giovedì 17 dicembre 2009

Parnassus

E’ difficile avvicinarsi all’ultimo film di Terry Gilliam mantenendo una certa lucidità critica, o qualcosa del genere. Perché The Imaginarium of Doctor Parnassus come opera dell’arte cinematografica non può essere “giudicato” senza avere ben presenti le vicende che ne hanno sconvolto il processo produttivo. Scrivo questo sentendomi quasi in colpa: vidi il film ormai quasi due mesi fa e non mi piacque, o perlomeno non mi convinse del tutto. L’avevo trovato noioso e pesante, non ben riuscito come racconto, insomma non all’altezza del suo autore. Stamattina, per rinfrescarmi la memoria prima di mettermi a scrivere – in sostanza per non dire puttanate sul film – sono andato a leggermi la voce di Wikipedia su The Imaginarium. E ho scoperto un sacco di cose che non sapevo. Cioè, sapevo che questo era l’ultimo film di Heath Ledger, ma non molto altro; e leggendo ho appreso che Heath morì a circa un terzo delle riprese. Il film era costruito intorno a lui, nel senso che il coinvolgimento di Ledger era stato un fattore chiave per il finanziamento dell’opera. Quando Gilliam apprese della morte dell’attore a New York pensò in un primo momento che l’avventura sarebbe semplicemente finita lì; ma poi, determinato a salvare il film, si mise a cercare un modo per proseguire le riprese. Inizialmente considerò l’ipotesi di utilizzare la grafica computerizzata, ma poi ebbe un’idea che – vista da qui e ora – appare abbastanza geniale: se il personaggio interpretato da Heath Ledger, Tony, può viaggiare all’interno della mente di qualcun altro, cosa impedisce di pensare che egli possa cambiare aspetto ad ogni viaggio, a seconda delle innumerevoli “variabilità interiori” che caratterizzano l’interiorità di ciascuno di noi esseri umani? E così Gilliam chiamò alla sua corte l’amico Johnny Depp, con cui aveva già condiviso il disastro produttivo di The Man Who Killed Don Quixote, e altri due pezzi da novanta come Jude Law e Colin Farrell, amici di Ledger: tutti per interpretare il ruolo di Tony, mutevole d’apparenza nella mente cangiante del dottor Parnassus (Christopher Plummer). Ed ecco che la tragedia della morte, e con essa una difficoltà produttiva apparentemente insuperabile, si trasfigura nella luce della finzione cinematografica.

Rimango del parere che questo non sia da annoverare fra i più alti vertici dell’arte di Gilliam: la sceneggiatura (che non è stata cambiata in nulla nonostante i problemi) è un po’ stracca, il racconto coinvolge fino a un certo punto e la proverbiale visionarietà dell’autore sembra un po’ appannata… Ma il film merita di essere visto non soltanto per lo sforzo immane che ha richiesto e per l’affetto verso Heath Ledger di cui è intriso. Almeno le interpretazioni infatti non si possono discutere: sappiamo bene chi fosse Ledger e chi siano i suoi tre comprimari/sostituti; Plummer è un mostro sacro e vederlo all’opera fa sempre bene; e, last ma assolutamente non least, Tom Waits che fa la parte del Diavolo varrebbe già di per sé l’intero film.

venerdì 27 novembre 2009

Il nastro bianco

Di fronte alla pagina vuota rivedo le immagini in bianco e nero del sublime e tremendo Das weisse Band. Inutile usare la parola capolavoro per un film di Michael Haneke: ogni sua opera è un vertice, un estremo. So di non avere strumenti adeguati per l’interpretazione; di certo ho però una predilezione irresistibile verso il cinema del sommo regista austriaco, e se voglio scrivere qualcosa di sensato devo innanzitutto chiedermi cosa sia a nutrire questa mia passione. Cosa rende tutti i film di Haneke così affascinanti ai miei occhi?

Risposta semplice ma non banale: la paura. Il cinema di Haneke incute timore, spaventa; colpisce senza pietà sui punti deboli dell’anima, e fa male. Il cineasta viennese è una specie di filosofo torturatore, che sa parlare con uguale efficacia alle componenti razionali e a quelle irrazionali dello spirito umano.

Ci sono poi altri due tratti tipici della cinematografia di Haneke che devono essere sottolineati. Il primo è la freddezza, che si accompagna ad un controllo totale della forma: Haneke ha una padronanza suprema del mezzo cinematografico, una tecnica tanto eccelsa da poter essere usata contro se stessa – come in Funny Games, Code Inconnu o Caché - oppure resa quasi invisibile – come accade in Das weisse Band. In tutti i casi, Haneke si muove con precisione chirurgica e senza pathos, metodicamente.

Il secondo elemento essenziale nel cinema di Haneke è il giudizio morale. In contrasto apparente con la glacialità della forma, non c’è indifferenza ma una precisa visione etica, una critica silenziosa ma sempre netta e severa; tale critica però non vuole insegnare nulla e non cerca proseliti. Haneke mostra la condotta dei suoi personaggi senza condannarli, quasi con fatalismo, eppure è tutt’altro che un semplice osservatore. Egli mostra senza voler dimostrare: paradossalmente, Haneke è uno dei registi europei che più sembrano avere seguìto e messo in pratica il celebre motto felliniano.

In effetti non c’è proprio nulla di dimostrato nel cinema di Haneke, semmai è vero il contrario: all’inizio tutto pare sempre semplice e lineare, quasi senza sviluppo; ma in fondo c’è ogni volta una trappola, perché il cerchio non si chiude, i conti non tornano e il senso non arriva. Questo è forse, dello stile di Haneke, l’elemento più inquietante e seducente allo stesso tempo: ne risulta un cinema sempre spiazzante, contro-intuitivo e senza speranza, che però proprio grazie a queste caratteristiche arriva, con un altro paradosso, a imitare la “realtà”.

Michael Haneke è in definitiva un maestro, un outsider, uno dei più grandi registi del cinema contemporaneo. Ciò peraltro non costituisce una novità, a tal punto che la Palma d’Oro vinta quest’anno da Das weisse Band potrebbe ad una prima considerazione risultare un riconoscimento attribuito ex-post all’intera opera del regista; ma non è così semplice. Haneke non fa mai un film uguale all’altro, nonostante la ricorrenza degli elementi di cui si diceva in precedenza; e anche se non ho visto praticamente nessuno degli altri film in concorso a Cannes 2009 sono incline a scommettere che quello di Haneke sia superiore a tutti gli altri; la mia scommessa non ha alcun valore naturalmente, ma non c’è dubbio che Das weisse Band sarebbe rimasto una pietra miliare anche senza Palma.

Opera enigmatica e cupa, in cui il bianco e nero insaturo e lattiginoso della fotografia ha un valore sostanziale, Das weisse Band è un film corale e acefalo: la voce fuori campo di uno dei protagonisti della vicenda è in realtà soltanto un inganno, uno stratagemma diversivo tramite cui la regìa ostacola deliberatamente la comprensione dello spettatore. Cosa ci si aspetta dalla voce over di un personaggio che ha preso parte agli eventi narrati e li rievoca dal futuro? Sicuramente un ausilio alla comprensione di tali eventi, o perlomeno un punto di vista privilegiato sulla vicenda. Al contrario, alla fine del film sarà chiaro che il giovane maestro elementare, colui al quale appartiene la voce narrante, non potrà essere di alcun aiuto nella spiegazione degli eventi e delle loro cause, non sapendo nulla più di quanto visto e conosciuto dallo spettatore stesso. La prima immagine del film, un immobile paesaggio pianeggiante della Germania settentrionale, emerge lentamente da una dissolvenza; in modo speculare, l’ultima inquadratura si dissolve nel nero, e al termine d’una serie di eventi inquietanti e misteriosi - quando sembra che una labile traccia sia stata lasciata allo spettatore per lasciargli individuare anche solo un semplice nesso di causalità fra gli episodi ai quali ha assistito - tutto sprofonda di nuovo nel nulla, senza spiegazioni. Poco prima la voce narrante aveva riferito dell’attentato di Sarajevo, e del tragico destino della Germania stessa e dell’Europa.

Ciò che più colpisce è a mio avviso il modo in cui Haneke riesce a mantenere un’oscura e quasi impercettibile tensione per tutta la durata del film. C’è sempre il senso di una minaccia imminente, di una deflagrazione narrativa prossima; invece anche i fatti più rilevanti nel racconto si susseguono senza apparenti nessi consequenziali e gli episodi più atroci, quasi privati di un legame con ciò che li segue e ciò che li precede, perdono pregnanza. Qualcosa di simile accade con le relazioni fra i personaggi: inizialmente questi ci vengono presentati come mònadi dotate unicamente di un nome e di una localizzazione contestuale; per tale motivo essi appaiono inizialmente “puri” e netti, senza sbavature ma anche senza psicologia, come se si trattasse di immagini della classicità. Con il trascorrere del film i rapporti fra gli attanti divengono più evidenti nella loro duplicità oscena: ogni relazione ha una doppia faccia a seconda che la si osservi dal punto di vista della sfera pubblica o di quella privata. Intanto le caratteristiche psicologiche emergono portando alla luce la mostruosità interiore, la follia, i tradimenti e ogni altro genere di nefandezze…

Ho già scritto più di quanto la decenza consenta. Rimando chi voglia farsi un’opinione seria sul film a questo link.

