martedì 29 gennaio 2008

Elizabeth - The Golden Age

Non avevo visto il primo Elizabeth dieci anni fa, e ammetto che mi sarei perso anche il suo seguito; ma avrei dovuto poi pentirmene. Una norma essenziale per ogni malato di cinefilia come il sottoscritto dovrebbe essere: mai perdere un film con Cate Blanchett. Cate è l'equivalente odierno di Greta Garbo o Marlene Dietrich, è la stella iperurania che si fa ammirare sempre e comunque e fa sognare. Oramai è divenuta questo, non è più semplicemente una delle migliori attrici sulla faccia della Terra. Il regista Shekhar Kapur lo aveva probabilmente intuìto già nel 1998 quando le affidò la parte di Elizabeth I, altra stella di prima grandezza (in un firmamento un po' più ampio). Cate saprebbe portare da sola il peso di questo film (non che sia facile), ma è ben accompagnata da commedianti del calibro di Geoffrey Rush, Clive Owen e Samantha Morton. Dunque il film è effettivamente una gioia per gli occhi, a tratti persino troppo sontuoso: la Storia stinge nell'Immaginario e si trasforma in spettacolo assai avvincente, soprattutto nella prima parte, più lontana dai grandi scenari della guerra Anglo-Spagnola e focalizzata sulla personalità matura e affascinante della Regina Vergine. Kapur deve amare davvero molto il suo personaggio protagonista, e il panegirico talvolta diventa pedante, specialmente nelle sfumature pseudo-new-age con le quali Elizabeth viene a volte rappresentata. Ma il regista anglo-pachistano ha le idee ben chiare, perché non fa altro che applicare la metafora del body natural / body politic (enunciata dalla stessa Elizabeth) al suo film: come la regina possiede un corpo biologico e concreto e un corpo politico ed astratto (il secondo in opposizione al primo), così il film di Kapur mostra il contrasto tra la vita affettiva di Elizabeth e la sua funzione di regnante e madre dell'Inghilterra intera; mentre al primo aspetto corrisponde la sezione migliore del film, prima in ordine di tempo, minimalista e "carnale", al secondo corrisponde la parte più astratta (e roboante) dell'opera, che priva il personaggio di Elizabeth delle sue peculiari caratteristiche e lo trasforma in simbolo senza tempo.

American Gangster

Il mio umile consiglio è di non spendere soldi per vedere questo film, perchè American Gangster è un immenso bluff. Una stupidaggine, una presa per i fondelli. Nulla si salva, a cominciare dal personaggio protagonista: Frank Lucas, interpretato dal peggior Denzel Washington di sempre, è semplicemente assurdo, un manichino senza interiorità che si limita a compiere azioni in successione all'interno di un contesto particolare (la Harlem dei primi anni '70 del Novecento). Si potrebbe pensare superficialmente che il suo unico scopo sia fare soldi, ma anche con tale semplicità di sguardo non è possibile trovare nel suo comportamento un barlume di senso. Il personaggio è stato scritto in modo pessimo (autore dello script è Steve Zaillian, già artefice dell'assai mediocre Tutti gli uomini del re) e appare infine come un semplice homo oeconomicus senza precisa personalità e senza umanità (nel bene e nel male), dedito alla massimizzazione del profitto in situazioni avverse, e pieno di idiosincrasie (da copione). Il suo degno compare sullo schermo è il poliziotto Richie Roberts (Russell Crowe, anche lui da dimenticare, sebbene questo sia il suo terzo film con Ridley Scott): un altro avatar vuoto di senso, maschera che non diventa mai vera persona. La cosa ridicola è che il film è tratto da avvenimenti realmente accaduti, ma scrittura e regia del film hanno a tal punto minato i personaggi da renderli assolutamente non credibili; e la fotografia "realistica" del film finisce per stridere con la totale mancanza di naturalismo dei protagonisti e dei loro comportamenti. Ridley Scott deve avere diretto il film con gli occhi bendati, oppure in teleconferenza: ho bisogno di credere questo mentre penso all'oramai lontanissimo autore di Blade Runner e di Alien.

