giovedì 25 settembre 2008

Burn after reading

"Che cazzo di casino". Con questa frase, pronunciata da un pezzo grosso della CIA nel suo studio a Langley, si chiude l'ultimo bellissimo film di Joel e Ethan Coen. E molto prima che quella frase venga pronunciata, lo spettatore sta pensando esattamente la stessa cosa, e non ha nemmeno torto. Ma non facciamo casino e cominciamo dall'inizio.
Il film parte con la macchina da presa che inquadra la superficie del nostro pianeta e, in uno zoom in avanti, in accelerazione, seleziona un punto a caso su questa mappa, un punto irriconoscibile; zoomando sempre di più, la mdp sceglie infine un edificio nel quale "atterra" sul pavimento, o meglio sui passi veloci e ben calzati di un uomo in abito scuro. Il pavimento in questione è quello di Langley, Virginia, sede centrale dell'agenzia più famosa e meno conosciuta del pianeta; i passi sono quelli di Osborne Cox (John Malkovich, in grande forma), analista con papillon che, percorrendo i corridoi della Sede centrale, sta andando verso il suo destino. E così facendo sta mettendo in moto uno degli intrecci più pazzamente complicati che il cinema americano possa ricordare. Eppure si tratta di un racconto perfetto: i Coen sono narratori straordinari, e qui hanno quasi superato loro stessi. Il loro copione è tecnicamente ineccepibile, e ottiene l'effetto desiderato di "incasinare" lo spettatore attraverso un accumulo ipertrofico di filoni narrativi che si intrecciano e si allontanano senza alcun ordine o schema rintracciabile. Ed è proprio questa la grandezza degli autori, qui come in molte altre loro opere: riuscire mirabilmente a imitare il Caso, o meglio, a dargli forma. Burn after reading è esilarante, dall'inizio alla fine, sembrerebbe quasi un film comico; eppure, ripensandoci, non c'è proprio nulla da ridere. Perché quello che i Coen vogliono mostrare è l'assurdità del Caso, la sua crudeltà, la sua assoluta indifferenza verso gli uomini e persino forse verso l'idea di "destino". Penso al dischetto che viene ritrovato casualmente nella prima parte del film, e che mette in moto l'intreccio delle storie dei vari protagonisti; il dischetto viene ritrovato da un personaggio marginale, che a malapena riesce ad esprimere concetti e a rispondere alle domande che gli sono poste: una specie di personificazione del Caso stesso, che non dà risposte, è in sè vuoto di senso e di significato. E il dischetto ritrovato, che contiene una serie di codici inspiegabili e non interpretabili, è un simbolo del film medesimo; anche quest'ultimo è apparentemente privo di significato, non interpretabile, senza capo nè coda. Tutti i personaggi vedono cambiare radicalmente le loro esistenze fra l'inizio e la fine del film, alcuni perdono anche la vita in modo appunto crudele, assurdo e insensato; e in tutto questo non c'è alcuna logica, nessun codice. Su quel dischetto qualcuno ha copiato una serie di dati segreti non interpretabili, e quindi caotici e privi di senso; allo stesso modo, la macchina da presa seleziona una porzione casuale di realtà con il suo zoom iniziale verso il basso, la copia sulla pellicola, e poi zooma all'indietro per chiudere il processo di copia; ma ciò che si legge in questa copia non è comprensibile, non ha alcuna chiave di decrittazione: l'esistenza umana è priva di un significato intelligibile, è puro caos, non c'è nessun destino. E come sempre nel cinema dei Coen il cerchio non si chiude: non ci si lasci ingannare da quei (finti) movimenti di macchina all'inizio e alla fine del film, nè dal fatto che tutto inizia e finisce nel quartier generale della CIA (della CIA è la mossa che dà inizio alla catena causale/casuale degli eventi, ma la CIA stessa alla fine del film non saprà comprendere ciò a cui essa stessa aveva dato origine). Non c'è nessuna reale apertura o chiusura del film, nessun meccanismo scatta prima o dopo per rimettere le cose a posto (e quale posto, del resto?); si tratta soltanto di una selezione temporale in un flusso ininterrotto di casualità. Burn after reading è allora proprio come un messaggio in codice, da distruggere dopo avere letto: forse perché contiene segreti impossibili da tollerare.