mercoledì 25 novembre 2009

Lebanon

Lebanon di Samuel Maoz si apre con l’inquadratura di un campo di girasoli, immobili nella luce del giorno. Nulla accade per alcuni istanti in quel silenzio; poi, a poco a poco, una specie di ronzìo metallico, lontano, inizia a farsi sentire. Mentre il rumore, quello di un veicolo cingolato, diviene a poco a poco un frastuono incombente il vento comincia a soffiare, agitando con violenza i girasoli. Appare il titolo del film, e subito un duro stacco di montaggio fa precipitare l’immagine filmica nel buio dell’interno di un carro armato. Lo sportello circolare della torretta riflesso dall’acqua immobile sul fondo dell’abitacolo si apre, e un soldato entra: l’azione si avvia. Una didascalia avverte che siamo nel 1982, il 6 giugno, all’alba del primo giorno dell’invasione israeliana del Libano; e la macchina da presa rimarrà per quasi tutto il resto del film all’interno di questo veicolo da guerra, in una soffocante oscurità.
Una modalità percettiva ben determinata sta al centro esatto del bellissimo film di Maoz, vincitore del Leone d’Oro 2009: la visione monoculare. E’ quel cerchio scuro riflesso nell’acqua che ce ne dà subito un indizio: l’apertura stretta e scomoda, unico passaggio fra l’interno e l’esterno del carro, fa infatti il paio con un’altra apertura circolare, quella del mirino da cui il giovane mitragliere Shmulik (Yoav Donat), appena entrato in servizio, osserva i movimenti all’esterno del carro e identifica gli obiettivi da colpire. Non c’è altro modo di vedere quello che accade là fuori; e la regìa costringe lo spettatore più e più volte dentro lo sguardo mutilato del ragazzo attraverso il mirino: una specie di soggettiva artificiale, una gabbia in cui la percezione visiva umana si fonde con quella della macchina da guerra – o, per meglio dire, ne rimane prigioniera. Il cerchio ottuso del mirino non permette altro che semplici spostamenti in direzione laterale o zenitale, nonché una ridottissima gamma di ingrandimenti; con tale rozzo strumento visivo Shmulik deve fare il proprio lavoro, che consiste nell’individuare e eliminare le minacce provenienti dall’esterno, a colpo sicuro, quando gli viene ordinato. Ma il ragazzo non sembra essere all’altezza del compito: Shmulik usa il mirino come uno strumento di visione, e nulla di quanto accade all’esterno sembra sfuggirgli; ma quando è il momento di puntare e fare fuoco il giovane non sa premere il grilletto per uccidere, sopraffatto dalla propria emotività. Ed è proprio così che Lebanon racconta l’assurdità della guerra: in questo voler ridurre la stereoscopia umana, con la sua ampiezza e la sua profondità, all’orribile semplicità di un monocolo; ovvero, fuor di metafora, eliminare dai propri fautori ogni residuo di umanità e emozione e individualità, per trasformarli in semplici macchine compresse in ruoli e mansioni ben definite. Perché a ciascuno la guerra non richiede altro che il mantenimento di un ruolo assegnato, e con esso di una posizione, e poi l’obbedienza agli ordini ricevuti. Pretende, la guerra, di opporsi all’imprendibile complessità del reale con poche e semplici regole, sempre uguali a loro stesse nel tempo e nello spazio. Il risultato di tale pretesa non tarda peraltro a farsi riconoscere in tutta la propria atrocità, dentro a quel mirino: sono la morte, il sangue, lo strazio dei corpi smembrati e la violenza cieca le conseguenze di quell’assurda volontà semplificatrice.
E’ per questa stessa ragione che la guerra non può trionfare: il suo tentativo di controllare il caos, di affrontarlo dall’interno di involucri metallici semoventi, divise o ranghi militari genera soltanto altro caos. E non è quest’ultimo la condizione fondamentale dell’umanità? Il disordine, come le emozioni, non si può controllare molto a lungo: ben presto infatti - mentre il rigido e imperturbabile Gamil, comandante del plotone a cui il carro fa da supporto, va e viene attraverso la torretta o si fa sentire dalla radio di bordo portando ordini e indicando direzioni da seguire - la situazione inizia a precipitare. Sia all’esterno che all’interno del carro i ranghi, come le psicologie individuali, saltano in aria per l’incapacità di sopportare la pressione, o meglio, la compressione che la guerra produce. La tensione aumenta a dismisura, anche a causa di un soldato siriano che prima, all’esterno, colpisce il carro con un lanciarazzi danneggiandolo gravemente; poi, catturato e fatto prigioniero, viene introdotto in catene nell’abitacolo. E’ questo l'ennesimo e più evidente segno che attesta la presenza del nemico: invisibile, nascosto ma potente, esso è una minaccia che diviene sempre più incombente col passare del tempo, mentre le istruzioni dal comando israeliano si fanno via via più vaghe e la presenza dell’ufficiale Gamil diventa sempre più labile, fino a svanire completamente. Abbandonati a loro stessi, con la loro macchina da guerra danneggiata e isolati in una zona ostile, i quattro soldati dell’equipaggio israeliano potranno infine affidarsi soltanto al proprio istinto, la parte più irrazionale e incontrollabile della loro natura. Sarà Shmulik, colui che fin dall’inizio aveva portato confusione e inquietudine a causa della sua insopprimibile emotività, l’unico a raccontare qualcosa di sé e del proprio passato: con la sua storia grottesca ma profondamente personale e sincera il ragazzo saprà momentaneamente alleviare nei compagni il peso insostenibile degli eventi; e lo stesso Shmulik, dimostratosi portatore di sollievo e pietà anche verso il prigioniero siriano, riuscirà infine a portare in salvo il carro. Dopo avere aperto lo sportello della torretta e essere uscito per primo da quella macchina da guerra, nella luce azzurra del mattino il giovane uomo si fermerà a osservare il campo di girasoli della sequenza iniziale, tornato ora alla propria immobile pace.


mercoledì 18 novembre 2009

Rachel

Ho avuto la fortuna di vedere questo documentario di Simone Bitton al festival di Internazionale a Ferrara, quasi due mesi fa. Non credo avrei avuto molte altre occasioni, ed è triste che il film non abbia goduto di maggiore diffusione perché Rachel è un’opera coraggiosa e piena di dignità.
Vi si raccontano gli ultimi giorni di vita di Rachel Corrie, attivista statunitense dell’International Solidarity Movement uccisa a Rafah il 16 marzo 2003 da un bulldozer dell’esercito israeliano mentre si opponeva alla demolizione della casa di Samir Nasrallah, un farmacista palestinese. Rachel aveva ventitré anni e da un paio di mesi si trovava nella Striscia di Gaza con altri attivisti dell’ISM, impegnati come “scudi umani” durante la seconda Intifada.
La regista franco-israeliana ha raccolto una grande mole di materiale: ci sono le testimonianze filmate dei giovani compagni di Rachel, quelle delle autorità israeliane e quelle degli abitanti palestinesi delle case che gli attivisti dell’ISM erano andati a difendere. Ci sono i genitori della ragazza uccisa, le sue insegnanti e poi numerose immagini di repertorio; la lettura in voce over delle e-mail che Rachel inviò alla madre dalla Palestina si alterna ai racconti di coloro che l’hanno conosciuta e amata.
Due sono essenzialmente gli scopi del film: il primo è ricostruire l’identità della ragazza e tentare di spiegare il motivo delle sue scelte; il secondo è mostrare l’assurdità del conflitto arabo-israeliano; ma tali obiettivi sono in realtà indistinguibili dato che la guerra ci appare tramite lo sguardo di Rachel e dei suoi compagni, mentre questo stesso sguardo muta irrimediabilmente con il passare dei giorni trascorsi nella Striscia. Parimenti, doppio è il merito dell’opera: in primo luogo la regìa mostra grande sensibilità nel raccontare l’anima di una persona “in assenza” e il ritratto della giovane Rachel è profondo e toccante, anche se mai scadente nel patetico. I vari frammenti di testimonianze impiegati nel film si compongono alla fine in un personaggio pienamente delineato, del quale divengono ben chiare le motivazioni e gli scopi: pur essendo figlia della propria cultura d’origine, dell’individualismo e del benessere, Rachel è una figura Altra che trova il senso della propria esistenza nell’esperienza totalizzante dell’Altrove. Esperienza irreversibile, come fanno intuire le lettere alla madre: se anche la morte non l’avesse colta, Rachel non avrebbe potuto fare ritorno a una certa visione del mondo e a un certo miope, tranquillo individualismo; tratti questi che probabilmente non erano mai stati suoi, ma che caratterizzano in maniera sempre più soffocante l’Occidente contemporaneo, ovunque esso sia.
L’altra grande dote del film è la sua misura: Rachel è schierato sì, ma per nulla fanatico. E’ un film che fa domande, che osserva e non condanna. Ciò nondimeno, il suo giudizio è netto nel mostrare la follia di quella guerra e di ogni guerra: perché la guerra non richiede pensiero ma soltanto azione, e trasforma di conseguenza le persone in oggetti ancora prima di stabilire contrapposizioni fra amici e nemici, fra noi e loro. Soltanto così diventa possibile e accettabile sparare per gioco alle case oltre il confine, radere al suolo abitazioni civili come fossero tessere del domino, ignorare del tutto gli attributi di umanità delle persone “dall’altra parte”. La testimonianza del giovane e anonimo carrista israeliano è agghiacciante perché rivela che nel punto in cui egli si trova tutto è ormai perduto in termini di soggettività: restano soltanto ranghi e ruoli, e ordini da seguire; e non rimane spazio per accorgersi delle vite altrui, o tanto meno per fare un paragone tra la propria esistenza e quella di coloro a cui accade di essere considerati, con orribile semplificazione, nemici. A questa immonda cecità, la stessa con la quale l'esercito israeliano tenta di dimostrare che la morte di Rachel è stata un incidente, risultato di una banale catena di cause ed effetti messa in moto da azioni irresponsabili, il film contrappone lo sguardo limpido della protagonista: una visione che ha al suo centro l’individuo, si sostanzia di osservazione e comprensione, e diviene infine scelta e azione concreta – e eroica. Rachel Corrie è stata e rimarrà l’evenienza di un colore diverso, quando l’orrore trabocca e tutto assume la stessa tinta fosca, impossibile da percepire e da capire. E se lo spettro dell’inutilità e dell’oblìo sembra spaventare ancora oggi alcuni fra coloro che furono compagni della ragazza uccisa, il film si conclude con le immagini, malinconiche ma piene di luce, dei graffiti con il nome di Rachel sui muri delle abitazioni di Rafah: a mostrare l’amorevole ricordo della popolazione verso una ragazza venuta dalla parte opposta del mondo per trovare la sua casa.

martedì 10 novembre 2009

Inglourious Basterds

Enough! You better start talkin
to us, asshole, cause we got shit
we need to talk about.

Mr. White



Inglourious Basterds (sic) è stupefacente. Impossibile rendergli qui tutto l’onore che merita; butto giù semplicemente qualche impressione, molto tempo dopo avere visto (e rivisto) il film.

