venerdì 28 novembre 2008

Pa-ra-da

Bello l'esordio alla regìa di Marco Pontecorvo, che di mestiere fa soprattutto il direttore della fotografia. Un film pieno di sentimento, ma per niente patetico; al regista interessa più mostrare che dimostrare, e ci riesce bene. Pa-ra-da è secco e rapido, un gran racconto, anche se a volte un po' disarticolato; e la rapidità non va a scanso dell'interiorità dei personaggi, che sentiamo vicinissimi grazie soprattutto alla recitazione di un gruppo di prodigiosi attori ragazzini.

Non può mancare, com'è ovvio, la luccicanza etica di tutta l'operazione; ma Pa-ra-da è un film che racconta persone, non buone pratiche, ed è qui che sta il suo valore, oltre che nell'efficacia narrativa. Evito di raccontare la storia dell'associazione, del suo fondatore e delle loro attività: se vi interessa, trovate tutto qui. Il mio consiglio è semplicemente di andare a vedere il film, se non l'avete già fatto: perderete un po' di fiducia, forse, ma guadagnerete altrettanto in speranza.

Nessuna verità

Body of Lies è un film di poca importanza, tutto sommato. La sceneggiatura è un casino, in senso deteriore: soprattutto non riesco a trovare una logica nei rapporti fra i protagonisti, e nelle loro psicologie. Il personaggio Roger Ferris, in particolare, non ha nè capo nè coda: perché mai un agente della CIA pronto ad uccidere a sangue freddo e a distruggere per lavoro la vita della gente dovrebbe ad un certo punto farsi venire dei sensi di colpa? O preoccuparsi per qualcuno? E perlopiù, perchè dovrebbe farlo in maniera intermittente? Non si capisce poi la natura del legame che esiste fra Ferris e il suo capo Hoffman: lealtà, contrasto, disgusto, rispetto, boh! Il plot in sè, pure, non è niente di speciale: nulla di particolarmente illuminante sui metodi della CIA o sulla situazione del Medio Oriente contemporaneo, una storia non particolarmente avvincente, nemmeno un tentativo di spiegare qualche perché su come vanno le cose da quelle parti. Si punta soltanto allo spettacolo, m non si arriva neppure a quello: lo sceneggiatore, William Monahan (oscar per The Departed) qui ha fallito su tutti i fronti. La regia di Ridley Scott ormai è standardizzata: tiene bene, è robusta, ma non dà particolari emozioni. Da segnalare semmai è il buon feeling che sembra essersi instaurato fra il regista e Russell Crowe, che è al suo terzo film con Scott e la cui interpretazione qui è la cosa migliore di tutto il film; non si può dire la stessa cosa di Leonardo DiCaprio, e dispiace: questa non rimarrà certamente fra le sue performance da ricordare. Ma bisogna ricordare che, per quanto un attore sia bravo, non può dar vita a un personaggio che non funziona.