domenica 21 settembre 2008

Denti

Teeth, lo dico subito, è un film ridicolo e assurdo, poco più di una barzelletta involontaria. L'idiota che l'ha scritto e diretto, Mitchell Lichtenstein, è figlio di un genio dell'arte contemporanea, il ben più famoso Roy, pensa un po'. Mitchell invece ha lavorato soprattutto come attore, ma ha anche fatto un altro film come "autore", Resurrection, del 2004 (mai sentito? io no). Comunque sia, questo film non fa schifo perché parla di vagina dentata o perché ci sono due o tre scenette splatter malfatte: è che non ha nè capo nè coda. A parte i temi accozzati uno all'altro così, senza legami e senza risonanze (credo che con un soggetto del genere avrebbe potuto uscire un gran bel film, anche se probabilmente soltanto "di genere") il regista non sa proprio raccontare una storia. Non c'è un racconto propriamente detto, c'è soltanto una serie di episodi che hanno in comune protagonisti e ambientazione, ma che sono narrativamente slegati l'uno dall'altro. E' davvero un film inesistente, questo Teeth: è un horror con tre scene horror in tutto, è una cazzata sexy-morboso tipo American Pie, è un film che usa come simbolo la sagoma di una centrale nucleare per significare il dominio maschile sul reale (ma quale dominio, ahò, li mort...)? E' un disastro, una puttanata immonda, ecco cos'è. C'è un'unica protagonista, ma non è coerente o credibile nemmeno per un attimo, a parte la dentatura interna, in un'ora e mezza. Va bene? L'hanno presentato al Sundance, questo film; ma al Sundance come sono messi?

La terra degli uomini rossi

E' bravo Marco Bechis, si sentiva la mancanza del suo cinema. La terra degli uomini rossi è un'opera forte, compatta, senza sbavature. Un autentico film di denuncia, che indigna e sconvolge. Lo stile di Bechis è asciutto e essenziale, ma ci sono anche visioni potenti e suggestive; non è un film girato con lo sguardo provinciale dell'Italia odierna, l'autore è un vero cittadino del mondo, lucido e mentalmente aperto, e questo film testimonia la sua ottima conoscenza della situazione sociale nel Brasile contemporaneo: la ricchezza di pochissimi che causa la povertà nera di tutti gli altri, le barriere sociali che diventano psicologiche, le fazendas, la violenza quotidiana e la corruzione che è parte integrante e indistinguibile delle istituzioni di quel Paese immenso e splendido. E in tutta questa consapevolezza, con tale lucidità, Bechis sa anche tratteggiare molto bene i suoi personaggi: gli bastano poche annotazioni per accendere l'empatia dello spettatore; empatia che, si badi bene, non diventa mai stupida pietà o commiserazione. Gli indios Guarani raccontati nel film hanno una dignità e una forza interiore invidiabili: costretti da altri a condurre esistenze vuote e assurde, che portano molti di loro alla scelta più estrema, non sanno in fondo cedere ai compromessi, nè diventano mai servili nei confronti del "dominatore" bianco, pur non avendo alcun potere di rivalsa. Insomma non si trasformano mai in un riflesso del loro nemico (sì, perché di nemico si tratta); mentre i non-indigeni facilmente si assoggettano ai fazenderos in cambio di una vita miserabile, questi ultimi sono rabbiosamente attaccati ai loro possessi e disprezzano senza vergogna il resto del loro mondo; sullo sfondo, turisti stupidi e irresponsabili sono vittime della menzogna che diventa cultura. Ma soprattutto, e ancora una volta, Bechis vuole mostrare l'orrore silenzioso del potere: l'oppressione dei forti sui deboli, dei molti sui pochi, dei ricchi sui poveri. Un'oppressione che, quando lo strumento dell'esclusione sociale non basta più, non esita a ricorrere alla violenza. Ma c'è qualcosa che non si può vincere nè con l'esclusione nè con la morte, sembra ricordare Bechis nelle sequenze finali: è lo spirito, è l'anima.

