mercoledì 28 maggio 2008

Gomorra

Aspettavo il ritorno di Matteo Garrone da un bel pezzo: il suo Primo amore, per me splendido, risale al 2004. L'altroieri sera sono stato al cinema a vedere Gomorra, e sono uscito molto triste. Non per quello che il film racconta, ché oramai i media ci assillano da tempo con le storie sul Sistema, i rifiuti, la discesa agli inferi di Napoli, ecc. ecc. (e ci assillano nel modo peggiore, perché continuano a raccontare nudi fatti senza fornirne alcuna spiegazione contestuale, così l'inferno continua nell'impossibilità di comprendere); la sostanza narrativa del film è poi arcinota, essendo Gomorra, prima che ultimo lavoro di Garrone, il romanzo "nonfinzionale" del grandissimo Roberto Saviano (non ho ancora letto il libro, ma ho sentito l'autore in più occasioni: Saviano è un autentico orgoglio nazionale, uno dei pochissimi rimastici).
No, la delusione è amara perché Gomorra è un film non riuscito. Farraginoso e convenzionale, non sembra nemmeno un film di Garrone, ed è questo che più dà malinconia: il cineasta romano ha - aveva - uno stile inconfondibile, una profondità di sguardo che da lungo tempo non si incontrava nel cinema italiano e una tremenda, quasi morbosa capacità di scavare nelle coscienze dei suoi personaggi: quasi sempre mostri e spesso predatori, essi vivono nascosti ai margini della "società normale" ma ne sono, loro malgrado, irresistibilmente attratti, fino a conseguenze estreme.
E invece qui è come se Garrone non riuscisse nemmeno a fare proprio il romanzo di Saviano, a metabolizzarlo per poi riportarlo sullo schermo in modo personale. Forse quel che è narrato da Roberto Saviano è troppo molteplice, c'è troppa carne al fuoco anche per un film di due ore e un quarto (talvolta noioso); eppure il copione è stato scritto da Garrone assieme allo stesso Saviano e a Massimo Gaudioso, Ugo Chiti, Gianni Di Gregorio e Maurizio Bracci. Ad ogni modo, sullo schermo si vede lo sforzo di un adattamento sintetico che evidentemente, a forza di comprimere tentando di rimanere il più possibile fedele al testo, perde quel che più conta, ovvero la propria anima. La regia sceglie un "assetto" semplice e documentaristico, un non-stile fatto di camera a mano quasi costante, colori in presa diretta, sgranature e quant'altro appartiene all'armamentario da cinema del reale; ma c'è poco da fare, Garrone non è a suo agio e non controlla il film, proprio perché in lui l'esigenza di uno stile ricercato e particolare è troppo forte (penso ancora una volta a Primo Amore, davvero esemplare in questo senso). Gomorra sembra quindi un esempio di cinema "impegnato", fatto con le migliori intenzioni, totalmente al servizio del libro da cui è tratto e che in esso trova la propria esclusiva ragion d'essere: con tutto il rispetto per le migliori intenzioni, mi sembra un po' poco; e soprattutto non è da Garrone, che io amo proprio perché non c'entra - non c'entrava - nulla con l'impegno sociale. Si potrebbe obiettare che Garrone ha voluto mostrare il nulla attraverso il nulla: il vuoto totale di un contesto sociale disumanizzante, l'impossibilità dei rapporti umani, la mancanza di nessi causali o di spiegazioni. Insomma, la classica strategia dell'osservare-senza-giudicare. Ma non è così. Perché ogni tanto Garrone ci prova anche qui, ad entrare nell'anima dei suoi mostri, a guardarli da vicino: il problema è che non ci riesce. Si prenda don Ciro (l'interprete Gianfelice Imparato è bravissimo e vale dieci volte Servillo, che gigioneggia o poco più): è uno dei pochi personaggi la cui interiorità Garrone tenta di esplorare, ma esso finisce col rimanere soltanto un abbozzo, così come il sarto Pasquale (Salvatore Cantalupo, anche lui molto bravo) o come Roberto (Carmine Paternoster), braccio destro del camorrista-affarista Franco (Servillo) nel "riciclo" dei rifiuti, che improvvisamente, come folgorato sulla via di Marcianise, decide di cambiare vita. E i vuoti narrativi (il film si apre con una sparatoria che vale unicamente come ouverture, senza sviluppi drammaturgici) si alternano a momenti di ridondanza, come i dialoghi fra capi camorristi o giovani scissionisti.
La cosa forse più triste di tutte, poi, è il Gran Prix a Cannes: è evidente che il Secondo Premio al film è in realtà quasi più un ulteriore riconoscimento attribuito al romanzo (visto anche il successo editoriale che quest'ultimo ha avuto praticamente in tutto il mondo) e, peggio ancora, una specie di pacca sulla schiena di chi fa cinema e vive nell'Italia di oggi, paese allo sfascio di cui Gomorra è divenuto, scritto o filmato, una bandiera. Sarò maligno, ma questo premio sembra uno di quelli che fino all'altro giorno si davano al cinema iraniano o cinese o africano, come a dire "forza ragazzi, siamo tutti con voi" (e chissà se lo stesso vale per il Divo di Sorrentino). Intendiamoci, non che mi importi molto della Patria Italia o del suo eventuale orgoglio ferito - questo Paese personalmente lo amo perché è bello, non perché ci sono nato; ma se si fa un festival del cinema, il premio va dato al cinema soltanto.