mercoledì 20 febbraio 2008

Irina Palm

Se qualcuno è andato a vedere Irina Palm pensando a una specie di seguito dell'Erba di Grace, mi dispiace. Io avevo visto qualche trailer, e devo dire che la prima impressione era proprio quella; ma il maledetto trailer non ha nulla a che fare con il film, mai. E' opera dei vampiri dannati del marketing, che fanno passare un bel film come questo, pieno di tristezza, per una stupida commediola pruriginosa UK-style. Del resto, e purtroppo, Orson Welles aveva ragione: col montaggio si può fare proprio di tutto, compreso uccidere un film; e forse il Vecchio pensava già anche alla pubblicità cinematografica. Ma lasciamo perdere le idiozie del marketing e passiamo a quel che ci interessa veramente: Irina Palm è un bel film, imperfetto ma con il cuore. A parte che per veder recitare Marianne Faithfull - fantastica - avrei assistito a qualunque film; ma questo è davvero perfetto per lei, perchè la malinconia profonda del suo volto riflette perfettamente l'atmosfera nella quale si muove Maggie (il vero nome della protagonista): ovvero quella che circonda chi non ha più nulla da perdere, e forse proprio per questo è capace di sopportare le prove più ardue. Un giorno dopo l'altro Maggie, alla quale la vita ha riservato poco o nulla di speciale, resiste senza disperarsi e fa tutto quello che può per rendersi utile. Come si potrebbe non amarla? Una piccola persona capace di un gesto immenso: negare se stessa a favore di chi si trova nella necessità. E lo scandalo vero, nel film come nella vita, non viene da una professione o da un talento particolari, bensì dalle persone che si fermano alla superficie e si rifiutano anche soltanto di provare a comprendere. Anyway, molto buona la regia di Sam Garbarski, bravi anche gli attori non protagonisti, ottima la fotografia, assai suggestiva la colonna sonora ambient: credo proprio che il cinema inglese sia, almeno tecnicamente, ancora il migliore d'Europa. Provare per credere.

Sogni e delitti

Cassandra's Dream: bello il titolo originale, no? Figuriamoci se glielo lasciavano. Chissà cosa penserà il vecchio Woody quando lo saprà. Probabilmente sarà ancora più contento di avere girato questo film, che parla sostanzialmente di stupidità e di follia. Anzi, ne parla in modo così livido e impietoso che viene da chiedersi se e quanto Woody abbia ancora fiducia nel genere umano. Se c'è una classifica dei film più cupi e disperanti di Allen, questo arriva subito in cima: ripeto, non si è mai visto un film del Nostro così pieno di disprezzo e pessimismo. Non che sia questione d'età, anzi Woody oramai fa un film all'anno e per di più alterna film come questo a film allegri e leggeri, l'ultimo dei quali è stato il mediocre Scoop, del 2006. Sogni e delitti è un glaciale teorema socio-antropologico sulla contemporaneità; ma sarebbe meglio parlare di assiomi, perché la dimostrazione di questo teorema finisce nel nulla assoluto. Non c'è nulla da dimostrare, basta osservare come fanno gli entomologi: sezionare, descrivere e poi eliminare i residui. Questo sembra essere lo spirito con cui Allen ha scritto e girato il film, non all'altezza del bellissimo Match Point (2005). Se Cassandra's Dream non vola così alto, è proprio per l'animo con cui è stato realizzato: nessuna fiducia negli uomini e nelle donne d'oggi, e nessun approfondimento psicologico; solo azioni dopo azioni, e pensieri ad alta voce per spiegare quello che non si vede. Comunque, bravissimo Colin Farrell: il ragazzo può davvero interpretare qualunque ruolo voglia, e qui è proprio il suo personaggio l'unico depositario della scarsa empatia e della poca luce rimaste negli occhi del regista. Fino al prossimo film, naturalmente.

La guerra di Charlie Wilson

Sul dizionario Garzanti ho trovato questa definizione di satira: "genere letterario che ritrae con intenti critici e morali personaggi e ambienti della realtà e dell'attualità, in toni che vanno dalla pacata ironia alla denuncia, all'invettiva più acre". Mi sembra che questa definizione si adatti quasi perfettamente all'ultimo film del buon Mike Nichols: storia vera, talvolta ripugnante; condimento assai agro, nessuna simpatia per i personaggi rappresentati; senso di rabbia e impotenza generato in chi vede il film e si ritrova poi a considerare brevemente l'orrida stupidità tipica della specie a cui appartiene. Non c'è nulla che faccia ridere o anche soltanto sorridere in Charlie Wilson's War: ogni accenno viene immediatamente represso dal disgusto e dal disincanto. Insomma, questo è un film che vuole - in buona fede - dare fastidio a chi lo vede, e che ci riesce assai bene, complici le ottime performance "urticanti" di Tom Hanks e Julia Roberts ma soprattutto del grandissimo Philip Seymour Hoffman, che interpreta alla grande il personaggio migliore (non in senso morale) e più simpatico (nonostante tutto, e a confronto con gli altri) del film. Ad ogni modo, per quanta satira ci sia, se si vuole capire un po' cosa stia succedendo oggi in Afghanistan conviene vedere il film: impossibile non confrontare l'operato odierno degli Stati Uniti con quello di vent'anni fa. Scena dopo scena, battuta dopo battuta, Nichols e i suoi mostrano il passato, ma stanno raccontando il presente.

