domenica 21 dicembre 2008

Changeling

Come può un film essere tanto splendido mentre visita i recessi più terribili dell'essere umano? Come accade che un'estetica puramente classica, adamantina, sia in grado di misurarsi con l'orrore assoluto e di tenergli testa senza deformarsi? 
A Clint Eastwood non interessa tanto narrare una storia terrificante, realmente accaduta nella Los Angeles del 1928, quanto fare il ritratto morale di una società. Ciò è particolarmente evidente nella prima metà del film, la migliore, in cui si avverte con dolore e incredulità la presenza di una follia diffusa che, come un'epidemia, ha atrocemente contaminato non soltanto alcuni singoli, ma anche le stesse istituzioni; e forse, un'intera cultura. E' pazzia, e nient'altro, l'agire di Gordon Northcott (Jason Butler Harner), cacciatore di umani; ma anche quello del capitano J. J. Jones (Jeffrey Donovan), investigatore del LAPD, o dello stesso capo della polizia, James E. Davis (Colm Feore); e addirittura è follia il comportamento del dottor Jonathan Steele (Denis O'Hare), psichiatra e direttore di un manicomio criminale. Tale follia collettiva sembra poter sopraffare anche una persona come Christine Collins (Angelina Jolie, matura e misurata: brava), una delle poche che ancora sappiano distinguere fra realtà e finzione. La società intera sembra ad un certo punto attaccare Christine, mobilitandosi per distruggerne l'immagine e l'interiorità: e in platea si assiste con profonda angoscia a questo gioco tremendo e insensato, all'orribile spettacolo del Potere che calpesta impunemente verità e giustizia. Come, in cosa si può ancora sperare, a questo punto?
Eppure Christine compie un miracolo: non perde la speranza. E lo fa non per se stessa, non con propositi di vendetta, ma unicamente per amore; non si lascia distruggere dal male, rifiuta di lasciarsene contaminare. E nel frattempo, impossibile dire come o perché accada, altre persone che si rifiutano di piegarsi allo stesso male iniziano a convergere verso un unico proposito: cercare di ristabilire un equilibrio, combattere contro quella follia che sembra poter coprire ogni cosa.
E' un cinema altamente e squisitamente morale, quello di Clint Eastwood; ed è troppo facile pensare che si tratti del cinema di un giusto, che parla semplicemente ad altri giusti. Questo cinema è come uno specchio, e se gli specchi sono fatti per riflettere, vuol dire che al centro di esso c'è una domanda, un instancabile interrogarsi, un mistero. Guardate la scena dell'esecuzione, al centro della seconda parte del film, e chiedetevi se lo sguardo di Eastwood abbia in sè più compiacimento che pietà. Io non so dare una risposta, riesco soltanto a sentire quelle domande: come si può essere giusti? Come si può continuare a sperare?

