venerdì 27 febbraio 2009

Qualcuno con cui correre

Mishehu Larutz Ito è il titolo originale di questo bel film israeliano, uscito nel 2006 ma arrivato in Italia soltanto alla fine dello scorso anno. Tratto dal romanzo omonimo di David Grossman (che appare per pochi secondi a metà del film), girato in digitale da Oded Davidoff, il film racconta di un inseguimento nella Gerusalemme dei nostri giorni. Due sono le linee narrative, due i protagonisti; ottimo il racconto, avvincente e trascinante: si comincia con una telefonata nel cuore della notte, e da lì gli elementi misteriosi si moltiplicheranno, tenendo lo spettatore ben avvinto alla storia. 

Altri grandi elementi di interesse nel film sono i luoghi e i volti: fra questi ultimi spicca per bravura e bellezza quello della giovane protagonista Bar Belfer; fra i primi, una Gerusalemme insolita, lontana dagli stereotipi televisivi sulla guerra e la violenza. Una città contemporanea, viva e pulsante, in cui attecchisce, com'è ovvio, anche la delinquenza, in questo caso legata al traffico di droga. Il film è insomma una ricognizione non superficiale di un Israele contemporaneo assai lontano da come appare nelle arene della comunicazione di massa; e il sottomondo della gioventù sfruttata viene mostrato con sguardo non "documentaristico", ma delicato e crudo allo stesso tempo; intanto si assapora la vita quotidiana di un Paese per una volta lontano dalla guerra, in cui gli abitanti possono dedicarsi ciascuno alla propria personale ricerca della felicità, anche - e forse soprattutto - sbagliando strada. Neorealismo quasi magico, pieno di tenerezza e di luce.

Il curioso caso di Benjamin Button

Non è un capolavoro l'ultimo film di David Fincher; è un grande racconto, a volte un po' patetico, altre un po' superficiale, ma quasi sempre efficace. Per una storia come questa (il soggetto è tratto dall'omonima short-story di Francis Scott Fitzgerald, The curious case of Benjamin Button, ma il film se ne discosta quasi completamente), con molti aspetti morbosi e abnormi, Fincher mi sembra il regista ideale. In effetti il suo stile, che è assai riconoscibile, si percepisce chiaramente anche in questo lavoro, per quanto esso sia totalmente diverso dai film precedenti del regista di Denver. E' il suo gusto per il cupo, l'inesorabile, e soprattutto il "deforme" ad avvicinare quest'opera alle altre; come nel penultimo Zodiac, anche in Benjamin Button si percepisce una profonda malinconia, risultante secondo me da due fattori: la percezione del proprio destino avverso da parte dei protagonisti e la totale impossibilità di evitare questo destino. E' la tristezza, forse, la cifra non solo di questo film ma di tutta l'opera di David Fincher.

Onesta e niente più la recitazione di Brad Pitt, attore feticcio di Fincher (questo è il loro terzo film insieme, dopo i cult Seven e Fight Club); Cate Blanchett come sempre è senza difetti, e la sua presenza arricchisce parecchio il film; fa piacere poi ritrovare Julia Ormond, in un ruolo marginale ma ben tenuto (la Ormond secondo me è un'attrice grandissima, dal potenziale ancora in gran parte inutilizzato). Eric Roth, grande sceneggiatore hollywoodiano, autore di tanti bei film e specialista sulle lunghe durate (The Insider, Ali, Munich, The Good Shepherd e altri ancora) fa molto bene il suo mestiere anche stavolta, e non era per niente facile; bella la scelta di associare il concetto del "tempo rovesciato" al disastro dell'uragano Katrina a New Orleans (un momento della Storia americana in cui il mondo è andato a rovescio, in effetti). Lode infine alla fotografia, di Claudio Miranda.