martedì 19 febbraio 2008

Cous Cous

Bellissimo, ammaliante: La graine et le mulet (letteralmente: "il grano e il cefalo", ingredienti principali del cous-cous di pesce) è il terzo lavoro del franco-tunisino Abdellatif Kechiche dopo Tutta colpa di Voltaire (La faute à Voltaire, 2000) e La Schivata (L'Esquive, 2003). E' un'opera carnale, piena di sensualità, dalla fisicità sfrontata e irresistibile; eppure è anche metafora, fiaba, racconto morale. Nel far toccare questi estremi Kechiche utilizza un linguaggio filmico peculiare e affascinante, fatto di lunghe scene di dialogo che si protraggono apparentemente oltre il dovuto, primissimi piani dei protagonisti, mobilità fluida ma incessante della macchina da presa e fotografia "sporca", iperrealistica. Come in una sinfonia, la narrazione dispiega il suo climax sapientemente, partendo con lentezza e malinconia per lasciare infine senza respiro lo spettatore. Molti personaggi - alcuni più centrali, tutti ben delineati e recitati - e diversi i temi: la famiglia, l'integrazione (il film è ambientato a Sète, piccolo porto mediterraneo 200 chilometri a ovest di Marsiglia) ma anche i rapporti d'amore e amicizia dentro e fuori la comunità magrebina. Così lo splendido piatto che dà il titolo al film diventa correlativo oggettivo di una bella idea di convivenza, senza retorica nè becere consolazioni risolutive (anzi, il finale è apertissimo). Davvero da non perdere.

mercoledì 6 febbraio 2008

Bianco e nero

Ci sono quelle sere di domenica nelle quali non sai proprio dove andare a finire, e finisci dentro un cinema. Ecco, Bianco e nero è un film perfetto per tali occorrenze: commediola radical-chic dolceamara e multietnica che appena vale le due ore rubate alla "vita reale", ma che sa rubare con leggerezza. La storia d'amore fra il Volo nazionale (un po' a corto raggio in quest'occasione) e la bellissima ragazza altoborghese e senegalese (interpretata da Aissa Maiga) sicuramente non muterà l'opinione pubblica sul razzismo e sulla discriminazione nel Belpaese: Bianco e nero è zeppo di luoghi comuni, a cominciare dal titolo banalissimo e (quindi) vendibilissimo; non offre sguardi memorabili o altamente originali su ciò che pretende di raccontare; procede per scenette e battutine; il finale è scontato già al primo quarto di film. Aggiungiamo una performance non proprio memorabile del cast, con la splendente eccezione di Anna Bonaiuto (il suo personaggio è periferico e vale quattro soldi, ma l'attrice gli conferisce una profondità quasi seducente, mentre tutti gli altri sulla scena - protagonisti compresi - sembrano figurine Panini). Eppure Cristina Comencini ha il tocco leggero (in senso buono), il filmetto è agile e scorre veloce verso il suo finale scontato, senza troppi sbadigli. Soprattutto poi, di razzismo non si parlerà mai abbastanza: forse anziché raccontare soltanto l'altoborghesia senegalese romana sarebbe stato meglio incontrare tutta la manovalanza africana schiavizzata nelle campagne del sud, da dove le uniche voci che arrivano, ogni quattro anni, sono quelle dei Medici Senza Frontiere (si legga qui); e forse un film del genere sarebbe stato meglio affidarlo all'altra regista Comencini, Francesca.

Il vento fa il suo giro

Il vento fa il suo giro (E l'aura fai son vir) è uscito nel 2005, pensate un po'. Io l'ho visto al cinema Lux di Quistello (MN) la sera del 31 gennaio 2008. Un miracolo. Poi si lamentano che il cinema italiano fa schifo: per forza, la distribuzione è un racket... Ma stiamo al film, per carità. Opera prima di Giorgio Diritti, girato in digitale in un paesino dell'alta Valle Maira, recitato per metà in occitano; eppure, o forse proprio per questo, il film è assai poco naturalistico: trattasi infatti di un'onesta e robusta parabola sull'intolleranza. Al di là dei fortissimi riferimenti a luoghi e tempi, l'archetipo è volutamente evidente, ed è quello della paura dello straniero: nonostante l'attenzione ai volti e al paesaggio (mi è piaciuta la fotografia di Roberto Cimatti) il film va visto per quello che è effettivamente, cioè la rivisitazione di un cupo assioma della Storia umana. Non è che tutto quanto circonda questo assioma nel film passi in secondo piano, anzi: la scelta della comunità ristretta con una forte tradizione culturale e linguistica ha già il sapore della metafora, oltre a semplificare la lavorazione; l'uso della langue d'oc, anziché "circoscrivere" il fenomeno analizzato ad una cultura particolare, amplifica il carattere archetipico della vicenda, perché conferisce profondità dal punto di vista storico; addirittura la recitazione, per la stragrande maggioranza opera di non professionisti, con le sue mancanze evidenti tende a far cadere l'attenzione spettatoriale sulla storia nella sua interezza anziché sulle vicende dei singoli. Il carattere talvolta ingenuo del film, se considerato da quest'ottica, può trovare dunque una giustificazione ben precisa; Diritti, che ha collaborato anche alla sceneggiatura e al montaggio, è come un buon artigiano che si è appena messo in proprio dopo l'apprendistato: il suo primo lavoro è riuscito come si deve, pur con le immancabili imperfezioni di ogni inizio. E chi non ama le piccole imperfezioni farà meglio a lasciare in pace anche gli artigiani.