Indispensabile una premessa sul doppiaggio: la versione originale è quasi interamente sottotitolata. Ovvero, si parlano quattro lingue: francese, inglese, tedesco e anche italiano – in un passaggio breve ed esilarante, puntualmente sciupato nella versione nostrana. Questo del doppiaggio potrà sembrare un dettaglio insignificante; io credo invece non sia di poco conto, dato che la molteplicità linguistica del copione è un elemento esteticamente fondamentale. La versione italiana, l’unica che finora ho visto integralmente e di cui posso scrivere, identifica ovviamente l’inglese come lingua “base”, e lo fa coincidere con l’italiano; il problema è che alcune scene che nella versione originale non sono in inglese vengono doppiate comunque in italiano, snaturando miserevolmente lo spirito del film.

Ciò detto, vado con la prima considerazione: non credo abbia molto senso parlare di “citazionismo” per il cinema di Tarantino. Non sono neppure certo che la parola citazione si adatti compiutamente al nostro caso: il modo in cui QT opera riferimenti alla Storia del cinema o al resto dello scibile umano non ha esattamente il significato che di solito si dà all’uso della citazione. Sto pensando al semplice omaggio, al becero sfoggio di erudizione, ma anche al collegamento strumentale ad un precedente di prestigio al fine di conferire maggiore lustro alla propria creazione. Fondamentalmente penso che questi usi siano estranei alle intenzioni del regista, e mi chiedo: una citazione, per poter essere considerata tale, necessita per forza di riconoscibilità? Ammettiamo che la risposta sia positiva. In tal caso dovremmo anche ammettere che essa richiede un relativo isolamento all’interno del testo: in poche parole, la citazione appare al buon vecchio senso comune – qualunque cosa esso sia – ben riconoscibile e ben distinta dalle eventuali sue compagne che si trovano nello stesso pollaio.

Invece cosa accade in Inglourious Basterds e in tutto il cinema di QT, forse per la prima volta nella Storia della settima arte? Che le citazioni, se ancora vogliamo chiamarle così, sono talmente tante e vicine fra loro – anzi le une sulle altre – da risultare indistinguibili fra loro e da ciò che le circonda. Insomma la Storia del cinema, da Tarantino in poi come mai prima di lui, ha iniziato a ripiegarsi su se stessa. E lo ha fatto in modo talmente deciso da non poter più tornare ad essere quello che era prima: ovvero una linea, magari non proprio retta, che però continuava a procedere, fra strappi e scossoni d’ogni genere, in un unico senso. A questa linea QT ha impresso un andamento nuovo, apparentemente involutivo: quello di una spirale centrata sul nulla. Al centro di quel gorgo, nel cuore del cinema di QT l’apparenza e il buon senso vogliono stia il vuoto assoluto: niente senso, né morale, né speranza nei film di Quentin. Niente. Apparentemente, soltanto un accumulo ossessivo di copiature, rispecchiamenti, dialoghi vani e privi di qualsivoglia “verità” o verosimiglianza (per quanto dannatamente divertenti). Il Fine Ultimo non esiste più, al suo posto sta una valanga di ciarpame ripreso da chissà dove, una cattedrale che non sarà mai consacrata perché costruita con resti di monumenti troppo eterogenei, se non addirittura con i rifiuti decomposti del passato. Vogliamo trovare l’evidenza di tutto ciò in Inglourious Basterds? Non c’è problema: ecco i criptotesti The Dirty Dozen e The Inglorious Bastards (quest’ultimo di Enzo G. Castellari, che compare nel film di QT con il ruolo di un innominato ufficiale tedesco), ecco le dichiarazioni di QT stesso sulla volontà di realizzare uno “spaghetti western con iconografia da Seconda Guerra Mondiale” (Wikipedia ha già una ricca voce sul film), o tutti i riferimenti al cinema tedesco del Terzo Reich… Ancora? Nella sequenza all’interno del cinema parigino, le panoramiche mostrano un party in perfetto stile Woody Allen, mentre nella sparatoria finale ci sono un sacco di inquadrature copiate dal finale del Padrino III (senza contare l’esilarante imitazione di Marlon Brando da parte di Brad Pitt, poco prima)… Potrei naturalmente continuare all’infinito, se solo possedessi un po’ più di cosiddetta cultura cinematografica. Ma il fatto rilevante non è l’ignoranza dello spettatore medio e la sua incapacità di riconoscere tutte le citazioni (‘a ridàje) presenti nel film: è chiaro come il sole, e non c’è bisogno di essere docenti al DAMS per capirlo, che Inglourious Basterds è zeppo di richiami più o meno evidenti all’Altrove cinematografico. E allora?

Allora si può senz’altro credere a questa storia di QT come autore nichilista quant’altri mai, fautore di un cinema esaltante ma (o forse proprio perché) vuoto. Ci sono ottimi motivi per farlo e non si può dire che sia sbagliato, per carità. Io stesso ne sono stato convinto per un pezzo, su questo blog parlai malissimo, a suo tempo, di Death Proof.

Oggi però, con pochi grammi di senno in più, tutta questa storia mi sembra un cumulo di stronzate. Chi, come il sottoscritto, si è affidato a una visione letteralmente superficiale del cinema tarantiniano – apprezzandone soprattutto il cinismo e la ferocia (e le citazioni) – si è perso la parte migliore. In realtà tutti i film di Quentin sono film d’amore, un amore smisurato per il cinema e per la finzione. Del resto, e qui apro un’altra parentesi, cosa ci è rimasto a parte la finzione? Se qualcuno ha ancora fiducia nella “realtà” e nel “vero” si faccia avanti, che andiamo a bere insieme. Un paio di vodka-martini prima di cena non potranno certo nuocere più di tanto, in quelle condizioni: perché la realtà, se ancora ci fosse bisogno di specificarlo, è morta e sepolta. Lo sapevano bene Pasolini e Baudrillard, e l’hanno visto prima di molti altri; oggi che questa morte è sotto gli occhi di tutti, in quanti siamo a volerla riconoscere? Non lo so e non me ne importa più di tanto, io sono solo uno a cui piace andare al cinema. Quindi chiudo la mia parentesi e torno al mirabile oggetto filmico che dà il titolo al mio post e che davvero potrebbe essere il capolavoro del nostro caro Quentin.

Se Tarantino fosse soltanto un cinico e un feticista potrebbe possedere tutta quella maestria tecnica? Può darsi; ma anche no. Io propendo per la seconda ipotesi: se la tua visione è così semplice, non hai bisogno di tutta quella bravura nel fare il tuo mestiere di regista; forse nemmeno la vorresti usare. Ti basterebbero strumenti elementari per il tuo elementare messaggio (si vedano per esempio i film di Eli Roth regista, film che mostrano un bagaglio di tecnica registica pari al bagaglio di tecnica attoriale mostrato da Eli Roth attore in Inglourious Basterds). E’ solo un’opinione personale; ad ogni modo, chi ha visto il film non potrà non ricordare la sequenza dello scantinato. E’ quasi totalmente parlata in tedesco, e sottotitolata nella versione originale e italiana. Ripeto, sottotitoli. Questi ultimi di solito sono abbastanza nocivi nei confronti della tensione narrativa; ma non in questo caso, evidentemente. Quella sequenza è tecnicamente perfetta dall’inizio alla fine, varrebbe da sola il film, ed è così tesa che guardandola non puoi fare altro che tenere gli occhi incollati allo schermo; non puoi quasi fare altro, tipo sbattere le palpebre, muoverti sulla poltrona o ricordarti che stai guardando un film. Puoi soltanto guardare, e leggere i sottotitoli. Pura spavalderia, in fondo: sembra quasi che il regista voglia dirti: “sono capace di tenerti incollato alla poltrona immobile con una scena in tedesco, sottotitolata”. Grandissimo.

Tuto questo per ribadire che QT con la macchina da presa fa quello che vuole, anche se non ci sono più dubbi. Basterebbe già la sua capacità mimetica a certificarlo: Inglourious Basterds è un film europeo opera di un autore americano fino al midollo, per quanto perdutamente innamorato del cinema d’Oltreoceano. Basta confrontarlo con altri capolavori di QT come Reservoir Dogs o Jackie Brown, opere U.S.A. dal primo all’ultimo fotogramma; e non parlo di attori o ambientazione: le parti più affascinanti del film sono quelle in cui il regista è più lontano dalla propria cultura d’origine e si immerge in questa atmosfera filmica per lui totalmente “altra” (penso alla scena della conversazione fra Hans e Shosanna, ma anche alla parodia del cinema di propaganda tedesco in Orgoglio di una Nazione).

Amore, insomma: Inglourious Basterds lo trasuda da quasi ogni fotogramma. E’ un film lento, composto quasi interamente di dialoghi e conversazioni: e in questa lentezza dolcissima il regista si prende tutto il tempo per seguire i suoi amati personaggi e osservarli da vicino, quasi accarezzandone i volti (si noti la grande abbondanza di inquadrature in primissimo piano; non per niente poi l’ultima parte del film si intitola “La vendetta della faccia gigante”). Questo seguire amorevolmente i personaggi si ritrova a dire il vero anche in tutti i film precedenti, ma è un amore più freddo, più distante, forse più americano appunto. E’ il film finora più maturo di QT? Non so e non mi importa, certo è che si tratta del lavoro più diverse del Nostro, forse perché ha una storia tutta sua: basti ricordare che ci sono voluti dieci anni per la scrittura del copione (rimando di nuovo a Wikipedia per ulteriori sapidi dettagli).

Non si può infine dimenticare un’altra dote fondamentale di Inglourious Basterds. Tarantino ha sempre lavorato con attori meravigliosi, è innegabile; ma la loro bravura nell’economia dei film finiva quasi sempre in secondo piano, a causa forse della densità del copione o dell’ingombrante statura dell’autore. Non che qui la riconoscibilità di Tarantino sia inferiore, anzi; ma bisogna riconoscere che la recitazione di Christoph Waltz (premiato come miglior attore protagonista a Cannes 2009) è davvero formidabile. Il personaggio di Hans Landa, che Tarantino ha dichiarato essere il migliore da lui mai creato, è perfetto e indimenticabile; il regista ha anche dichiarato che temeva il ruolo di Landa fosse impossibile da recitare, ma Waltz (che recita perfettamente in inglese e in francese oltre che nel nativo tedesco) gli ha “restituito” il film, per la gioia sua e di noi spettatori. Nel cast risplendono anche Mélanie Laurent (Shosanna, la Vendetta in persona), Diane Kruger e Michael Fassbender.

