lunedì 16 marzo 2009

Giulia non esce la sera

Splendido e commovente il nuovo film di Giuseppe Piccioni. Lo rivedrei ora, domani e dopodomani, e avrebbe sempre qualcosa di nuovo da dirmi. Il tema è semplice e intrattabile allo stesso tempo: il modo in cui le persone stanno nel mondo. E' uno sguardo senza giudizi quello di Piccioni, anzi; è pieno di una cosa quasi impossibile da trovare al giorno d'oggi, ovvero l'amore per le persone suddette. Chiunque siano, ognuno ha la sua storia, nessuno è da buttare o da condannare. Sembrano ovvietà scritte da me, ma andate al cinema a vedere questo film bellissimo e vi accorgerete che non c'è niente di ovvio in esso: Giulia non esce la sera ha il dono magico di aderire alla vita così com'è, con i suoi punti morti, le piccole deviazioni che cambiano un'intera esistenza, le delusioni continue, il cercare qualcosa che forse non esiste nemmeno. Eppure è un racconto perfetto, dal quale non ci si può staccare neppure un attimo.

Che storia, e che protagonisti: tutto è così insolito, arioso, aperto... Da quanto tempo non si vedeva un film del genere, lieve ma profondissimo, così distante dal "dover parlare di qualcosa" nostrano, dal cosiddetto cinema impegnato, dalla morale, dalle brutture varie ed eventuali di questo Paese... Non si soffoca, per una volta si respira invece; in un grande film italiano che potrebbe essere di ovunque, lontano anni luce dalla provincia mentale di tanti altri autori del nostro cinema, bravi fin che vogliamo.
Giulia non esce la sera è la storia di due prigionieri che fanno un pezzo di strada assieme, senza farsi illusioni. Eppure uno vive dei propri romanzi, l'altra delle proprie passioni: proprio per questo forse entrambi sono lontani dalla pienezza della vita. Ognuno seguendo le proprie inclinazioni, i due crederanno (o fingeranno) di trovare quella pienezza l'uno nell'altra... Chissà se non sarà invano. Piccioni ci ricorda magnificamente come non possa darsi esistenza senza finzione e senza recita, ma neppure senza passione: a queste condizioni si può anche perdere tutto, ma diversamente non si potrà dire di avere - sia pure per un breve momento - vissuto.
Dal punto di vista "tecnico" il film è tutto da ammirare, cominciando dalle recitazioni. Non ho mai visto, ad esempio, un Valerio Mastandrea (che pure è un attore vero e completo) così bravo, misurato e dolente: direi che questa è ad oggi la sua interpretazione migliore. Valeria Golino, che di solito non mi entusiasma, qui ha un'intensità mai vista, e nello stesso tempo il pieno controllo dei propri mezzi espressivi; buona anche la prova di Sonia Bergamasco, sempre un po' sopra le righe ma qui assai credibile. Se poi vogliamo parlare della bellissima colonna sonora dei Baustelle, o della fotografia di Luca Bigazzi, impeccabile come d'abitudine... Inutile continuare; dovete vedere il film, se ancora vi volete un po' di bene.

martedì 10 marzo 2009

The Millionaire

Bel colpo, Danny. Slumdog Millionaire è un film totalmente indovinato, senza per questo essere soltanto un ottimo "prodotto". Che sia un film tecnicamente ineccepibile e destinato a fare un sacco di soldi lo hanno riconosciuto gli 8 oscar assegnati: film, regìa, sceneggiatura non originale, montaggio, fotografia (Anthony Dod Mantle), suono, colonna sonora, canzone originale. Tutti questi premi sono meritati, non c'è dubbio; ma sono anche, come sempre avviene per gli Academy Awards, ulteriore propellente per il successo economico della pellicola. Se poi ultimamente l'Academy premia anche film davvero belli, come questo o come l'inarrivabile No Country For Old Men l'anno scorso, ciò può voler dire molte cose, incluso forse il fatto che gusti e aspettative degli spettatori riguardo al cinema americano abbiano fatto un salto di qualità; ma è un discorso che non mi interessa più di tanto.