giovedì 27 novembre 2008

The Hurt Locker

The Hurt Locker è uno strano film. Per essere preciso, direi che è un'opera disturbante, a tratti addirittura misteriosa. Eppure ha un andamento lineare, uno stile che, per quanto deciso, è quasi "canonico": macchina sempre a mano e assai mobile, luce naturale, primi piani, insomma: il famigerato stile documentaristico. Qui, si intende, declinato alla maniera di Kathryn Bigelow, ovvero con dosi massicce di adrenalina, tensione sempre al massimo, personaggi "al limite". Io sono un grande fan della Bigelow, mi piace quel cinema "forte", che non dà tregua, assolutamente nevrotico ma tecnicamente ineccepibile e sempre di grande originalità: Blue Steel, Point Break, Strange Days per me sono piccoli capolavori.
E così fa un effetto particolare, e molto piacevole, ritrovare la Bigelow dietro la macchina da presa in un film di guerra. Una "femminista" come lei dirige un film di soli uomini, soldati nell'Iraq infernale di oggi: anche soltanto per questo varrebbe la pena vedere The Hurt Locker; ma c'è molto di più. Già il raccontare una guerra mentre ancora si sta svolgendo non dev'essere cosa facile. Se sei americano e decidi di girare un film sull'Iraq contemporaneo, immagino che la tua coscienza prima o poi ti chiederà da che parte hai deciso di stare; una domanda non semplice (se sei americano, soprattutto) che non accetta risposte facili. E infatti questo film è tutt'altro che facile; si apre con una citazione molto forte e passa immediatamente all'azione, letteralmente. Due ore e mezza di film che quasi volano via, mentre si assiste con gli occhi sgranati alla vita di una squadra di artificieri, quelli che devono disinnescare gli IED per le strade delle città irachene. Ogni missione potrebbe essere l'ultima, il confine fra la vita e la morte è talmente labile che l'esistenza umana perde ogni valore, che sia quella della popolazione locale o dei propri compagni d'armi. Eppure il protagonista del film, il sergente William James (benissimo interpretato da Jeremy Renner) è un enigma: maestro nel suo lavoro, sembra credere ancora alla vita ma affronta ogni missione da puro incosciente, come se nulla gli importasse di se stesso e degli altri; si affeziona ad un bambino iracheno, ma non sa essere padre per il proprio figlio, o marito per la propria moglie. Una schizofrenia di cui la Bigelow sa dare conto benissimo, con uno sguardo perfettamente equilibrato fra l'empatia e la fredda distanza del puro osservatore. Si è affascinati dal sergente James, ma non lo si riesce a comprendere; anche alla fine del film, mentre si conclude l'ultima sequenza, si ripensa alla citazione d'apertura e ancora non si riesce a trovare una risposta: come può la guerra dare dipendenza, essere una droga, al punto da portare via ogni altra cosa dalla vita di un uomo? E' questa la domanda più importante che la coscienza pone alla Ragione, al di là di ogni schieramento o appartenenza, e Kathryn Bigelow l'ha capito molto bene. The Hurt Locker è un film bellissimo, in cui si ritrovano tutti i temi amati dalla regista: la techné che irrompe nella vita degli esseri umani e la trasforma radicalmente; l'amore per le situazioni estreme, uniche occasioni in cui si manifesta la vera natura delle persone; e anche il principio femminile come via per la salvezza, anche se in The Hurt Locker ciò si percepisce proprio nell'assenza di tale principio salvifico, o nell'incapacità di comprenderlo da parte del protagonista. Oltre tutto questo però, The Hurt Locker è un'indagine inquietante sulla psiche, e su quanto ancora vi sia in essa di umano.

lunedì 24 novembre 2008

La terrazza sul lago

Lakeview Terrace è il nuovo film di Neil LaBute, regista e drammaturgo americano di cui ho amato soprattutto due film: l'esordio folgorante del 1997, In the company of men, e Nurse Betty, del 2000. Dico subito che quest'ultimo lavoro non è all'altezza di quei due precedenti; ma LaBute ha un tocco particolare, che si percepisce chiaramente anche in questa nuova opera.
I problemi riguardano soprattutto il copione e gli attori, e la loro sintesi sta tutta nel protagonista del film: il poliziotto di colore Abel Turner, interpretato da un Samuel L. Jackson stranamente non eccelso. Il personaggio di Turner non arriva mai alla verosimiglianza: non è tanto il fatto che si tratti di un villain eccessivo quanto contraddittorio; il problema è che le varie componenti del suo carattere sono come scollegate, e semplicemente ammassate una sull'altra: al di là della mancanza di logica - o della perversione di ogni logica - che lo caratterizza, Turner è soltanto un personaggio, e non arriva ad essere persona. Ripeto, si tratta di un problema di scrittura in primo luogo, e di recitazione in misura minore: probabilmente il vecchio Sam Jackson non si è trovato molto a proprio agio nel dover interpretare un personaggio scritto in modo così scombinato: impossibile trovare una "media" emozionale dalla quale partire. Jackson ci mette comunque del suo, ed è sempre un piacere vederlo al lavoro; ma dato che Lakeview Terrace si regge quasi del tutto sul suo cattivo protagonista, i guai diventano molto visibili.
E' un film che vale la pena vedere? Non ne sono sicuro. Ma la cattiveria sincera di LaBute, la sua capacità di sviscerare i conflitti latenti fra le persone a livello sociologico ed emozionale, questa c'è tutta. Dal punto di vista tematico non si vede nulla di nuovo: l'uomo oscuro della porta accanto, il poliziotto corrotto, i problemi etnici a Los Angeles... Tutte cose che fanno parte dell'immaginario hollywoodiano da un bel pezzo. Ma lo sguardo luciferino del regista, il cinismo che non risparmia nessuno, il disincanto al vetriolo danno a questo film il suo unico autentico valore.