Non so dire altro: bentornato Quentin, glorioso splendido bastardo!


venerdì 3 luglio 2009

Vincere

Vincere è dominato dal tema del doppio: un rispecchiamento soprattutto, che però è anche deformazione. Il film è diviso in due già cronologicamente; la giovinezza del rapporto fra Ida Dalser (Giovanna Mezzogiorno, brava e intensa come mai prima d’ora) e Benito Mussolini (Filippo Timi, anch’egli ottimo), e l’età della separazione e della solitudine. Stilisticamente, la prima parte ha un andamento quasi onirico, e rispecchia la malìa che Mussolini esercita su Ida: fascinazione, irrazionalità, innamoramento, e la fotografia oscura e opaca e fumosa di Daniele Ciprì, spesso virata in blu, è assai efficace nel rappresentare la magìa cattiva che il futuro dittatore esercita sulla protagonista. Nella seconda parte, quando Ida viene abbandonata e poi internata in manicomio, lo sguardo del film (e parimenti della sua protagonista) diviene più lucido, le immagini sono più nitide ma anche meno sature. Tutto è più neutro, tendente al grigio.

C’è il poi il contrasto fra la città, Milano (il film è in realtà girato a Torino) e la provincia (Trento), e quello fra le due famiglie di Mussolini (Ida Dalser da una parte, Rachele Guidi dall’altra); ma soprattutto l’utilizzo frequente di immagini di repertorio del vero Mussolini costituisce un ulteriore dispositivo per la creazione di opposti: l’immagine “reale” del Duce, prima finzione nella realtà del Ventennio, viene a sua volta innestata nella finzione del film di Bellocchio (basato su vicende non del tutto appurate ma frutto di indagine storica, si veda http://it.wikipedia.org/wiki/Ida_Dalser) e contrapposta all’immagine di Benito Albino (sempre Filippo Timi) a sua volta immagine del padre da giovane (Timi)…

Ecco la genialità della scissione di Timi nel doppio ruolo di padre e di figlio: così il figlio diventa lo specchio del padre, il suo doppio deformato nell’imitazione prima e nella follia poi. E anche l’interpretazione di Mussolini padre è improntata all’iperbole e alla deformazione, all’imitazione derisoria e impietosa del Mussolini “ufficiale” e della mitologia che il dittatore aveva creato attorno alla propria figura. Perfino la permanenza di Ida nei vari istituti psichiatrici in cui è stata rinchiusa diventa un simbolo: la donna è effettivamente l’unica a sapere la verità su Mussolini e sul figlio nascosto, mentre tutti intorno a lei continuano a negare la realtà e a crederla pazza. Lei, orgogliosamente lucida, è fra le pochissime persone che conoscono personalmente Mussolini: questo la mette anche nella condizione di comprendere la natura stessa del fascismo, e ad essere quindi in contrapposizione con il suo sistema di terribili apparenze. La follia ha contagiato ormai l’intero Paese e Ida, fra le poche persone lucide e coscienti, è internata in manicomio.

Insomma, è difficile uscire dal labirinto di specchi di Vincere; ma tutto sembra far pensare che il vero oggetto del film di Bellocchio non sia la storia personale di Ida Dalser e di Benito Albino Mussolini, né l’orribile infamia compiuta dal dittatore nei confronti della propria famiglia biologica: la storia “piccola” e personale di queste persone simboleggia la Storia “grande” e miserabile di una famiglia più grande, l’intera popolazione italiana, caduta nel folle incantesimo ammaliatore di Mussolini, ingannata e poi tradita e lasciata morire proprio come Ida e Albino. E tutto questo attraverso la doppiezza della figura di Mussolini e di tutto il fascismo: un’immensa e terribile mistificazione, una micidiale apparenza sul fondo della quale si trovano soltanto follia e morte.

Vincere è un bellissimo film, simbolico e colmo di umanità al tempo stesso: miracolo al quale Marco Bellocchio, il più grande regista italiano in circolazione, ci ha oramai abituati; eppure dopo ogni suo film ancora si esce dalla sala cinematografica come sopraffatti: dalla bellezza sontuosa delle sue immagini come dalla forza annichilente dei sentimenti e delle emozioni raccontate, delle quali non è possibile liberarsi: proprio come in un incantesimo.

lunedì 16 marzo 2009

Giulia non esce la sera

Splendido e commovente il nuovo film di Giuseppe Piccioni. Lo rivedrei ora, domani e dopodomani, e avrebbe sempre qualcosa di nuovo da dirmi. Il tema è semplice e intrattabile allo stesso tempo: il modo in cui le persone stanno nel mondo. E' uno sguardo senza giudizi quello di Piccioni, anzi; è pieno di una cosa quasi impossibile da trovare al giorno d'oggi, ovvero l'amore per le persone suddette. Chiunque siano, ognuno ha la sua storia, nessuno è da buttare o da condannare. Sembrano ovvietà scritte da me, ma andate al cinema a vedere questo film bellissimo e vi accorgerete che non c'è niente di ovvio in esso: Giulia non esce la sera ha il dono magico di aderire alla vita così com'è, con i suoi punti morti, le piccole deviazioni che cambiano un'intera esistenza, le delusioni continue, il cercare qualcosa che forse non esiste nemmeno. Eppure è un racconto perfetto, dal quale non ci si può staccare neppure un attimo.

Che storia, e che protagonisti: tutto è così insolito, arioso, aperto... Da quanto tempo non si vedeva un film del genere, lieve ma profondissimo, così distante dal "dover parlare di qualcosa" nostrano, dal cosiddetto cinema impegnato, dalla morale, dalle brutture varie ed eventuali di questo Paese... Non si soffoca, per una volta si respira invece; in un grande film italiano che potrebbe essere di ovunque, lontano anni luce dalla provincia mentale di tanti altri autori del nostro cinema, bravi fin che vogliamo.
Giulia non esce la sera è la storia di due prigionieri che fanno un pezzo di strada assieme, senza farsi illusioni. Eppure uno vive dei propri romanzi, l'altra delle proprie passioni: proprio per questo forse entrambi sono lontani dalla pienezza della vita. Ognuno seguendo le proprie inclinazioni, i due crederanno (o fingeranno) di trovare quella pienezza l'uno nell'altra... Chissà se non sarà invano. Piccioni ci ricorda magnificamente come non possa darsi esistenza senza finzione e senza recita, ma neppure senza passione: a queste condizioni si può anche perdere tutto, ma diversamente non si potrà dire di avere - sia pure per un breve momento - vissuto.
Dal punto di vista "tecnico" il film è tutto da ammirare, cominciando dalle recitazioni. Non ho mai visto, ad esempio, un Valerio Mastandrea (che pure è un attore vero e completo) così bravo, misurato e dolente: direi che questa è ad oggi la sua interpretazione migliore. Valeria Golino, che di solito non mi entusiasma, qui ha un'intensità mai vista, e nello stesso tempo il pieno controllo dei propri mezzi espressivi; buona anche la prova di Sonia Bergamasco, sempre un po' sopra le righe ma qui assai credibile. Se poi vogliamo parlare della bellissima colonna sonora dei Baustelle, o della fotografia di Luca Bigazzi, impeccabile come d'abitudine... Inutile continuare; dovete vedere il film, se ancora vi volete un po' di bene.

martedì 10 marzo 2009

The Millionaire

Bel colpo, Danny. Slumdog Millionaire è un film totalmente indovinato, senza per questo essere soltanto un ottimo "prodotto". Che sia un film tecnicamente ineccepibile e destinato a fare un sacco di soldi lo hanno riconosciuto gli 8 oscar assegnati: film, regìa, sceneggiatura non originale, montaggio, fotografia (Anthony Dod Mantle), suono, colonna sonora, canzone originale. Tutti questi premi sono meritati, non c'è dubbio; ma sono anche, come sempre avviene per gli Academy Awards, ulteriore propellente per il successo economico della pellicola. Se poi ultimamente l'Academy premia anche film davvero belli, come questo o come l'inarrivabile No Country For Old Men l'anno scorso, ciò può voler dire molte cose, incluso forse il fatto che gusti e aspettative degli spettatori riguardo al cinema americano abbiano fatto un salto di qualità; ma è un discorso che non mi interessa più di tanto.

Tornando al film, il marchio autoriale di Boyle si riconosce chiaramente: nella violenza, nel cinismo esasperato, nella volontà costante di colpire lo spettatore, disgustandolo o mettendo in evidenza i lati più oscuri della natura umana. Su questo punto il film conferma la visione nichilista dell'autore scozzese, anche se si potrebbe obiettare che Boyle abbia perso un po' di mordente rispetto a Piccoli omicidi fra amici, Trainspotting o The Beach; in realtà Slumdog Millionaire prosegue e completa il discorso iniziato con i film precedenti. Nelle opere citate è presente in misura minore o maggiore il tema dell'apparenza, e dell'inganno che la società di massa mette in atto nei confronti dell'individuo: il pop, la cultura della comunicazione globalizzata, sono risponsabili dei miraggi che i protagonisti dei film di Boyle inseguono ad ogni costo, pronti a commettere le peggiori nefandezze per soddisfare i bisogni indotti dall'immaginario collettivo contemporaneo (si tratti di droga, ricchezza facile, celebrità, successo, fuga). In quest'ultimo film, l'inganno finale e definitivo è quello dell'amore, dell'happy ending ad ogni costo. Non a caso il film si chiude con una surreale scena da musical, sui binari di una stazione ferroviaria, e con la didascalia "It is written" che simula la risposta esatta di una domanda iniziale in stile, appunto, "Chi vuol essere milionario". Per questo film, Boyle ha scelto gli elementi peculiari dell'immaginario odierno, elementi irrimediabilmente pop, e li ha mixati alla perfezione: i quiz alla tv, il guadagno facile, l'individualismo esasperato, la ricerca forsennata dell'amore, il terzo mondo che diventa primo... Ed è andato a girare il film a Bollywood (a quattro mani con Loveleen Tandan), che rappresenta la forza del nuovo mondo emergente ma anche un punto nevralgico di creazione dell'immaginario a livello mondiale. E chissà quante citazioni di film bollywoodiani ci sono in Slumdog Millionaire... Insomma, nonostante l'apparenza naturalistica che lo caratterizza per quasi tutta la sua durata, il film è finzione che parla di finzione, non di realtà. E' un film che dice tutto sul nostro tempo, proprio perché nel nostro tempo la finzione e l'apparenza hanno ormai ingoiato la realtà; e questo è forse il più duro pugno nello stomaco che abbiamo mai ricevuto da parte di Danny Boyle.

mercoledì 4 marzo 2009

Appaloosa

Ed Harris e Viggo Mortensen recitano insieme, in un film diretto dallo stesso Harris. Ovvero, due dei miei attori preferiti - uno dei quali è anche un bravo regista - in un western. C'era da sperare molto bene, perlomeno in termini di divertimento; e invece Appaloosa mi ha lasciato freddo. Non sono deluso, ma non mi sono nemmeno divertito molto a vederlo. Adesso che ci penso, però, non mi sembra che si tratti di un incidente. In altre parole, se un film può fare dei piani, credo che quello di Appaloosa sia non divertire.

