mercoledì 26 marzo 2008

Colpo d'occhio

Mah. Non è sicuramente il capolavoro di Sergio Rubini, questo suo ultimo Colpo d'occhio. Eppure tenta di essere coerente, semplicemente coerente. Rubini è un istrione - su questo non ci sono dubbi - e il suo film gli somiglia in tutto e per tutto: totalmente antinaturalistico, trova la propria ragion d'essere unicamente nella finzione, declinata in un paio di suoi significati fondamentali. Il primo dei quali è sicuramente l'inganno: da qui proviene la sostanza narrativa della storia, e anche la scelta di un'enunciazione che tenta di circuire lo spettatore medesimo; fino alla fine, o quasi. Un'altra sfumatura di finzione si riconosce poi nella scelta di ambientare il film in un sottomondo peculiare, quello dell'arte contemporanea; l'arte è la finzione per eccellenza, certo, ma in Colpo d'occhio essa sembra soltanto un pretesto, o meglio il contesto ideale per la tessitura di una trama impregnata di apparenza sin dai primissimi fotogrammi. Così è l'arte, così pure il cinema e perfino la vita, ci dice il deuteragonista Rubini dall'alto della balconata di un museo, nei momenti iniziali della sua opera; non si spiegherebbe altrimenti, tra l'altro, la scelta degli attori protagonisti Vittoria Puccini e Riccardo Scamarcio, le cui recitazioni, più per necessità che per merito, sono imbevute di una tracotanza talvolta insopportabile; anche Paola Barale, piccola icona della superficialità televisiva nostrana, trova la propria giusta collocazione; e lo stesso Rubini, nel quale l'attore da sempre è superiore all'autore, fornisce un'interpretazione particolarmente, e volutamente, posticcia. Il limite di Colpo d'occhio è però la sua incapacità di portare alle estreme conseguenze il proprio gioco perverso: il film cade sul finale melodrammatico e consolatorio, certo, ma soprattutto sembra finire vittima di se medesimo, laddove non ha il coraggio di affermare fino in fondo il carattere sostanzialmente artificioso dell'esistenza umana, che esso stesso aveva cercato di accreditare lungo tutto il proprio svolgersi.

sabato 8 marzo 2008

Caramel

Beirut cristiana, ai giorni nostri. In un salone di bellezza si incrociano le esistenze di personaggi femminili eterogenei, ma ciascuno con il proprio segreto da nascondere alla società circostante. Caramel è un film dal classico impianto polifonico, impreziosito dalla superiore sensibilità dello sguardo femminile e da levità e grazia delle protagoniste. La regista è Nadine Labaki, giovane artista molto conosciuta in Medio Oriente, che ha tenuto per sè uno dei ruoli principali; le recitazioni sempre degne e la profonda dolcezza dell'insieme rendono Caramel una visione assai piacevole, senza che il film arrivi mai a essere fintamente consolatorio. Di produzione libano-francese, il film ha ottenuto un grande successo all'ultimo Festival di Cannes. Da vedere senz'altro, anche per compensare eventuali cali di zuccheri interiori.

venerdì 7 marzo 2008

Non è mai troppo tardi

Grande delusione. Non mi aspettavo un capolavoro, ma un bel film sì, qualcosa da ricordare almeno. Le possibilità c'erano, a cominciare dal tema, dalla regìa (Rob Reiner) e dai protagonisti (Jack Nicholson e Morgan Freeman). Invece The Bucket List sembra un compito in classe delle elementari: titolo, svolgimento, conclusione. E basta. Due uomini di estrazione molto diversa, entrambi vicini alla fine, si incontrano in una stanza d'ospedale. Poi si scontrano brevemente, e infine decidono di mettere in pratica la "lista del capolinea" del titolo, tutte le cose che avrebbero voluto fare nella vita ma che non, ecc. Non mi sembra affatto male come punto di partenza; ma Reiner (sì, proprio l'autore del memorabile, insuperato Stand By Me, e di Harry ti presento Sally) dirige tutto come un telefilm, e la coppia Nicholson/Freeman recita di conseguenza (tra le loro peggiori interpretazioni di sempre, come se non credessero nei rispettivi ruoli, come se lavorassero solo per soldi). L'unico valore del film risiede nella riflessione che suscita a posteriori; ma quella è offscreen, a luci accese.

Into The Wild

Si dice in giro che Sean Penn, dopo aver letto Into The Wild di Jon Krakauer, abbia dovuto aspettare dieci anni prima di poter ottenere i diritti per la trasposizione cinematografica. Significa perlomeno che il vecchio Sean desiderava molto fare questo film: e aveva ragione. E' un film da non perdere, duro, scomodo, difficile da accettare; rude, ma traboccante di autentica bellezza e di profonda umanità. Gli eventi narrati sono accaduti realmente, ma non si tratta di storie incredibili o di avvenimenti soprannaturali: è lo spettacolo di un'anima libera quello a cui assistiamo, senza retorica e senza manicheismi, ed è un grande spettacolo interiore che rimane in noi a lungo, continuando a fare domande difficili. Sean Penn si conferma regista e sceneggiatore di grande talento, figura dissonante nel contesto del cinema americano d'oggi, uomo di cinema completo e al servizio soltanto delle proprie idee. Oltre a essere l'attore splendido che tutti conosciamo, Penn ha dimostrato fin dal suo primo film di sapere benissimo cosa fare anche dietro la macchina da presa: oggi è Autore vero, con voce e coscienza irriducibili; e imprescindibili, per chi cerca una visione dell'America alternativa agli stereotipi hollywoodiani e mediatici in genere. Molto bravo il protagonista Emile Hirsch, 23 anni non ancora compiuti, uno che credo farà ancora molta strada; commovente poi rivedere sullo schermo il grande Hal Holbrook, in una piccola parte adamantina ma fondamentale. Canzoni originali di Eddie Vedder, molto belle.