Le tre scimmie

Mette quasi soggezione il film di Nuri Bilge Ceylan, regista turco di Istanbul, classe 1959. Migliore regia a Cannes 2008, Ceylan non è nuovo alle vittorie, sulla Croisette e altrove; io non lo conoscevo prima di quest'anno, e ho letto su Wikipedia che di mestiere fa anche il fotografo. Sto perdendo tempo volutamente con queste note biografiche, perché non so da dove cominciare per parlare del film... Opera oscura, morbosa e affascinante, Le tre scimmie è pervaso da un'atmosfera soffocante, una claustrofobia che non viene per nulla mitigata dagli squarci assolati sul Bosforo, o dal luminoso paesaggio anatolico. In effetti gran parte dell'"azione" si svolge all'interno di un modesto appartamento alla periferia della capitale, casa nella quale abita una famiglia di tre persone, padre madre e figlio. Pieno di silenzi tesi e opprimenti, il film procede con un sapiente accumulo di reticenze, fatti inspiegati e visioni, senza lasciare tregua allo spettatore. Fin dall'inizio si percepisce un senso di tragedia imminente, di catastrofe; ma Ceylan non mostra tale catastrofe nel suo avvenire, come se al regista interessasse molto di più analizzarne le cause, anzi, la catena di eventi successivi all'avvenimento casuale e tragico che apre il film. Fin da quel primo momento, una punizione sembra certa per i protagonisti; ma quando tale punizione arriva, per ognuno si tratta di qualcosa di inaspettato e aleatorio, come se i personaggi venissero colpiti dal Caso laddove meno se lo aspetterebbero. E così da un fatto esterno e accidentale, di cui i tre personaggi principali non hanno alcuna colpa, si sviluppa una serie di eventi che non solo travolgeranno i protagonisti e distruggeranno i loro rapporti reciproci, ma li renderanno anche colpevoli a loro volta.
Non ci sono risposte nel film, semplicemente perché nemmeno le domande vengono poste: Ceylan mostra avvenimenti che accadono, uno dopo l'altro, legati da nessi più o meno casuali, più o meno decisionali: e il rapporto, mai svelato, fra caso e libera scelta è al centro del film. Le proporzioni di tali componenti nelle vite dei personaggi non sono mai chiare; appare ben chiaro, invece, che la salvezza non è possibile. E' senza musica e senza speranza, Le tre scimmie: rimane soltanto lo sguardo, interiore o meno, per cercare di avvicinarsi al mistero dell'esistenza umana.

martedì 18 novembre 2008

La classe

Mica facile parlare di questo bel film di Laurent Cantet, regista di cui sin dall'inizio ho amato il lavoro. Mica facile non tanto per il logo della palma dorata stampigliato prima dei titoli di testa; quanto piuttosto perché, nonostante la linearità e la semplicità stilistica che lo caratterizzano, si tratta di un'opera complessa, anzi, iper-complessa. Innanzitutto Entre les murs porta lo stesso titolo del romanzo da cui è tratto, pubblicato nel 2006 e scritto da un vero professore di francese che narra la propria esperienza in una scuola media del XX° arrondissement di Parigi; il quale professore, François Bégaudeau, è anche coautore della sceneggiatura nonché protagonista del film, nelle vesti di un professore di francese di nome François. Gli alunni sono tutti ragazzi presi dalla scuola media del XX° di cui sopra. Questa la superficie delle cose. Oltre, cominciano le domande: di cosa parla davvero il film? Del sistema educativo francese, di una scuola della banlieue, della Francia contemporanea? Delle persone e dei loro rapporti in un contesto strutturato e regolamentato? Della responsabilità individuale, della colpa? Non lo so. Probabilmente di tutte queste cose assieme, senza sbilanciarsi; ma non senza prendere posizione, perché è abbastanza chiaro al termine del film che, almeno secondo gli autori, a perdere di più sono sempre i ragazzi.
Entre les murs parla della scuola francese, sì, ma tende a portare il proprio discorso a un livello superiore di astrazione: nonostante lo stile documentaristico, la macchina a mano, la luce naturale, il fatto che la vicenda si svolga tutta all'interno della scuola tende a connotare quest'ultima come universo chiuso e autoreferenziale, eterno, con proprie regole, gerarchie e sanzioni. Un tale ambiente autoreferenziale, se da un lato presenta caratteristiche che mettono in secondo piano la sua appartenenza geografica e culturale, dall'altro lato è un contesto sterile, freddo, scollegato dalla realtà "esterna", e pertanto inutile e vano. L'analisi di Cantet e Bégaudeau dunque, se ad un primo livello appare di tipo sociale, è in realtà soprattutto metafisica. A questo tipo di lettura si ricollegano le ultimissime scene del film, nelle quali lo sguardo della macchina da presa si libera di una certa pesantezza "da inchiesta" e assume infine una levità "filosofica". Va da sè che non ci sono risposte; e come potrebbero esserci, quando la materia di cui si tratta è l'umanità stessa? Umanità, tra l'altro, benissimo rappresentata dal professore protagonista e dalla sua classe, tutti ottimi attori.