Ed Harris, lo ripeto, è un bravo regista; ho anche il sospetto che non gliene freghi assolutamente niente dei soldi o del successo. Questo è il suo secondo film come autore (ha anche scritto la sceneggiatura, assieme a Robert Knott, adattamento di un romanzo di Robert Parker) dopo il bellissimo Pollock che risale al 2000. Ma Harris è prima di tutto un attore; quando e se ha voglia di fare l'autore lo fa (bene), altrimenti no: già questo potrebbe far venire il sospetto che il film non aspiri a essere un blockbuster.
Appaloosa è effettivamente un'opera gelida e anti-spettacolare. Le ambientazioni e i costumi sono stilemi western, ma gli elementi canonici del genere si fermano lì. Guardate le sparatorie e i duelli: non c'è un minimo di tensione in essi, nessuna suspence. Semplicemente qualcuno ammazza qualcun altro, e nemmeno di sorpresa. Ci sono questi due protagonisti beckettiani che vivono in simbiosi "professionale" da anni, pur dialogando soltanto il minimo indispensabile, ma che alla fine si separeranno all'improvviso senza battere ciglio. La recitazione di Harris, Mortensen, Renée Zellweger e Jeremy Irons è forzatamente inespressiva, senza alcun pathos. I paesaggi, di solito un punto di forza del genere western, non sono grandiosi, ma squallidi e desolati... Potrei andare avanti ancora con segni e dettagli, ma ce n'è abbastanza per sospettare che Appaloosa sia in realtà un ritratto della desolazione nelle relazioni umane: i sentimenti, in altre parole, non sono nient'altro che un peso, un problema. Meglio non averne, essere cavalieri solitari, piuttosto che andarsi a impelagare nell'amicizia o nell'amore, che sono peggio delle sabbie mobili: quando uno ci crede, rimarrà per forza scornato e abbattuto, deluso, truffato, in sostanza perderà sempre qualcosa. E così la forma fredda e apparentemente squallida del film è in realtà lo specchio perfetto della sua sostanza. Per forza, dunque, è un film che lascia freddi; quello che conta è che in realtà Appaloosa è un bel film, e Ed Harris è sempre un grande.

lunedì 2 marzo 2009

Frost/Nixon

Bello e avvincente l'ultimo lavoro di Ron Howard, metà artigiano metà "grande firma" dell'industria hollywoodiana. Non conosco a fondo la sua filmografia, ma quel che ho visto mi ha sempre colpito e lasciato qualcosa a cui pensare: Apollo 13, Ransom, l'indimenticabile A Beautiful Mind, Cinderella man. Grandi spettacoli, tecnicamente ineccepibili, gioiosamente mainstream. Eppure in questi film si può trovare di volta in volta un grande approfondimento psicologico, una scelta narrativa insolita, un'amorevole filologia nella ricostruzione d'epoca; soprattutto, una messa in questione dell'ideologia dominante, del sogno americano in buona sostanza: Howard, dal centro esatto del sistema produttivo, si ostina a cercare di essere autore, e soprattutto a mostrare le stonature - spesso tragiche - che caratterizzano la società e la storia del suo Paese (tra l'altro il regista ama molto portare al cinema episodi realmente accaduti, "storie vere").

Quest'ultimo Frost/Nixon, molto bello, prosegue in pienezza il percorso tracciato dall'autore con i film citati: è un lavoro tecnicamente impeccabile, avvincente e ritmato; il soggetto è dato dalla famosa intervista del giornalista britannico David Frost a Richard Nixon, nel 1977; Peter Morgan ne trasse tre anni fa un'opera teatrale, interpretata da Frank Langella e Michael Sheen, e gli stessi Morgan, Langella e Sheen si ritrovano nel film rispettivamente come sceneggiatore e protagonisti. Il copione naturalmente funziona a meraviglia, e i due attori sono bravissimi, specialmente Langella nel ruolo di "Tricky Dick". 
Ma Howard, come dicevo, non si accontenta del grande spettacolo. Il suo film non è per niente consolatorio, anzi: c'è una profonda amarezza nel film, e una specie di stanca sfiducia verso tutto e tutti si percepisce fin dalle prime scene. Lo scontro fra l'ex presidente americano e il giornalista inglese, da subito, appare l'esatto opposto di una sfida fra il bene e il male: nessuno infatti si salverà dal punto di vista morale. Nixon, ben cosciente delle proprie malefatte, cerca nell'intervista soltanto l'ultima possibilità di salvare la faccia; mentre Frost, lungi dall'essere un paladino della giustizia o dell'etica, agisce soltanto per il successo personale. D'altronde, direte voi, perché dovrebbe essere diversamente? A questa gente si chiede di essere dei bravi professionisti, di fare bene il proprio mestiere: e saranno proprio la professionalità e la fede estrema nel proprio lavoro che porteranno Frost al trionfo, e alla sconfitta di Nixon. Eppure nel film non c'è proprio nessun vincitore: persino l'integerrimo James Reston Jr. (Sam Rockwell), nemico acerrimo dell'ex presidente, sarà costretto a stringere, disgustato, la mano di quest'ultimo, rimangiandosi una parola appena data e venendo meno ai suoi imperativi più radicati. Alla fine Nixon, per il quale il film mostra in fondo di non avere nessuna pietà, verrà sconfitto da un suo simile, una persona come lui indifferente alla morale e all'etica: e a uscirne distrutta non sarà soltanto l'immagine di un ex presidente, ma quella del potere in generale, e forse anche dell'intera America.

venerdì 27 febbraio 2009

Qualcuno con cui correre

Mishehu Larutz Ito è il titolo originale di questo bel film israeliano, uscito nel 2006 ma arrivato in Italia soltanto alla fine dello scorso anno. Tratto dal romanzo omonimo di David Grossman (che appare per pochi secondi a metà del film), girato in digitale da Oded Davidoff, il film racconta di un inseguimento nella Gerusalemme dei nostri giorni. Due sono le linee narrative, due i protagonisti; ottimo il racconto, avvincente e trascinante: si comincia con una telefonata nel cuore della notte, e da lì gli elementi misteriosi si moltiplicheranno, tenendo lo spettatore ben avvinto alla storia. 

Altri grandi elementi di interesse nel film sono i luoghi e i volti: fra questi ultimi spicca per bravura e bellezza quello della giovane protagonista Bar Belfer; fra i primi, una Gerusalemme insolita, lontana dagli stereotipi televisivi sulla guerra e la violenza. Una città contemporanea, viva e pulsante, in cui attecchisce, com'è ovvio, anche la delinquenza, in questo caso legata al traffico di droga. Il film è insomma una ricognizione non superficiale di un Israele contemporaneo assai lontano da come appare nelle arene della comunicazione di massa; e il sottomondo della gioventù sfruttata viene mostrato con sguardo non "documentaristico", ma delicato e crudo allo stesso tempo; intanto si assapora la vita quotidiana di un Paese per una volta lontano dalla guerra, in cui gli abitanti possono dedicarsi ciascuno alla propria personale ricerca della felicità, anche - e forse soprattutto - sbagliando strada. Neorealismo quasi magico, pieno di tenerezza e di luce.

Il curioso caso di Benjamin Button

Non è un capolavoro l'ultimo film di David Fincher; è un grande racconto, a volte un po' patetico, altre un po' superficiale, ma quasi sempre efficace. Per una storia come questa (il soggetto è tratto dall'omonima short-story di Francis Scott Fitzgerald, The curious case of Benjamin Button, ma il film se ne discosta quasi completamente), con molti aspetti morbosi e abnormi, Fincher mi sembra il regista ideale. In effetti il suo stile, che è assai riconoscibile, si percepisce chiaramente anche in questo lavoro, per quanto esso sia totalmente diverso dai film precedenti del regista di Denver. E' il suo gusto per il cupo, l'inesorabile, e soprattutto il "deforme" ad avvicinare quest'opera alle altre; come nel penultimo Zodiac, anche in Benjamin Button si percepisce una profonda malinconia, risultante secondo me da due fattori: la percezione del proprio destino avverso da parte dei protagonisti e la totale impossibilità di evitare questo destino. E' la tristezza, forse, la cifra non solo di questo film ma di tutta l'opera di David Fincher.