giovedì 26 febbraio 2009

The Reader

E' un bel film, The Reader. Pieno di dolore, ma vale davvero la pena di vederlo. E' un film europeo in fondo, anche se il tocco statunitense dei fratelli Weinstein si fa evidente in alcuni momenti forse un po' troppo patetici. Ma non c'è superficialità, mai. Ci sono domande invece, e dubbi, e rovelli; la sceneggiatura non è originale (il film è tratto dal romanzo omonimo di Bernhard Schlink) mentre i personaggi sono ben delineati e assai credibili, nonostante gli "eccessi" emotivi del soggetto; che è in ogni caso ottimo, avvincente, un dramma puro e inesorabile, senza redenzione o riparazione nel finale. Le forze in gioco sono la morale e la Storia, l'amore e la pietà; ma non ci sono parti da prendere, nè più o meno buoni e più o meno cattivi. Semplicemente il giudizio c'è, ma va sospeso, deve rimanere tale, per una questione di pura umanità. The Reader insomma costringe a interrogarsi duramente ma impedisce di darsi una risposta, ed è questo forse il suo merito maggiore. Complimenti a tutti comunque: a Stephen Daldry, regista inglese molto bravo (ha diretto l'indimenticabile The Hours); alla sceneggiatura di David Hare (che anche di The Hours fu sceneggiatore); alla fotografia di Roger Deakins e Chris Menges; al sempre splendente Bruno Ganz; a Kate Winslet e Ralph Fiennes, attori 100% UK molto amati dal sottoscritto e da altri milioni di persone in tutto il mondo, istrioni eccezionali, fra i migliori commedianti oggi sulla faccia della Terra, anche se qui le loro interpretazioni sono, appunto, dolenti come non mai (io avrei preferito che Kate vincesse l'Oscar per Revolutionary Road, in quel film è ancora più brava; ma l'establishment non è mai stato molto rivoluzionario, e il film di Mendes fa troppo male all'America per poter ricevere dei premi americani). Il film è infine l'ultima produzione, postuma, di Anthony Minghella e Sydney Pollack.

Rachel sta per sposarsi

C'è un fugace, istantaneo sguardo in macchina di Kym (Anne Hathaway, brava davvero) nei primissimi fotogrammi di Rachel getting married. E' quasi nulla, ma è sempre un'interpellazione: abbastanza per suscitare un sospetto. Intanto il film comincia, con la sua macchina da presa digitale sempre in movimento, sbilenca, traballante e dallo sguardo sghembo; in più di un'occasione usa lo zoom, e la cosa ha quasi dell'incredibile fuori da un film Dogma... E qui nasce il secondo sospetto.

Kym riabbraccia i suoi, sta tornando a casa dopo un lungo periodo di disintossicazione, lungo il tragitto si ferma in un bar e la ragazza alla cassa le chiede entusiasta: "Scusa, non ti ho già vista in Cops?" mentre due marines in tuta mimetica entrano nel drugstore. Qui gatta ci cova, comincio a pensare.
Arrivata a casa Kym incontra la sorella Rachel che, assieme a decine di altre persone, sta preparando il proprio matrimonio, da celebrare due giorni dopo.
La sera dell'anti-vigilia c'è una grande cena, presenti tutti gli amici invitati: ognuno si alza a turno per il proprio discorso di circostanza, sotto gli occhi di tutti i presenti e di... un paio di videocamere digitali amatoriali, che qualcuno fra i presenti sta usando per tentare di registrare i ricordi. Ho la mia illuminazione, e subito mi rendo conto che non ci voleva poi tanto a capirlo: Rachel getting married ha un'enunciazione mimetica degli home-movies, quei filmini da battesimo, comunione, cresima, o appunto matrimonio. Insomma, la macchina da presa (digitale) confonde volutamente il proprio punto di vista con quello delle videocamere digitali presenti nel profilmico. Semplice ma geniale. E anche quando le videocamere sono spente, la macchina da presa continua a girare, vuole registrare proprio tutto, tallonando Kym e gli altri protagonisti, incollata alle loro spalle e nuche, ai loro corpi. E la fotografia ce la mette tutta per creare una impressione di (finto) dilettantismo: i movimenti imprecisi che sembrano perdersi l'azione principale, quegli zoom quasi assurdi, e soprattutto tutti questi volti in un'unica inquadratura: non ci sono campi e controcampi nel film, i primi piani saranno meno di un 10% delle inquadrature, il resto è tutto questo abnorme sovraffollamento di facce nello stesso frame, cosa che tra l'altro rende impossibile per lo spettatore "controllare" la scena. Un vero e proprio disagio della visione, voluto per creare disorientamento e fastidio: un po' le stesse sensazioni che prova Kym nel tornare a casa. 
Ed ecco che la forma si fa sostanza, nel bellissimo film di Jonathan Demme. Kym si sente come in trappola, perché tutti vogliono in qualche modo "classificarla", controllarla, o etichettarla. Sistemarla in una porzione di realtà chiusa e immodificabile, nella quale Rachel non può fare altro che sentirsi prigioniera: il padre che vuole sempre sapere dove trovarla, la ragazza che all'inizio del film le dice di averla vista in una serie TV, il figurante che le dice di averla già incontrata, il tizio che la riconosce al salone di bellezza... Allo stesso modo Kym è in qualche modo prigioniera anche della macchina da presa, che se ha l'apparenza amichevole di una videocamera da filmino matrimoniale, in realtà è un tormento. Ecco forse il significato di quell'iniziale, e unica, interpellazione: Kym è cosciente di sè e della propria pesante situazione, e la guarda dritta negli occhi senza paura. Ma quello sguardo in macchina ha forse soprattutto un altro significato: Kym è l'unica che può rompere l'incantesimo della finzione, una finzione terribile e ipocrita che rifiuta di accettare la realtà di un passato terribile e di un presente pieno di rabbia e risentimento. Tutti fingono, tutti in qualche modo recitano una parte e rifiutano di accettare la consistenza dei loro sentimenti reciproci: Rachel (Rosemarie DeWitt, anche lei molto brava), il padre Paul (Bill Irwin), la madre Abby (Debra Winger, è bello rivederti). Kym invece, fin da quel primo sguardo in macchina, rompe l'incantesimo, spezza la finzione. E lo fa per il resto del film con la sua presenza, riportando a galla i conflitti mai sopiti e rimettendo i ricordi al centro dei discorsi...
Non posso raccontare oltre, per non togliere nulla al film che è davvero magnifico. E' un'opera amara, dal finale aperto, volutamente irrisolta, capace di creare grande disagio e tristezza nello spettatore, come soltanto la regìa del grande Jonathan Demme sa fare. Il copione, scritto da Jenny Lumet (figlia di Sidney), è perfetto, semplicemente; la colonna sonora bellissima e struggente, suonata e registrata sul momento, come del resto le scene della festa sono state girate in un unico weekend con persone, anche attori non professionisti, che davvero si erano incontrate in quella occasione per la prima volta; della fotografia geniale e degli attori bravissimi ho già detto più in alto. Auguro di riuscire a recuperare da qualche parte questo film, che ha avuto una pessima distribuzione, perché è veramente un piccolo capolavoro.
 