martedì 16 settembre 2008

Shine A Light

E finalmente sono riuscito a vederlo. Erano mesi che aspettavo... Peccato soltanto non averlo visto e sentito al cinema. Dico subito la verità: la cosa migliore del film di Scorsese è Scorsese: la parte iniziale è senza dubbio la più bella. E' la nevrosi di Martin che illumina le prime sequenze, quelle preparatorie; il resto del film potrebbe al confronto sembrare soltanto virtuosismo di ripresa e di montaggio. Gli Stones non sono in discussione, mai: ognuno di loro è un personaggio, la band è un insieme di individualità tenute insieme, o semplicemente vicine, dal palco che calpestano suonando. Troppo facile fermarsi al "guarda come si muove Mick Jagger a settant'anni"; ma è proprio vero, saltella come un ragazzino su e giù per il palco del Beacon Theater; e la sua voce. Allora, meglio ancora guardare in faccia Keith Richards, che ha sul volto qualcosa di davvero malsano e irripetibile. Keith è chiaramente il più magnetico delle Pietre Rotolanti, senza nulla togliere all'umiltà stralunata e alla simpatia debordante di Ron Wood, o all'austerità nobile di Charlie Watts. Ma se si possono apprezzare tutte queste differenze, è merito dello sguardo e della passione musicale del vecchio Marty, perfezionista appunto fino all'eccesso, e meravigliosamente nevrotico, ripeto. La musica, la band, l'Autore, tutti perfetti gli uni per gli altri. Il racconto qui non ha nessuna morale di fondo, come avveniva nello splendido No direction home; ma altri sono qui i personaggi, più breve il respiro dell'opera. E del resto che morale vuoi trovare negli Stones? Al diavolo la morale, anzitutto! Siamo qui per ascoltare e divertirci, e se Shine A Light rimane infine un po' sospeso, forse volutamente inconcluso, come una pietra che abbia finito la sua corsadi rotolare, non importa molto. Lo spettacolo c'è stato eccome, e sarà da ricordare.

Funny Games U. S.

Michael Haneke è un filosofo che lavora con la macchina da presa. Si interessa di etica e metafisica senza soluzione di continuità, ed è questo che rende il suo cinema tanto arduo, e tanto affascinante. Nel caso di Funny Games U. S., l'oscurità di Haneke sembra aver raggiunto il suo culmine. Il regista austriaco ha ri-girato un suo film omonimo del 1997, inquadratura per inquadratura, traducendolo in inglese e cambiando gli attori. Oggi ci sono Tim Roth, Naomi Watts, Devon Gearhart, Michael Pitt e Brady Corbet. Inquadratura per inquadratura. Capito? Ora, quanti piani di lettura ci possono essere per un'opera simile? Escludo matematicamente che si tratti di un remake commerciale, voluto da produttori che hanno riscoperto il "primo" Funny Games, ecc. ecc. Haneke ha le idee chiarissime, è determinato e impietosamente lucido, e non si interessa affatto alle dinamiche commerciali. Allora? Ripenso al film e mi vengono in mente le interpellazioni, i riferimenti al pubblico da parte di Paul, e agli altri elementi metanarrativi o metafilmici dell'opera (il rewind verso la fine, la breve discussione in barca fra i due massacratori al termine del film, per esempio). Funny games rappresenta la rappresentazione cinematografica, o la rappresentazione tout-court; ma per forza di cose è anch'esso rappresentazione. Non si esce da questo terribile circuito chiuso della significazione, sembra ribadire con compiacimento Herr Haneke. E così abbiamo oggi, nel 2008, la copia asimmetrica di un film già girato nel 1997, eppure diverso. Un riflesso, un rispecchiamento, a prima vista; e invece si tratta soltanto di due rappresentazioni, in fin dei conti: oggi siamo pur sempre nell'epoca del digitale, dove l'originale non esiste più, le copie non sono più copie perché manca il punto di partenza. Non c'è punto di partenza storico nemmeno in Funny Games, perché quel che i film raccontano è qualcosa di non storico: la violenza dell'uomo sull'uomo. Le ragioni non contano, non ce ne sono mai: uccidere senza ragione o per una ragione, che quando c'è è sempre buona agli occhi di chi uccide, non fa differenza. Ecco tutte le menzogne raccontate da Paul e Peter nel film, menzogne che non hanno una verità a cui essere opposte, come il film non ha un punto di partenza "reale". Non che quelle due letterine in maiuscolo nel titolo del film non facciano differenza: quanta violenza è stata praticata e rappresentata dagli U. S., nella loro Storia e nella Storia del loro cinema? Quante menzogne senza un riferimento finale sono state raccontate anche soltanto negli undici anni che separano il primo Funny Games dal secondo?