giovedì 18 dicembre 2008

Redacted

E' un dannato capolavoro, Redacted. Di quelli che ti lasciano muto, annichilito mentre scorrono i titoli di coda. E cosa vuoi dire ancora? Nulla da aggiungere o da togliere... 
C'è la morte, al centro del film. La morte di ogni cosa. La morte dello sguardo, innanzitutto; e con essa la morte della pietà, e come logica conseguenza la morte del concetto stesso di umanità. Nulla vi è di umano in Redacted: non lo sono i soldati americani sul fronte di Samarra, nè le loro vittime o i loro carnefici iracheni. L'umanità è scomparsa dalla scena, perché non vi è più modo di vederla: non esistono più possibilità percettive che permettano un ancoraggio non già a qualche sorta di verità, ma perlomeno a una visione condivisa, una forma che permetta un riconoscimento reciproco. Non c'è più nulla, soltanto registrazioni monoculari di momenti che si susseguono nel tempo lineare, inconciliabili le une con le altre.
Se il film è scritto e diretto dal maestro Brian DePalma, è già ben chiaro come la macchina da presa possa mentire, ventiquattro volte al secondo. Ma qui non rimane più nemmeno la menzogna, perché non esiste più verità: la guerra, e ancor più di essa la nostra contemporaneità, negano ontologicamente e drasticamente l'idea stessa della verità. Il "vero" è una bugia, anzi, pensare che esista qualcosa di "vero" è pura follia. Non è soltanto questione di manipolazione mediatica: sono gli esseri umani ad essere irrimediabilmente persi nell'autoreferenzialità, prigionieri del loro singolo punto di vista, per il quale soltanto ciò che è "documentato" può avere il benché minimo valore. 
E a questo punto, cosa importa che il film sia ispirato a fatti realmente accaduti? Non c'è salvezza nel modo più assoluto, secondo DePalma, semplicememte perchè "i fatti" non esistono più, infinitamente riflessi e frammentati, rimbalzati come pura informazione da una parte all'altra del globo, ovunque esista un'infrastruttura per la registrazione e la trasmissione di ciò che è meramente visibile. Ma persino le foto che si susseguono alla fine del film sono state create "artificialmente"...
Ecco, a tutto questo si aggiunge poi l'infamia definitiva: Redacted, che ha vinto il Leone d'Argento a Venezia 2007 per la migliore regìa, non è stato distribuito in Italia. Non me lo sto inventando, ecco uno dei link che lo confermano: vuol dire che il film non è stato proiettato in nessuna sala cinematografica di questo paese (lettera minuscola); soltanto gli abbonati di Sky hanno potuto vederlo; io l'ho avuto per altre vie. Negli stessi Stati Uniti il film ha avuto una distribuzione pessima, soltanto nei circuiti d'essai o underground che dir si vogliano. Come accade una cosa del genere? Non chiedetelo a me; io credo soltanto che sia una questione di potere (sempre lettera minuscola), e il potere è tanto più forte quanto più sa far credere di non esistere.

lunedì 15 dicembre 2008

Machan

A prima vista sembra un film di fattura inglese, proprio come Full Monty o Sognando Beckham: fattura ottima dunque, con quell'estetica working-class dietro la quale si cela un artigianato filmico di prima qualità. Ma il regista è italiano e si chiama Uberto Pasolini (che per Full Monty fu produttore, undici anni fa); il cast è tutto singalese, la produzione è anche tedesca. E uno pensa: se questo non è un prodotto tipico della globalizzazione, la globalizzazione non esiste... Invece non siamo al fast-food del grande schermo, forse anche perché Machan racconta una storia vera. Vera, e in qualche modo eroica; una storia di coraggio, che però fa sorridere. Che bello questo cinema che ti stupisce, e ti commuove anche (bellissima la scena finale); come si sta bene quando si entra in un cinema soltanto per far passare un paio d'ore senza pensare, e se ne esce sentendo di avere guadagnato qualcosa. A parte questo, Machan è un ottimo spettacolo: regia robusta e senza fronzoli, copione che mescola bene i toni e le emozioni, con il ritmo giusto; attori di mestiere e in gran forma.

Galantuomini

Niente male l'ultimo lavoro di Edoardo Winspeare: che non è, occorre ricordare, una storia d'amore, bensì un bel ritratto femminile che si regge in gran parte sull'ottima interpretazione di Donatella Finocchiaro. L'attrice catanese offre qui una delle prove migliori della sua carriera e mostra una grande maturità e la ormai totale padronanza dei propri mezzi espressivi. Un film al femminile quindi, nonostante il titolo (che è del tutto ironico). C'è sicuramente qualche imperfezione nella scrittura, qualche personaggio di troppo sullo sfondo; talvolta anche la protagonista è un po' sfuocata... Ma l'energia e il coraggio di Lucia, femmina salentina dalla doppia vita, hanno valso alla Finocchiaro il premio come migliore attrice all'ultimo Festival di Roma. Invece mi aspettavo un po' di più da Fabrizio Gifuni, altro grande attore, ma qui forse un po' troppo fuori parte: il suo magistrato di origine salentina, cresciuto professionalmente a Milano e ora tornato a Lecce, è ambiguo da copione e interpretato di conseguenza, ma mi è sembrato mancare di sfumature e appiattirsi progressivamente nel corso del film; è comunque lui a rappresentare, più di tutti gli altri, i "galantuomini" del titolo: incapace di tenere fede agli obblighi di coscienza richiesti dalla sua professione soltanto per soddisfare i propri desideri carnali, il giudice si dimostrerà anche persona poco coraggiosa e non in grado di sfidare le regole della "buona morale" in nome dell'amore... Ma ripeto, tutto il genere maschile esce malconcio dal film di Winspeare. Bella la scena finale.