Onesta e niente più la recitazione di Brad Pitt, attore feticcio di Fincher (questo è il loro terzo film insieme, dopo i cult Seven e Fight Club); Cate Blanchett come sempre è senza difetti, e la sua presenza arricchisce parecchio il film; fa piacere poi ritrovare Julia Ormond, in un ruolo marginale ma ben tenuto (la Ormond secondo me è un'attrice grandissima, dal potenziale ancora in gran parte inutilizzato). Eric Roth, grande sceneggiatore hollywoodiano, autore di tanti bei film e specialista sulle lunghe durate (The Insider, Ali, Munich, The Good Shepherd e altri ancora) fa molto bene il suo mestiere anche stavolta, e non era per niente facile; bella la scelta di associare il concetto del "tempo rovesciato" al disastro dell'uragano Katrina a New Orleans (un momento della Storia americana in cui il mondo è andato a rovescio, in effetti). Lode infine alla fotografia, di Claudio Miranda.

giovedì 26 febbraio 2009

The Reader

E' un bel film, The Reader. Pieno di dolore, ma vale davvero la pena di vederlo. E' un film europeo in fondo, anche se il tocco statunitense dei fratelli Weinstein si fa evidente in alcuni momenti forse un po' troppo patetici. Ma non c'è superficialità, mai. Ci sono domande invece, e dubbi, e rovelli; la sceneggiatura non è originale (il film è tratto dal romanzo omonimo di Bernhard Schlink) mentre i personaggi sono ben delineati e assai credibili, nonostante gli "eccessi" emotivi del soggetto; che è in ogni caso ottimo, avvincente, un dramma puro e inesorabile, senza redenzione o riparazione nel finale. Le forze in gioco sono la morale e la Storia, l'amore e la pietà; ma non ci sono parti da prendere, nè più o meno buoni e più o meno cattivi. Semplicemente il giudizio c'è, ma va sospeso, deve rimanere tale, per una questione di pura umanità. The Reader insomma costringe a interrogarsi duramente ma impedisce di darsi una risposta, ed è questo forse il suo merito maggiore. Complimenti a tutti comunque: a Stephen Daldry, regista inglese molto bravo (ha diretto l'indimenticabile The Hours); alla sceneggiatura di David Hare (che anche di The Hours fu sceneggiatore); alla fotografia di Roger Deakins e Chris Menges; al sempre splendente Bruno Ganz; a Kate Winslet e Ralph Fiennes, attori 100% UK molto amati dal sottoscritto e da altri milioni di persone in tutto il mondo, istrioni eccezionali, fra i migliori commedianti oggi sulla faccia della Terra, anche se qui le loro interpretazioni sono, appunto, dolenti come non mai (io avrei preferito che Kate vincesse l'Oscar per Revolutionary Road, in quel film è ancora più brava; ma l'establishment non è mai stato molto rivoluzionario, e il film di Mendes fa troppo male all'America per poter ricevere dei premi americani). Il film è infine l'ultima produzione, postuma, di Anthony Minghella e Sydney Pollack.

Rachel sta per sposarsi

C'è un fugace, istantaneo sguardo in macchina di Kym (Anne Hathaway, brava davvero) nei primissimi fotogrammi di Rachel getting married. E' quasi nulla, ma è sempre un'interpellazione: abbastanza per suscitare un sospetto. Intanto il film comincia, con la sua macchina da presa digitale sempre in movimento, sbilenca, traballante e dallo sguardo sghembo; in più di un'occasione usa lo zoom, e la cosa ha quasi dell'incredibile fuori da un film Dogma... E qui nasce il secondo sospetto.

Kym riabbraccia i suoi, sta tornando a casa dopo un lungo periodo di disintossicazione, lungo il tragitto si ferma in un bar e la ragazza alla cassa le chiede entusiasta: "Scusa, non ti ho già vista in Cops?" mentre due marines in tuta mimetica entrano nel drugstore. Qui gatta ci cova, comincio a pensare.
Arrivata a casa Kym incontra la sorella Rachel che, assieme a decine di altre persone, sta preparando il proprio matrimonio, da celebrare due giorni dopo.
La sera dell'anti-vigilia c'è una grande cena, presenti tutti gli amici invitati: ognuno si alza a turno per il proprio discorso di circostanza, sotto gli occhi di tutti i presenti e di... un paio di videocamere digitali amatoriali, che qualcuno fra i presenti sta usando per tentare di registrare i ricordi. Ho la mia illuminazione, e subito mi rendo conto che non ci voleva poi tanto a capirlo: Rachel getting married ha un'enunciazione mimetica degli home-movies, quei filmini da battesimo, comunione, cresima, o appunto matrimonio. Insomma, la macchina da presa (digitale) confonde volutamente il proprio punto di vista con quello delle videocamere digitali presenti nel profilmico. Semplice ma geniale. E anche quando le videocamere sono spente, la macchina da presa continua a girare, vuole registrare proprio tutto, tallonando Kym e gli altri protagonisti, incollata alle loro spalle e nuche, ai loro corpi. E la fotografia ce la mette tutta per creare una impressione di (finto) dilettantismo: i movimenti imprecisi che sembrano perdersi l'azione principale, quegli zoom quasi assurdi, e soprattutto tutti questi volti in un'unica inquadratura: non ci sono campi e controcampi nel film, i primi piani saranno meno di un 10% delle inquadrature, il resto è tutto questo abnorme sovraffollamento di facce nello stesso frame, cosa che tra l'altro rende impossibile per lo spettatore "controllare" la scena. Un vero e proprio disagio della visione, voluto per creare disorientamento e fastidio: un po' le stesse sensazioni che prova Kym nel tornare a casa. 
Ed ecco che la forma si fa sostanza, nel bellissimo film di Jonathan Demme. Kym si sente come in trappola, perché tutti vogliono in qualche modo "classificarla", controllarla, o etichettarla. Sistemarla in una porzione di realtà chiusa e immodificabile, nella quale Rachel non può fare altro che sentirsi prigioniera: il padre che vuole sempre sapere dove trovarla, la ragazza che all'inizio del film le dice di averla vista in una serie TV, il figurante che le dice di averla già incontrata, il tizio che la riconosce al salone di bellezza... Allo stesso modo Kym è in qualche modo prigioniera anche della macchina da presa, che se ha l'apparenza amichevole di una videocamera da filmino matrimoniale, in realtà è un tormento. Ecco forse il significato di quell'iniziale, e unica, interpellazione: Kym è cosciente di sè e della propria pesante situazione, e la guarda dritta negli occhi senza paura. Ma quello sguardo in macchina ha forse soprattutto un altro significato: Kym è l'unica che può rompere l'incantesimo della finzione, una finzione terribile e ipocrita che rifiuta di accettare la realtà di un passato terribile e di un presente pieno di rabbia e risentimento. Tutti fingono, tutti in qualche modo recitano una parte e rifiutano di accettare la consistenza dei loro sentimenti reciproci: Rachel (Rosemarie DeWitt, anche lei molto brava), il padre Paul (Bill Irwin), la madre Abby (Debra Winger, è bello rivederti). Kym invece, fin da quel primo sguardo in macchina, rompe l'incantesimo, spezza la finzione. E lo fa per il resto del film con la sua presenza, riportando a galla i conflitti mai sopiti e rimettendo i ricordi al centro dei discorsi...
Non posso raccontare oltre, per non togliere nulla al film che è davvero magnifico. E' un'opera amara, dal finale aperto, volutamente irrisolta, capace di creare grande disagio e tristezza nello spettatore, come soltanto la regìa del grande Jonathan Demme sa fare. Il copione, scritto da Jenny Lumet (figlia di Sidney), è perfetto, semplicemente; la colonna sonora bellissima e struggente, suonata e registrata sul momento, come del resto le scene della festa sono state girate in un unico weekend con persone, anche attori non professionisti, che davvero si erano incontrate in quella occasione per la prima volta; della fotografia geniale e degli attori bravissimi ho già detto più in alto. Auguro di riuscire a recuperare da qualche parte questo film, che ha avuto una pessima distribuzione, perché è veramente un piccolo capolavoro.
 

TG1 Speciale? Proprio per niente

Qualcuno ha visto Speciale TG1 domenica sera? No? Fatto bene. Perché era un'emerita stupidaggine. Anzi, era peggio, era pericoloso.

Il titolo era Noi, ragazzi di oggi, noi. Quindi l'argomento è chiaro, no? La degenerazione, generica, di quei personaggi che oggi hanno fra i 15 e i 20 anni, più o meno, e che vengono inesorabilmente etichettati con la parola giovani. A parte che io ho la mia opinione su cosa significhi essere giovani; non la espongo, perché sarebbe debordante e soprattutto immagino non importi a nessuno; mi limito a dire che non penso consista in semplici dati anagrafici. Qui però il termine giovani è usato nel senso in cui lo usano le malerazze del marketing: ovvero per semplificare, trasformare le persone in oggetti e di conseguenza in prodotti da vendere.
Cerco di spiegarmi. Cos'hanno fatto di male quelli dello Speciale, secondo me? Beh, prima di tutto hanno, appunto, semplificato. Hanno fornito un'immagine superficialissima dei suddetti 15-20enni, un'immagine che, ancor più grave, non è per nulla nuova: quasi tutti i giovani sono cattivi e crudeli, quasi tutti sono bulli, quasi tutti usano il telefonino e feisbuk per atti di esibizionismo che possono essere semplici scherzi o anche atti di violenza ai danni dei più deboli. Sono discotecari impasticcati, pipparoli e ladri occasionali. C'è lo psichiatra del caso, reclutato per dire che i giovani sono narcisisti. Ma va? Ci sono anche due signore dall'aria gentile e profonda, che raccontano dei genitori assenti, di quanto faccia schifo il mondo dei politici, di quanto gli esempi negativi siano sotto gli occhi di tutti, ecc. ecc. Insomma, semplificazione prima di tutto. 
Ma quelli dello Speciale (autori della puntata: Carlotta Angeloni, Marco Bariletti, Marco Clementi e Alessio Zucchini) hanno fatto anche peggio: hanno contribuito a "vendere" ai giovani un'immagine dei giovani stessi che non infastidisce, non crea problemi, e anzi induce all'imitazione. La puntata infatti ha tutte le caratteristiche dei programmi "per giovani": ritmo veloce, montaggio fatto di segmenti brevi e giustapposti, colonna sonora MTV-style, fugaci spezzoni di interviste anonime che possono irritare o stuzzicare, ma che sono in ogni caso fatte per non andare oltre la superficie. In questo modo, ed è solamente l'umilissima opinione di chi scrive, si contribuisce a diffondere il fenomeno "studiato", non a contrastarlo. Più fai vedere una cosa negativa senza spiegare bene che è negativa, più mi sembra facile che questa cosa si diffonda. 
Poi, alla fine del programma, ci sono un paio di esempi "virtuosi" buttati lì, con la solita tecnica odiosa dei servizi da telegiornale, come a dire: le cose vanno male, ma in fondo c'è sempre qualcuno che resiste, e questo è motivo di speranza. Speranza un cazzo, aggiungo io, perché l'immagine del musicista ventenne che non usa quasi mai internet o telefonino, e che è stato invitato a suonare all'insediamento del presidente Obama, non è - semplicemente - realistica: è un esempio irraggiungibile per la maggior parte dei giovani. Questa io la chiamo ipocrisia.
Insomma, il TG1 si è trasformato per una sera in un programma per "giovani"; ha fatto informazione cattiva, perché superficiale e altamente biased, distorta; ha venduto ai "giovani" una rappresentazione di loro stessi di tipo propagandistico, mostrando indiscriminatamente delle pratiche negative senza spiegare come si doveva che quelle pratiche sono sbagliate. Nello stesso tempo ha confermato nei non-giovani i pregiudizi e gli stereotipi sui "giovani", senza neppure farli sentire troppo in colpa. Non c'era un minimo di psicologia o sociologia seria in quel programma, nessuna spiegazione, soltanto spettacolarizzazione di comportamenti negativi. E spettacolarizzazione significa riconoscimento, accettazione, e infine ulteriore diffusione.
Allora una domanda la faccio io agli autori: secondo voi, la televisione che parte ha in tutto questo? In quello che succede a scuola, nei corridoi e nelle aule, nei cortili, nelle strade, dentro le case... Voi quanta colpa vi dareste?

