e con l'offrirne una rappresentazione a volte scontata, altre volte eccessivamente "poetica". Le terre del Delta sono estreme in ogni senso: in quei luoghi l'animo si trova contemporaneamente di fronte all'Infinito e al Nulla, mentre la rappresentazione di Mazzacurati e Bigazzi tende ad attenuare le specificità del paesaggio, integrandolo nella generica e inflazionata idea cinematografica della "provincia italiana", con tutte le approssimazioni che ne conseguono. Questa banalizzazione dei luoghi fa il paio con quella dei personaggi: non soltanto di quelli secondari, nel film poco più che macchiette, ma soprattutto dei protagonisti. Buona è l'interpretazione di Hassan data da Ahmed Hafiene, discreta quella di Mara ad opera di Valentina Lodovini; ma entrambi i personaggi a mio parere hanno difetti di scrittura, specialmente quello della ragazza (non è ben chiaro quanto la sua superficialità e il suo comportamento quasi casuale siano volontà oppure "sviste" del copione, o della regia). Anche il narratore, Giovanni, interpretato dal notevole esordiente Giovanni Capovilla, è controverso: per tre quarti del film la sua presenza sulla scena è strumentale soltanto a quella della sua voce narrante, oltre che al tentativo di costruire un intreccio giallo peraltro assai malriuscito. E proprio la volontà di Mazzacurati di girare un film che, partendo da sotto-generi ben precisi (film "di provincia", storia d'amore interrazziale, giallo, film di denuncia) risulti altro dalla sommatoria dei sotto-generi stessi, porta alla estrema fragilità dell'impianto narrativo, lontanissimo dalla solidità e dalla compattezza di opere come Un'altra vita, Il toro o Vesna va veloce; mentre qui, e dispiace molto dirlo, si è ancora una volta più vicini allo sguardo e alla dimensione della fiction televisiva. Mazzacurati, a differenza di quello che accade al suo giovane protagonista, non sa tenere la giusta distanza: il suo sguardo vuole essere troppo comprensivo, e così il regista si allontana dall'umanità dei suoi personaggi e dallo spirito dei suoi luoghi.