Control

E' magnifico e straziante, Control. Bellissimo, come quelle persone la cui interiorità traspare in superficie e illumina lo sguardo e i gesti, creando un'aura. Con intensità "autoriale" e devozione profonda Anton Corbijn racconta, nel suo primo lungometraggio di finzione, la vita di Ian Curtis. Prima ancora di essere la voce e l'anima dei Joy Division, Ian è stato un eroe romantico, nel senso che gli studi letterari danno a questa definizione. Non a caso arriva all'inizio del film la citazione, sotto forma di versi declamati dal protagonista, di William Wordsworth; e Corbijn compie un miracolo, tacitamente, portando il romanticismo nella periferia di Manchester, nell'Inghilterra sfasciata dalla fine degli anni '70 del secolo scorso. In un bianco e nero quasi insaturo, senza ombre, con tanto silenzio e poca musica over. Una forma che contrasta in pieno con il clima di quegli anni e quei luoghi, ma che è pienamente sostanza del protagonista, splendidamente interpretato da Sam Riley (davvero grande, assai più di una promessa). Un altro grande merito del film è poi quello di narrare l'esistenza di Curtis non in funzione dell'ultimo suo momento, ma partendo dall'inizio; il contrario di quello che fece Michael Winterbottom nell'orribile 24 Hour Party People, in cui Ian Curtis non era persona ma semplice figura, manichino assurdo, oscenamente inverosimile; un film di cui vergognarsi.
Corbijn invece ha firmato un piccolo capolavoro di sensibilità e umanità, di introspezione e mistero, senza estetismi fini a se stessi; nessuno potrà mai capire del tutto la vita di Ian Curtis, se non forse le persone che l'hanno conosciuto e amato; e il film si guarda bene dal dare stupide spiegazioni o interpretazioni; si mette - e ci mette - semplicemente in ascolto, con una innocenza e una leggerezza mirabili e con profonda, vera empatia. Un applauso alla regia, agli autori e agli attori, alla fotografia e a tutti coloro che hanno contribuito a realizzare questo film; quanto alla colonna sonora, non posso aggiungere nulla; se non che mi vergogno di non avere mai ascoltato i Joy Division fino a pochi giorni fa. Credo di avere appena cominciato.