martedì 3 febbraio 2009

Revolutionary Road

Revolutionary Road è il primo romanzo di Richard Yates, scrittore americano che in Italia è poco conosciuto ma in patria ha avuto influenza su gente come Raymond Carver e Richard Ford. Il film è molto bello, e straziante: la sceneggiatura di Justin Haythe è ottima, i protagonisti sono vivi, reali nella loro isteria e disperazione, immersi fino al collo in un male di vivere che non ha vie di fuga. Ed è il contrasto il tema principale di Revolutionary Road: contrasto fra sogno e realtà, fra marito e moglie, fra la superficie algida di esistenze perfettamente realizzate e il rovello implacabile nelle anime dei protagonisti, dolorosamente coscienti della propria ipocrisia e della propria cattività in un contesto sociale totalmente fasullo.
La regìa di Mendes mi fa tornare alla mente un suo bellissimo film di qualche anno fa, American Beauty: c'è la stessa atmosfera, una colonna sonora molto simile, una fotografia (di Roger Deakins, grande) tanto bella e luminosa quanto significativa nel nascondere la realtà delle cose, piena di oscuro dolore. Come in American Beauty, anche in Revolutionary Road l'apparenza è terribilmente opposta alla verità; oggi come allora il regista scava a fondo, impietosamente, nello spazio oscuro fra ciò che sembra e ciò che è.
La recitazione di Kate Winslet e Leonardo DiCaprio è ottima: sono perfetti per interpretare una coppia di outsiders nascosti, nevrotici e dalla doppia faccia. La Winslet è tanto addolorata e arrendevole da essere commovente, DiCaprio è pieno di rabbia e frustrazione, e sa sfiorare la follia; entrambi sono mirabilmente patetici. E c'è qualcosa di geniale nel loro essere di nuovo insieme dopo Titanic: se nel film di James Cameron i loro personaggi, giovani e ingenui, si imbarcavano per un viaggio dall'Europa all'America, pieni di desideri e speranze, il percorso che vorrebbero intraprendere Frank e April Wheeler in Revolutionary Road è esattamente l'inverso. Lasciare il suburbio da cartolina del Connecticut per farsi una nuova vita a Parigi, tornare ad essere giovani e spensierati anche a trent'anni e con due figli a carico. Insomma è come se Jack e Rose ci fossero arrivati insieme in America, e ora, dopo aver compreso quanto i loro sogni fossero soltanto illusioni, avessero deciso di tornare indietro.

giovedì 29 gennaio 2009

Milk

Gus Van Sant è un autore assai eclettico, e il suo movimento continuo fra temi, linguaggi e periodi storici è componente essenziale della sua grandezza. E' importante ricordare questo, specialmente dopo la visione di Milk: perché probabilmente sbaglia chi come me è rimasto deluso dall'impianto tradizionale di questo film. E' chiaro che negli ultimi anni Van Sant è diventato, a ragione, oggetto di una specie di culto: i capolavori che ha girato negli ultimi anni, Elephant, Last Days e Paranoid Park ne hanno fatto una specie di eroe dell'innovazione linguistica, nonché forse il più grande cantore del vuoto spirituale che caratterizza le giovani generazioni della società americana contemporanea. Si trattava di film folgoranti, dalla bellezza pari soltanto alla profondità degli abissi interiori che essi esploravano; ed è importante anche ricordare che in qualche modo i film citati facevano parte di un unico discorso, e di un'unica brama di sperimentare che ha raggiunto il suo orizzonte estremo proprio con l'ultimo Paranoid Park, film oltre il quale sarebbe stato impossibile spingersi.
Un periodo sembra essersi chiuso dunque; e Milk ha l'aria di un film "di transizione", anche se ha moltissimi meriti: si tratta innanzitutto di un'opera di taglio storico, che analizza efficacemente le discriminazioni e la violenza perpetrate dalla società statunitense del secondo Novecento nei confronti dei propri cittadini omosessuali. Un film assolutamente necessario dunque, che getta luce su momenti della Storia recente ben poco frequentati, se non altro dall'immaginario collettivo. L'eroe e protagonista della vicenda è Harvey Milk, primo politico americano dichiaratamente omosessuale, divenuto consigliere comunale a San Francisco nel 1977 e assassinato l'anno successivo. 

Van Sant si concentra sugli ultimi anni della vita di Milk, e tenta di approfondirne la personalità mostrandone anche i lati meno accattivanti (il personaggio sembra caratterizzato da una certa dose di cinismo e opportunismo): ciò è da un lato positivo nella misura in cui il regista rifiuta di darsi all'agiografia, ma risulta in qualche modo inefficace nel descrivere la figura del protagonista, che risulta alla fine un po' sfuocata. Milk è un film piuttosto freddo, in cui le emozioni lasciano il posto alle descrizioni - queste ultime talvolta un po' approssimative: è un buon lavoro, ben scritto e ben girato, ma lontano dal Gus Van Sant che amo di più.
Infine, il film non sarebbe riuscito così bene senza la recitazione straordinaria di Sean Penn, davvero magico; nel cast anche i bravi Josh Brolin e Emile Hirsch.

giovedì 22 gennaio 2009

Un giorno (quasi) perfetto in TV

Accadono cose strane ultimamente. Forse la principale responsabile è la mia paranoia, ben alimentata da un'esistenza trascorsa costantemente davanti allo schermo di qualcosa (pc, cellulare, televisore, cinema), e acuita da più di una settimana di permanenza forzata all'interno delle mie mura domestiche, per colpa della salute cagionevole.
Non lo auguro davvero a nessuno; e comunque, paranoia o meno, l'altro giorno mi è capitato di pensare che davanti alla TV ogni tanto si possa stare anche senza perdere del tutto il proprio tempo. Era il giorno dell'insediamento di Barack Obama, e alle sei ho acceso la RAI per sentire il discorso: sono andato prima sull'Uno, poi sul Due, e c'erano le puttanate tipiche di quella fascia oraria. Vergogna, ho pensato: una giornata storica, indipendentemente da cosa tutti pensino del nuovo presidente, e la "televisione di Stato" se ne frega. Perlomeno, la RAI mainstream; e infatti sul Tre le cose vanno diversamente: arrivo e c'è Giovanna Botteri (bravissima) che sta parlando da Washington e racconta quello che si vede e quello che si sente, non soltanto tramite l'udito, stando laggiù. Beh, oggi devo dire che invidio gli americani: non so cosa darei perchè nel mio Paese in decomposizione avvenisse qualcosa che avesse anche soltanto lontanamente la forza di ciò che è accaduto negli ultimi tempi agli Stati Uniti. Ed è proprio Storia in diretta quella che sto vedendo e ascoltando: il discorso di Obama, tradotto malissimo in simultanea ma del quale si intuiscono la solidità, la sobrietà e anche la forza; Dick Cheney in carrozzella, caduto nel suo appartamento mentre faceva le valigie; Bush e consorte accompagnati sul retro a prendere l'elicottero che finalmente, una volta per tutte, ci libera dalla loro presenza nella Capitale. Ascolto e guardo tutto, registro il momento, sento i bravi commentatori in studio (gente mai vista prima, una volta tanto); poi la diretta finisce, e vado a cena contento.
Ma non è tutto qui: perchè atterro per caso, io che odio guardare la TV mentre mangio e sono costretto a farlo tutti i giorni, su Rai2 dove stanno trasmettendo la prima puntata della seconda serie de L'ispettore Coliandro. Bè, è forte. Mi diverto. Bravi. Ci sono le parolacce in prima serata, ma non c'è volgarità; c'è una storia che fa ridere, e che è anche una narrazione ben fatta. Ci sono battute che non ti aspetti, personaggi originali, una Bologna abbastanza insolita (il personaggio è di Carlo Lucarelli). Insomma, la nuova serie dei Manetti bros (i mitici Manetti bros, quelli che 5 anni fa avevano provato, con quasi nessun altro, a creare i primi modelli di racconto audiovisivo per il web) è davvero accattivante. Complimenti.
E il gran finale della giornata catodica è sempre su Rai2, dove subito dopo va in onda il bellissimo Un paese chiamato Po, seconda puntata. La prima l'ho persa, non sapevo che avrebbero iniziato in Gennaio; aspettavo con ansia il programma, e non sono rimasto deluso. Non ci sono canoni, soltanto omaggi al passato, struggenti: a Mario Soldati e al suo Viaggio nella Valle del Po, mirabile prodotto dell'epoca d'oro della televisione italiana; a Ugo Tognazzi, che per me è semplicemente un eroe, qui anche in una gag irresistibile assieme a Celentano; a Novecento di Bernardo Bertolucci (mentre Giuseppe Bertolucci qui si occupa delle riprese, splendide), a Silvana Mangano e a De Santis. E credo che la bellezza visiva del lavoro debba qualcosa anche ai documentari di Gianni Celati, mai citati esplicitamente ma di cui si sente il respiro ampio e profondo. Il ritmo è però scoppiettante, e non ci sono schemi: semplicemente si racconta quel che si dovrebbe raccontare, ovvero l'insolito che si nasconde dietro la superficie solita delle cose, nella valle del grande fiume. A far da nocchiere c'è Edmondo Berselli, bravo, sincero, per nulla "televisivo": non fa il conduttore, è un po' narratore e un po' personaggio lui stesso fra gli altri personaggi... Insomma gente, è inutile che io stia qui tanto a menarla: guardate il programma, perchè è stupendo.