domenica 14 settembre 2008

Il mio amico giardiniere

Splendido, commovente, Dialogue avec mon jardinier è fatto con quel poco che abbiamo al di qua dello schermo: parole, luoghi, attese, sentimenti. Eppure quel che ci sembra così poco da questa parte dello schermo è come trasfigurato e mostrato per quello che davvero è, nel magnifico film di Jean Becker. Ovvero, quello che ci può salvare, ciò che dà sostanza e valore al nostro esistere. E' affascinante il modo in cui Becker pare non seguire uno schema, o addirittura un copione: la spontaneità dei suoi personaggi è emozionante, il pittore Daniel Auteuil e il giardiniere Jean-Pierre Darroussin - straordinarie le interpretazioni - sono imperfetti, contraddittori, umorali, reticenti in maniera mirabile; non ci sono eroismi o abissi, ma piuttosto una affezione silenziosa e umile, quasi reticente, per gli eventi della quotidianità. A differenza di quel che accade nel cinema di Rohmer, la narrazione lascia spazio nel finale a una sorta di epigrafe - umile e leggera come tutto ciò che l'ha preceduta - che svela brevemente, quasi di sfuggita, il nucleo tematico del film. Il mio amico giardiniere ha molto da insegnare, ma non si mette mai in cattedra; e si saluta il film con gratitudine, conservando ricordi di persone, non di semplici personaggi.

E venne il giorno

The happening, il titolo originale dell'ultimo lavoro di M. Night Shyamalan, è forse l'unica cosa buona del film. Il ragazzo prodigio di Hollywood, il cui cinema ho spesso amato (The Sixth Sense, Signs), ha perso il tocco magico. Qui anzi ha proprio toccato il fondo, dopo la già assai deludente performance di Lady in the water: E venne il giorno è vuoto come un palloncino gonfiato, non c'è nulla del suo autore. Niente suspence, autentica paura, nè tantomeno riflessione rivelatrice sul reale. Niente personaggi, niente colpi di scena, niente ribaltamenti di prospettiva. E' proprio la storia che è sbagliata, e il modo di raccontarla è stanco e privo di verve. Non sembra crederci nemmeno lui nel suo film, il vecchio M. Night. Anche lasciando perdere la monoespressione di Mark Wahlberg e la mediocrità degli altri recitanti, The Happening non vale qualcosa neppure come (stracco) messaggio ecologista. E' da buttare.

Tropa de Elite

Ecco un'altra assurdità da festival del cinema: Tropa de Elite ha vinto l'Orso d'oro a Berlino quest'anno, ma è soltanto una stupidaggine. Vogliamo scherzare? Il film non vale niente, è un racconto di serie B con odiosa ed ebete voce fuori campo, un viaggio posticcio nelle favelas di Rio de Janeiro attraverso lo sguardo dell'ineffabile capitano Roberto Nascimento, appartenente alle forze speciali della polizia brasiliana, il POBE. Il film dura 118 minuti, che non finiscono mai; ma pensate che in tutto questo tempo il regista Josè Padilha riesca a creare un personaggio credibile, una psicologia rudimentale, insomma qualcosa di umano e riconoscibile? Niente, non si capisce proprio cos'avessero fumato i giurati di Berlino in quel giorno di febbraio. Nel film c'è l'immancabile violenza pop della guerra fra poliziotti e bande delle favelas, qualche atrocità gratuita, tonnellate di cinismo stupido e nient'altro. Nessuna nota sociologica di qualche valore, nessuno da ricordare. Una perdita di tempo.

In Bruges

Sicuramente uno dei migliori film dell'anno, In Bruges è diretto da Martin McDonagh, un drammaturgo londinese di origini irlandesi. McDonagh aveva vinto un oscar per il miglior cortometraggio, Six Shooters, nel 2006; In Bruges è il suo primo copione per un lungometraggio. Non c'è nulla di sbagliato: un soggetto davvero originale, l'ambientazione insolita e significativa, una sceneggiatura che tiene in equilibrio perfetto i due protagonisti, senza sbilanciarsi al momento dell'arrivo dell'antagonista; i dialoghi sono splendidamente volgari e insolenti ma capaci di svelare l'anima dei personaggi, senza alcun macchiettismo; il tutto in un'atmosfera metafisica ma non propriamente antinaturalistica, in cui anche i comprimari sono ottimamente tratteggiati, e credibili. La grandezza del film sta nel suo essere al di là dei generi e delle convenzioni narrative: storia nera, commedia, insieme di sketch riuscitissimi, battute fulminanti, dubbi escatologici, indagine morale... Tutto questo insieme, eppure nella somma le parti si amalgamano e divengono indistinguibili. E alla fine ci si chiede se In Bruges non voglia essere, con mirabile cinismo, soltanto uno stupendo divertissement che suscita domande importanti per poi ridere in faccia allo spettatore, rispondendogli: non ci sono risposte, pensa solo a divertirti finchè puoi. Chi è più bravo fra Colin Farrell, Brendan Gleeson e Ralph Fiennes? Non saprei proprio dirlo, sono tutti davvero grandi.