lunedì 10 novembre 2008

Il passato è una terra straniera

Non funziona, l'ultimo film di Daniele Vicari. Lo scrivo con tristezza, perché Vicari è un bravo regista; però Il passato è una terra straniera è stato una grande delusione. Tutto lascia un po' a desiderare: la regia, il copione, la recitazione. Vicari perde ben presto il controllo del film, dopo un inizio promettente e pieno di atmosfera: il racconto si sfrangia, perde senso, si abbandona allo sterile autocompiacimento di sequenze tanto crude quanto insignificanti. Ma dal punto di vista narrativo il film è tutt'altro che agile; parte molto veloce ma non sa conservare il moto iniziale, e alla fine si ferma del tutto; - l'ultima parte è davvero insopportabile, non per la violenza ma per la noia.
Il vero problema del film è però il copione. Il lavoro è tratto dall'omonimo romanzo del 2004 di Gianrico Carofiglio, magistrato barese divenuto famoso negli ultimi anni per i suoi romanzi e saggi; la sceneggiatura è opera di Vicari, Gianrico e Francesco Carofiglio e Massimo Gaudioso. Bene, io non ho letto il libro, ma la scrittura del film è pessima e non si fa mancare neppure gli errori drammaturgici più banali. Il punto più catastrofico del film è il finale, dalle sequenze ambientate a Barcellona in poi: qui si intuisce quello che il film vorrebbe dire, ma ciò viene detto talmente male che perde senso, non sta in piedi. I "buchi neri" drammaturgici non mancano comunque in tutto il film, e mi chiedo se con una sceneggiatura scritta meglio, anche la regia avrebbe potuto essere più robusta. 
Terzo grande problema del film sono, ebbene sì, gli attori. Il difetto nasce sicuramente in fase di scrittura e si aggrava passando per la regia, dato che nessuno degli autori del film ha le idee davvero chiare sui personaggi; la cosa strana è che lo stesso Carofiglio avrebbe potuto in qualche modo intervenire, e non l'ha fatto; se questo significa che il suo romanzo è ben "portato" dal film, i casi sono due: Carofiglio non è un esperto di scrittura per lo schermo, oppure non è un buon romanziere (la prima ipotesi è probabilmente la più verosimile). Ad ogni modo, ecco il cast: Elio Germano protagonista, Michele Riondino copro/an-tagonista, Chiara caselli, Marco Baliani, Daniela Poggi, Valentina Lodovini. Nessuno fa il suo mestiere come saprebbe farlo; forse Vicari non è molto comunicativo con i suoi attori, fatto sta che perfino Elio Germano lascia a desiderare: gira al minimo, si scalda soltanto in un paio di scene (nemmeno molto sensate) e per il resto tira a campare; intendiamoci, non che il suo sia un personaggio memorabile: del suo carattere si capisce poco o nulla, non si sa bene come o perché decida improvvisamente di provare una vita differente e poi di ritornare indietro; l'altro personaggio principale, il baro, è ancora peggiore: dovrebbe essere un mostro a due facce nell'intenzione degli autori, ma è soltanto uno smidollato senza interiorità. Daniela Poggi è inespressiva come non mai, Marco Baliani è come bloccato, Valentina Lodovini è una bambolina e nulla più. Insomma, tutti quelli che hanno lavorato in questo film, autori e attori, avrebbero potuto fare - e hanno fatto in passato - ben di meglio. Evidentemente la chimica ha la sua importanza, al cinema come altrove.

mercoledì 5 novembre 2008

Vicky Cristina Barcelona

C'è poco da ridere negli ultimi film del vecchio Woody, e quest'ultimo non fa eccezione. E' un lavoro ben riuscito in fondo, che non fa rimpiangere i film precedenti. In Vicky Cristina Barcelona ho ritrovato lo stesso nichilismo cupo percepito in Sogni e delitti, ma con una sostanziale differenza stilistica: il regista ha dato al suo primo film "spagnolo" un'aura volutamente e totalmente posticcia, un senso irritante di finzione esistenziale all'interno della finzione filmica. I personaggi ritratti in Vicky sono del tutto antinaturalistici: vivono giorni superficiali, all'insegna della precarietà sentimentale, prigionieri e schiavi del proprio ego; e tutto questo ha luogo in una scenografia volutamente "turistica", che copre tutti i luoghi comuni su - e di - Barcellona, la Spagna e i suoi abitanti. Lo stesso regista ha dichiarato che voleva rappresentare il Paese iberico attraverso lo sguardo dei viaggiatori stranieri che vi trascorrono le loro vacanze più o meno durature, si tratti di due mesi di studio nella capitale catalana o di un'esistenza intera dentro un matrimonio senza amore; e perfino la voce fuori campo, onnipresente quanto sgradevole, alla fine ha una sua ragion d'essere in un tale contesto di pura fatuità; anzi, la voce over è lo strumento unico al quale l'enunciazione si affida per descrivere la psicologia dei personaggi e le ragioni che li muovono; senza di lei, essi apparirebbero automi insensati (ben più di quanto lo sembrino alla fine del film, in ogni caso). E a forza di incroci amorosi e di mosse sulla scacchiera, Woody sembra perfino voler costruire uno schema e dare un messaggio strutturato, verso la fine; invece niente, anche quello schema è finto e non porta da nessuna parte. Le protagoniste se ne torneranno in America esattamente come erano partite, e le loro esistenze rimarranno vuote e precarie com'erano prima del viaggio in Spagna. Così siamo noi tutti, sembra pensare Allen: turisti mordi-e-fuggi della vita intera. Si prende qualcosa di qua e qualcosa di là, si fanno un sacco di fotografie e ci si racconta un mucchio di storie, ma alla fine è tutto inutile, si ritorna sempre alla propria natura, buona o cattiva che sia, migliore o peggiore delle altre. L'unica cosa che ci rimane, anche se serve a ben poco.