lunedì 21 gennaio 2008

Io sono leggenda

Mi è capitato quasi per caso di vedere questo film, ed ero assai prevenuto. In realtà non tutto è da buttare in I am legend: per prima cosa, vedere New York disabitata, deserta, con le erbacce lungo la Fifth Avenue e cervi e leoni che pascolano indisturbati sul cemento, fa già un effetto abbastanza piacevole. E il silenzio che pervade gran parte del film è tutt'altro che noioso: la suspence rimane sempre alta, gli ingranaggi del copione sono ben oliati e girano come si deve. Ci sono i difetti e i problemi, per carità: la verosimiglianza e la logica devono essere ben presenti anche nei film di fantascienza, mentre è proprio qui che il film talvolta incespica un po' troppo visibilmente. Will Smith non è un cattivo attore, ma questa non è certo la sua interpretazione migliore; non credo però che sia tutta colpa sua: il ruolo gli si addice, perché il personaggio è più attivo che introspettivo, e Smith fa quel che può per conferirgli un minimo di tridimensionalità interiore; non ci riesce del tutto, ma bisogna dire che non è per nulla aiutato da regia e sceneggiatura, assai più attente ai lati spettacolari della vicenda che al suo potenziale "psicologico". E' un peccato, perché da un soggetto simile sarebbero potute venire meraviglie: l'ultimo uomo sulla terra, civiltà distrutta, ricordi... Del resto, suppongo che il valore più alto di I am legend risieda nel suo essere onesto seguace di un nuovo sotto-genere cinematografico, che si è sviluppato negli ultimi tempi e che si occupa proprio dei "tempi ultimi", con il valore aggiunto della rispondenza alla psicologia di massa. Non è di certo questa la sede per trattare il tema in modo opportuno; mi sia concesso soltanto di notare, da ultimo arrivato, che l'immaginario sta diventando sempre più apocalypse-friendly e che i prodotti di questo mutamento sono oramai frequenti al cinema (taccio, per decenza, sulle altre arti; ma mi viene in mente l'ultimo romanzo di Cormac McCarthy, The Road). E così lo spettacolo puro e ben congenato di un blockbuster come questo si vela di significati ulteriori, ben al di là del semplice appagamento sensoriale provato dallo spettatore.

martedì 8 gennaio 2008

Lussuria

Non si creda a tutto quello che la televisione dice su Lussuria (Lust, Caution, 2007). Non è un capolavoro, non è nemmeno un grande film; è un'opera interessante, esteticamente impeccabile, ma mi chiedo quali altri film fossero in gara quest'anno a Venezia; se hanno premiato di nuovo Ang Lee con il Leone, due anni dopo il bellissimo - questo sì - I segreti di Brokeback Mountain, vuol dire che il concorso ha toccato il fondo. Venezia non sembra saper uscire dalla sua crisi: continua a proporsi come l'unico festival internazionale di alto livello interessato al cinema come arte e non come prodotto, ma la scelta del vincitore 2007 è l'ultima contraddizione, in ordine di tempo, dell'immagine che la manifestazione lagunare vuol dare di sé; intanto i film più belli continuano ad arrivare da Cannes e da Berlino, luoghi in cui l'interesse per gli aspetti mercantili della settima arte è assai più marcato. Niente di strano a mio parere: il cinema è stato a lungo - e spero continui a rimanere - un fenomeno di massa, ovvero per le persone tutte e non soltanto per i critici; la bellezza, quando c'è, parla a chiunque e nessuno può sfuggirle: non si può scegliere un film in base al suo essere o non essere "commerciale", credo che questa distinzione non abbia oggi molto senso, se mai ne ha avuto in passato.
Tornando a Lussuria - il titolo italiano è una furba storpiatura del già azzeccato titolo originale - è facile trovare più di un difetto. Lee voleva probabilmente girare un film "psicologico", che raccontasse il tormento interiore della protagonista ecc. ecc. Peccato che il personaggio di Wang Jiazhi (Tang Wei, niente male) abbia ben poco spessore: il gioco del film consiste nel mostrare la pressione e le mutilazioni subìte dall'anima di Wang, costretta per (soprav)vivere
a recitare in uno spettacolo del quale alla fine perderà il controllo; ma l'ambiguità del personaggio, che avrebbe dovuto sostanziare la scelta della regìa, rimane poco più che evanescente. Anche l'altro personaggio protagonista, Yee, interpretato da Tony Leung (attore fantastico, ma qui un po' sottotono), è delineato in modo troppo superficiale, troppo rigido e repentino: una specie di robot che agisce a scatti, senza che sia possibile spiegarsi del tutto le rare emozioni che appaiono sul suo volto. Pure il racconto lascia a desiderare: a parte l'antinaturalismo insistito, l'andamento è prolisso e un po' sconclusionato, e in sala tocca sbadigliare più di una volta; forse la parte migliore è il finale, che riscatta una quasi totale assenza di tensione narrativa. Il film è una produzione cino-americana, e sconta un difetto comune a entrambe le cinematografie d'origine, l'estetismo: una fredda, quasi morbosa attenzione alla bellezza dei dettagli prevarica ogni altro aspetto del film, dall'introspezione all'analisi storico-politica, peraltro assai periferica nel quadro dell'opera. Ecco perché all'inizio parlavo di contraddizione: Venezia ha premiato il film per venderlo meglio, come se già esso non sapesse vendersi da solo, a partire dal titolo. Cio' detto, bisogna riconoscere che il discorso di Ang Lee regge il proprio peso, e Lussuria merita comunque di essere visto, ma ripeto: non bisogna ascoltare quel che blaterano i critici in tv, è solo pubblicità.