Tornando al film, il marchio autoriale di Boyle si riconosce chiaramente: nella violenza, nel cinismo esasperato, nella volontà costante di colpire lo spettatore, disgustandolo o mettendo in evidenza i lati più oscuri della natura umana. Su questo punto il film conferma la visione nichilista dell'autore scozzese, anche se si potrebbe obiettare che Boyle abbia perso un po' di mordente rispetto a Piccoli omicidi fra amici, Trainspotting o The Beach; in realtà Slumdog Millionaire prosegue e completa il discorso iniziato con i film precedenti. Nelle opere citate è presente in misura minore o maggiore il tema dell'apparenza, e dell'inganno che la società di massa mette in atto nei confronti dell'individuo: il pop, la cultura della comunicazione globalizzata, sono risponsabili dei miraggi che i protagonisti dei film di Boyle inseguono ad ogni costo, pronti a commettere le peggiori nefandezze per soddisfare i bisogni indotti dall'immaginario collettivo contemporaneo (si tratti di droga, ricchezza facile, celebrità, successo, fuga). In quest'ultimo film, l'inganno finale e definitivo è quello dell'amore, dell'happy ending ad ogni costo. Non a caso il film si chiude con una surreale scena da musical, sui binari di una stazione ferroviaria, e con la didascalia "It is written" che simula la risposta esatta di una domanda iniziale in stile, appunto, "Chi vuol essere milionario". Per questo film, Boyle ha scelto gli elementi peculiari dell'immaginario odierno, elementi irrimediabilmente pop, e li ha mixati alla perfezione: i quiz alla tv, il guadagno facile, l'individualismo esasperato, la ricerca forsennata dell'amore, il terzo mondo che diventa primo... Ed è andato a girare il film a Bollywood (a quattro mani con Loveleen Tandan), che rappresenta la forza del nuovo mondo emergente ma anche un punto nevralgico di creazione dell'immaginario a livello mondiale. E chissà quante citazioni di film bollywoodiani ci sono in Slumdog Millionaire... Insomma, nonostante l'apparenza naturalistica che lo caratterizza per quasi tutta la sua durata, il film è finzione che parla di finzione, non di realtà. E' un film che dice tutto sul nostro tempo, proprio perché nel nostro tempo la finzione e l'apparenza hanno ormai ingoiato la realtà; e questo è forse il più duro pugno nello stomaco che abbiamo mai ricevuto da parte di Danny Boyle.

mercoledì 4 marzo 2009

Appaloosa

Ed Harris e Viggo Mortensen recitano insieme, in un film diretto dallo stesso Harris. Ovvero, due dei miei attori preferiti - uno dei quali è anche un bravo regista - in un western. C'era da sperare molto bene, perlomeno in termini di divertimento; e invece Appaloosa mi ha lasciato freddo. Non sono deluso, ma non mi sono nemmeno divertito molto a vederlo. Adesso che ci penso, però, non mi sembra che si tratti di un incidente. In altre parole, se un film può fare dei piani, credo che quello di Appaloosa sia non divertire.

