venerdì 3 luglio 2009

Vincere

Vincere è dominato dal tema del doppio: un rispecchiamento soprattutto, che però è anche deformazione. Il film è diviso in due già cronologicamente; la giovinezza del rapporto fra Ida Dalser (Giovanna Mezzogiorno, brava e intensa come mai prima d’ora) e Benito Mussolini (Filippo Timi, anch’egli ottimo), e l’età della separazione e della solitudine. Stilisticamente, la prima parte ha un andamento quasi onirico, e rispecchia la malìa che Mussolini esercita su Ida: fascinazione, irrazionalità, innamoramento, e la fotografia oscura e opaca e fumosa di Daniele Ciprì, spesso virata in blu, è assai efficace nel rappresentare la magìa cattiva che il futuro dittatore esercita sulla protagonista. Nella seconda parte, quando Ida viene abbandonata e poi internata in manicomio, lo sguardo del film (e parimenti della sua protagonista) diviene più lucido, le immagini sono più nitide ma anche meno sature. Tutto è più neutro, tendente al grigio.

C’è il poi il contrasto fra la città, Milano (il film è in realtà girato a Torino) e la provincia (Trento), e quello fra le due famiglie di Mussolini (Ida Dalser da una parte, Rachele Guidi dall’altra); ma soprattutto l’utilizzo frequente di immagini di repertorio del vero Mussolini costituisce un ulteriore dispositivo per la creazione di opposti: l’immagine “reale” del Duce, prima finzione nella realtà del Ventennio, viene a sua volta innestata nella finzione del film di Bellocchio (basato su vicende non del tutto appurate ma frutto di indagine storica, si veda http://it.wikipedia.org/wiki/Ida_Dalser) e contrapposta all’immagine di Benito Albino (sempre Filippo Timi) a sua volta immagine del padre da giovane (Timi)…

Ecco la genialità della scissione di Timi nel doppio ruolo di padre e di figlio: così il figlio diventa lo specchio del padre, il suo doppio deformato nell’imitazione prima e nella follia poi. E anche l’interpretazione di Mussolini padre è improntata all’iperbole e alla deformazione, all’imitazione derisoria e impietosa del Mussolini “ufficiale” e della mitologia che il dittatore aveva creato attorno alla propria figura. Perfino la permanenza di Ida nei vari istituti psichiatrici in cui è stata rinchiusa diventa un simbolo: la donna è effettivamente l’unica a sapere la verità su Mussolini e sul figlio nascosto, mentre tutti intorno a lei continuano a negare la realtà e a crederla pazza. Lei, orgogliosamente lucida, è fra le pochissime persone che conoscono personalmente Mussolini: questo la mette anche nella condizione di comprendere la natura stessa del fascismo, e ad essere quindi in contrapposizione con il suo sistema di terribili apparenze. La follia ha contagiato ormai l’intero Paese e Ida, fra le poche persone lucide e coscienti, è internata in manicomio.

Insomma, è difficile uscire dal labirinto di specchi di Vincere; ma tutto sembra far pensare che il vero oggetto del film di Bellocchio non sia la storia personale di Ida Dalser e di Benito Albino Mussolini, né l’orribile infamia compiuta dal dittatore nei confronti della propria famiglia biologica: la storia “piccola” e personale di queste persone simboleggia la Storia “grande” e miserabile di una famiglia più grande, l’intera popolazione italiana, caduta nel folle incantesimo ammaliatore di Mussolini, ingannata e poi tradita e lasciata morire proprio come Ida e Albino. E tutto questo attraverso la doppiezza della figura di Mussolini e di tutto il fascismo: un’immensa e terribile mistificazione, una micidiale apparenza sul fondo della quale si trovano soltanto follia e morte.

Vincere è un bellissimo film, simbolico e colmo di umanità al tempo stesso: miracolo al quale Marco Bellocchio, il più grande regista italiano in circolazione, ci ha oramai abituati; eppure dopo ogni suo film ancora si esce dalla sala cinematografica come sopraffatti: dalla bellezza sontuosa delle sue immagini come dalla forza annichilente dei sentimenti e delle emozioni raccontate, delle quali non è possibile liberarsi: proprio come in un incantesimo.