TG1 Speciale? Proprio per niente

Qualcuno ha visto Speciale TG1 domenica sera? No? Fatto bene. Perché era un'emerita stupidaggine. Anzi, era peggio, era pericoloso.

Il titolo era Noi, ragazzi di oggi, noi. Quindi l'argomento è chiaro, no? La degenerazione, generica, di quei personaggi che oggi hanno fra i 15 e i 20 anni, più o meno, e che vengono inesorabilmente etichettati con la parola giovani. A parte che io ho la mia opinione su cosa significhi essere giovani; non la espongo, perché sarebbe debordante e soprattutto immagino non importi a nessuno; mi limito a dire che non penso consista in semplici dati anagrafici. Qui però il termine giovani è usato nel senso in cui lo usano le malerazze del marketing: ovvero per semplificare, trasformare le persone in oggetti e di conseguenza in prodotti da vendere.
Cerco di spiegarmi. Cos'hanno fatto di male quelli dello Speciale, secondo me? Beh, prima di tutto hanno, appunto, semplificato. Hanno fornito un'immagine superficialissima dei suddetti 15-20enni, un'immagine che, ancor più grave, non è per nulla nuova: quasi tutti i giovani sono cattivi e crudeli, quasi tutti sono bulli, quasi tutti usano il telefonino e feisbuk per atti di esibizionismo che possono essere semplici scherzi o anche atti di violenza ai danni dei più deboli. Sono discotecari impasticcati, pipparoli e ladri occasionali. C'è lo psichiatra del caso, reclutato per dire che i giovani sono narcisisti. Ma va? Ci sono anche due signore dall'aria gentile e profonda, che raccontano dei genitori assenti, di quanto faccia schifo il mondo dei politici, di quanto gli esempi negativi siano sotto gli occhi di tutti, ecc. ecc. Insomma, semplificazione prima di tutto. 
Ma quelli dello Speciale (autori della puntata: Carlotta Angeloni, Marco Bariletti, Marco Clementi e Alessio Zucchini) hanno fatto anche peggio: hanno contribuito a "vendere" ai giovani un'immagine dei giovani stessi che non infastidisce, non crea problemi, e anzi induce all'imitazione. La puntata infatti ha tutte le caratteristiche dei programmi "per giovani": ritmo veloce, montaggio fatto di segmenti brevi e giustapposti, colonna sonora MTV-style, fugaci spezzoni di interviste anonime che possono irritare o stuzzicare, ma che sono in ogni caso fatte per non andare oltre la superficie. In questo modo, ed è solamente l'umilissima opinione di chi scrive, si contribuisce a diffondere il fenomeno "studiato", non a contrastarlo. Più fai vedere una cosa negativa senza spiegare bene che è negativa, più mi sembra facile che questa cosa si diffonda. 
Poi, alla fine del programma, ci sono un paio di esempi "virtuosi" buttati lì, con la solita tecnica odiosa dei servizi da telegiornale, come a dire: le cose vanno male, ma in fondo c'è sempre qualcuno che resiste, e questo è motivo di speranza. Speranza un cazzo, aggiungo io, perché l'immagine del musicista ventenne che non usa quasi mai internet o telefonino, e che è stato invitato a suonare all'insediamento del presidente Obama, non è - semplicemente - realistica: è un esempio irraggiungibile per la maggior parte dei giovani. Questa io la chiamo ipocrisia.
Insomma, il TG1 si è trasformato per una sera in un programma per "giovani"; ha fatto informazione cattiva, perché superficiale e altamente biased, distorta; ha venduto ai "giovani" una rappresentazione di loro stessi di tipo propagandistico, mostrando indiscriminatamente delle pratiche negative senza spiegare come si doveva che quelle pratiche sono sbagliate. Nello stesso tempo ha confermato nei non-giovani i pregiudizi e gli stereotipi sui "giovani", senza neppure farli sentire troppo in colpa. Non c'era un minimo di psicologia o sociologia seria in quel programma, nessuna spiegazione, soltanto spettacolarizzazione di comportamenti negativi. E spettacolarizzazione significa riconoscimento, accettazione, e infine ulteriore diffusione.
Allora una domanda la faccio io agli autori: secondo voi, la televisione che parte ha in tutto questo? In quello che succede a scuola, nei corridoi e nelle aule, nei cortili, nelle strade, dentro le case... Voi quanta colpa vi dareste?