martedì 13 gennaio 2009

Come Dio comanda

Ancora Salvatores e Ammaniti insieme, dunque. Ma siamo lontani da Io non ho paura. In quel film, che rimane ad oggi uno fra i più belli del regista milanapoletano, c'erano una forza e una sincerità che qui mancano del tutto. Forse il romanzo di allora era migliore di quello di oggi (non ho letto Come Dio comanda), fatto sta che il lavoro di Salvatores appare sforzato, ingessato, faticoso. Gli riconosco, come del resto per Io non ho paura, una ricerca approfondita sui luoghi e gli ambienti: la scenografia e il paesaggio (che è quello del profondo Friuli) sono davvero inquietanti, e da soli trasmettono gran parte di quella cupa stranezza che è l'anima del film. La sceneggiatura è assai "compatta", non c'è respiro nell'agire dei personaggi - nel senso che essi non hanno alcuna prospettiva, vivono come rinchiusi all'interno delle loro case fredde e oscure o, appunto, di un cerchio di montagne malate, in un clima plumbeo e grigiastro davvero angosciante. E' un film che implode, mi viene da dire: si ripiega sempre più su se stesso, invece di aprirsi verso possibili vie di fuga; è come se il regista volesse raccontare una storia senza racconto. Anche i "tic" del montaggio, per la verità non proprio essenziali, hanno origine da questo rifiuto nei confronti dell'apertura narrativa.
E' un film riuscito a metà, Come Dio comanda: perchè se anche riesce a trasformare la forma in sostanza, non è in grado di affabulare lo spettatore. Potrebbe essere l'ennesimo esperimento di Salvatores, che notoriamente ama cambiare linguaggio quasi ad ogni film; ma qui
purtroppo manca l'anima.
Anche le prestazioni degli attori sono su questa linea: se è efficace la recitazione di Filippo Timi, troppo "da manuale" è quella di Elio Germano, mentre è abbastanza improbabile Fabio De Luigi; discreta e nulla più la performance del giovane protagonista Alvaro Caleca.

giovedì 8 gennaio 2009

Happy-Go-Lucky

Mettiamo subito in chiaro una cosa: Happy-Go-Lucky non è una commedia. E' un film bellissimo, scritto diretto e recitato alla grande, ma non è per niente "leggero". Anzi, ora che ci penso mi viene in mente che questo potrebbe essere il "positivo" di un altro film di Mike Leigh, lo splendido Naked, del 1993. I due lavori sembrano in effetti simmetrici: Poppy, la protagonista di Happy-Go-Lucky, è l'esatto opposto di Johnny, protagonista di Naked: pur avendo in comune un'ironia affilatissima e un sarcasmo bruciante, i due "utilizzano" le loro doti intellettuali per scopi totalmente divergenti. Se Poppy vuole amare gli altri, Johnny odia; Poppy vuole costruire, Johnny distruggere; lei vuole tentare di comprendere, lui soltanto condannare. Entrambi, in ogni caso, si scontrano con la realtà che li circonda.
Non è facile parlare a ragion veduta di questi film: si tratta di opere difficili e complesse, su cui tornare e ritornare. Io ora mi chiedo semplicemente: perché questa apparente simmetria, a distanza di 15 anni? Non credo che Leigh sia un autore ottimista, la sua visione delle cose è abbastanza cupa, e sicuramente piena di disincanto. Quindi immagino che, fra il furore distruttivo di Johnny e il carattere solare di Poppy, l'autore abbia una preferenza. Quel che davvero importa però, è che anche la stessa protagonista di Happy-Go-Lucky non è priva di ombre: ovvero, non è soltanto una persona buona e incompresa che riesce a vivere nonostante tutto in un mondo di indifferenza e cattiveria. Anche lei è in grado di fare del male, e di essere crudele. Anche lei è egocentrica, anche lei giudica; è un personaggio delizioso non perché risulta molto "simpatica", bensì proprio perché è assai "complicata".
Allora forse non si tratta di simmetria, per quanto riguarda il rapporto fra questo film e quello del 1993: in realtà entrambi i racconti hanno al proprio centro personaggi dalla natura assai particolare, che diventano notevoli e "diversi" a causa di alcune componenti eclatanti del loro carattere. E credo che la chiave non stia nei protagonisti, ma nel mondo intorno ad essi: ovvero, Leigh usa i personaggi principali in modo da raccontarci, per contrasto, come vivono coloro che li circondano. I protagonisti sono come delle lenti particolari attraverso cui osservare la realtà: e sempre con lo stesso risultato, ovvero la percezione di quanto essa sia misera e povera e deprimente. Quindi in fondo è inutile chiedersi perché esistano persone come Poppy, o il suo omologo nero Johnny: a Leigh non interessa tanto esplorare la loro interiorità (per quanto questi personaggi siano scritti e rappresentati in modo magistrale), quanto il loro contesto. Poppy è semplicemente "sopra la media", e da là può vedere meglio, per differenza, come vanno le cose a coloro che nella media ci sono fino al collo.
Un applauso a Mike Leigh dunque, sempre un maestro: già il copione è straordinario, scrivere un film del genere è cosa da pochi, anzi, da pochissimi; e la regìa è naturalmente all'altezza della situazione, forte come una roccia ma con la levità, questa sì, della commedia. E un applauso anche all'adorabile Sally Hawkins, davvero straordinaria: a 32 anni è già un'attrice con la maiuscola, di incredibile naturalezza e stupefacente gamma espressiva... Io la amo quella ragazza, anche se non si era capito.

Twilight

Della regista Catherine Hardwicke avevo visto qualche anno fa il lungometraggio d'esordio, Thirteen, un bel film sull'invincibile disagio esistenziale delle adolescenti americane. Sensibilità acuta, buon mestiere, belle interpretazioni: un buon lavoro insomma.

Per questo ho deciso di vedere Twilight: volevo capire se, oltre al materiale per i trailer, nel film ci fosse anche qualcosa d'altro. Dopo la visione non sono rimasto deluso soltanto perché in verità non mi aspettavo niente: e niente infatti c'è in Twilight di cui valga la pena parlare. Lo sguardo della Hardwicke nel suo primo film rimane un lontano ricordo: qui la regìa è semplice riciclaggio, a basso regime, di un approccio "alla pari" con l'adolescenza, ma alla fine rimane soltanto una grande superficialità, un'incapacità totale di spiegare o anche solo di rappresentare il mondo giovanile che è oggetto e soggetto del film. Naturalmente non stiamo parlando di un film con ambizioni sociologiche, è chiaro; ma visti i precedenti dell'autrice, qualcosa in tal senso era lecito aspettarselo, perlomeno. 
Quanto al resto, mah: il soggetto del film non sarebbe nemmeno da buttare, la storia d'amore fra i "diversi" non è niente di nuovo ma non c'è nulla di sbagliato nel fare un film fantasy su una ragazza che si innamora di un vampiro suo coetaneo. Purché il film sia ben fatto però: e questo non è proprio il caso. La prima parte si lascia anche guardare, ma la seconda è davvero un peso insopportabile. Verso la fine il film perde totalmente il controllo di se stesso, la sceneggiatura va a rotoli ed è proprio uno sforzo continuare a seguire la vicenda. Gli attori protagonisti più che recitare si fanno guardare: d'accordo, anche questo era prevedibile; ma se Twilight è un film romantico, vuol dire che io non conosco più il significato della parola "romantico". Devo essermi perso qualcosa... Meglio così.

Il matrimonio di Lorna

C'è poco da dire, la filmografia dei fratelli Dardenne è una delle vette del cinema contemporaneo. Naturalismo totale, recitazioni perfette, storie impareggiabili... Ma soprattutto è dalla loro una capacità di esplorazione dell'animo umano che è inarrivabile, unica. I loro film possiedono la forma della semplicità e la sostanza dell'insondabile. Anche questa volta, con Le silence de Lorna, i due autori-artigiani belgi hanno realizzato un'opera inesorabile, che costringe lo spettatore ad essere seguita dalla prima all'ultima inquadratura. La narrazione ha una forza straordinaria, e il suo potere ammaliante deriva, come sempre nel cinema dei Dardenne, dall'ellissi: è la reticenza sul passato dei personaggi, sulla loro identità o sui loro scopi, ad alimentare la tensione oscura che, fortissima, si percepisce dietro le poche battute di dialogo o i lunghi silenzi. Cinema dunque in cui il non detto conta assai più di quanto viene dichiarato; e nello stesso tempo il procedimento è apparentemente semplice: portare lo spettatore nel mezzo degli avvenimenti, farlo partecipare alla scena. E così la macchina da presa non è mai fissa, la luce è naturale, ci sono pochi tagli di montaggio, e via di seguito... Un'autorialità così forte, apparentemente senza stilemi. Un miracolo. Ma basta poco per accorgersi inequivocabilmente che si sta vedendo un film di Jean-Pierre e Luc Dardenne: perché il tema del lavoro, della dignità salvifica che da esso proviene, è un'altra costante del loro cinema. Così come l'attenzione agli emarginati, a chi vive ai confini di ciò che viene chiamato "società": a queste persone i due cineasti dedicano sempre il proprio cuore, facendone ritratti indimenticabili, profondi e sinceri. E' uno sguardo pieno di onestà e pietà, oggi rarissimo, e quindi tanto più necessario e prezioso.