martedì 3 febbraio 2009

Revolutionary Road

Revolutionary Road è il primo romanzo di Richard Yates, scrittore americano che in Italia è poco conosciuto ma in patria ha avuto influenza su gente come Raymond Carver e Richard Ford. Il film è molto bello, e straziante: la sceneggiatura di Justin Haythe è ottima, i protagonisti sono vivi, reali nella loro isteria e disperazione, immersi fino al collo in un male di vivere che non ha vie di fuga. Ed è il contrasto il tema principale di Revolutionary Road: contrasto fra sogno e realtà, fra marito e moglie, fra la superficie algida di esistenze perfettamente realizzate e il rovello implacabile nelle anime dei protagonisti, dolorosamente coscienti della propria ipocrisia e della propria cattività in un contesto sociale totalmente fasullo.
La regìa di Mendes mi fa tornare alla mente un suo bellissimo film di qualche anno fa, American Beauty: c'è la stessa atmosfera, una colonna sonora molto simile, una fotografia (di Roger Deakins, grande) tanto bella e luminosa quanto significativa nel nascondere la realtà delle cose, piena di oscuro dolore. Come in American Beauty, anche in Revolutionary Road l'apparenza è terribilmente opposta alla verità; oggi come allora il regista scava a fondo, impietosamente, nello spazio oscuro fra ciò che sembra e ciò che è.
La recitazione di Kate Winslet e Leonardo DiCaprio è ottima: sono perfetti per interpretare una coppia di outsiders nascosti, nevrotici e dalla doppia faccia. La Winslet è tanto addolorata e arrendevole da essere commovente, DiCaprio è pieno di rabbia e frustrazione, e sa sfiorare la follia; entrambi sono mirabilmente patetici. E c'è qualcosa di geniale nel loro essere di nuovo insieme dopo Titanic: se nel film di James Cameron i loro personaggi, giovani e ingenui, si imbarcavano per un viaggio dall'Europa all'America, pieni di desideri e speranze, il percorso che vorrebbero intraprendere Frank e April Wheeler in Revolutionary Road è esattamente l'inverso. Lasciare il suburbio da cartolina del Connecticut per farsi una nuova vita a Parigi, tornare ad essere giovani e spensierati anche a trent'anni e con due figli a carico. Insomma è come se Jack e Rose ci fossero arrivati insieme in America, e ora, dopo aver compreso quanto i loro sogni fossero soltanto illusioni, avessero deciso di tornare indietro.