Ed Harris, lo ripeto, è un bravo regista; ho anche il sospetto che non gliene freghi assolutamente niente dei soldi o del successo. Questo è il suo secondo film come autore (ha anche scritto la sceneggiatura, assieme a Robert Knott, adattamento di un romanzo di Robert Parker) dopo il bellissimo Pollock che risale al 2000. Ma Harris è prima di tutto un attore; quando e se ha voglia di fare l'autore lo fa (bene), altrimenti no: già questo potrebbe far venire il sospetto che il film non aspiri a essere un blockbuster.
Appaloosa è effettivamente un'opera gelida e anti-spettacolare. Le ambientazioni e i costumi sono stilemi western, ma gli elementi canonici del genere si fermano lì. Guardate le sparatorie e i duelli: non c'è un minimo di tensione in essi, nessuna suspence. Semplicemente qualcuno ammazza qualcun altro, e nemmeno di sorpresa. Ci sono questi due protagonisti beckettiani che vivono in simbiosi "professionale" da anni, pur dialogando soltanto il minimo indispensabile, ma che alla fine si separeranno all'improvviso senza battere ciglio. La recitazione di Harris, Mortensen, Renée Zellweger e Jeremy Irons è forzatamente inespressiva, senza alcun pathos. I paesaggi, di solito un punto di forza del genere western, non sono grandiosi, ma squallidi e desolati... Potrei andare avanti ancora con segni e dettagli, ma ce n'è abbastanza per sospettare che Appaloosa sia in realtà un ritratto della desolazione nelle relazioni umane: i sentimenti, in altre parole, non sono nient'altro che un peso, un problema. Meglio non averne, essere cavalieri solitari, piuttosto che andarsi a impelagare nell'amicizia o nell'amore, che sono peggio delle sabbie mobili: quando uno ci crede, rimarrà per forza scornato e abbattuto, deluso, truffato, in sostanza perderà sempre qualcosa. E così la forma fredda e apparentemente squallida del film è in realtà lo specchio perfetto della sua sostanza. Per forza, dunque, è un film che lascia freddi; quello che conta è che in realtà Appaloosa è un bel film, e Ed Harris è sempre un grande.

lunedì 2 marzo 2009

Frost/Nixon

Bello e avvincente l'ultimo lavoro di Ron Howard, metà artigiano metà "grande firma" dell'industria hollywoodiana. Non conosco a fondo la sua filmografia, ma quel che ho visto mi ha sempre colpito e lasciato qualcosa a cui pensare: Apollo 13, Ransom, l'indimenticabile A Beautiful Mind, Cinderella man. Grandi spettacoli, tecnicamente ineccepibili, gioiosamente mainstream. Eppure in questi film si può trovare di volta in volta un grande approfondimento psicologico, una scelta narrativa insolita, un'amorevole filologia nella ricostruzione d'epoca; soprattutto, una messa in questione dell'ideologia dominante, del sogno americano in buona sostanza: Howard, dal centro esatto del sistema produttivo, si ostina a cercare di essere autore, e soprattutto a mostrare le stonature - spesso tragiche - che caratterizzano la società e la storia del suo Paese (tra l'altro il regista ama molto portare al cinema episodi realmente accaduti, "storie vere").

Quest'ultimo Frost/Nixon, molto bello, prosegue in pienezza il percorso tracciato dall'autore con i film citati: è un lavoro tecnicamente impeccabile, avvincente e ritmato; il soggetto è dato dalla famosa intervista del giornalista britannico David Frost a Richard Nixon, nel 1977; Peter Morgan ne trasse tre anni fa un'opera teatrale, interpretata da Frank Langella e Michael Sheen, e gli stessi Morgan, Langella e Sheen si ritrovano nel film rispettivamente come sceneggiatore e protagonisti. Il copione naturalmente funziona a meraviglia, e i due attori sono bravissimi, specialmente Langella nel ruolo di "Tricky Dick". 
Ma Howard, come dicevo, non si accontenta del grande spettacolo. Il suo film non è per niente consolatorio, anzi: c'è una profonda amarezza nel film, e una specie di stanca sfiducia verso tutto e tutti si percepisce fin dalle prime scene. Lo scontro fra l'ex presidente americano e il giornalista inglese, da subito, appare l'esatto opposto di una sfida fra il bene e il male: nessuno infatti si salverà dal punto di vista morale. Nixon, ben cosciente delle proprie malefatte, cerca nell'intervista soltanto l'ultima possibilità di salvare la faccia; mentre Frost, lungi dall'essere un paladino della giustizia o dell'etica, agisce soltanto per il successo personale. D'altronde, direte voi, perché dovrebbe essere diversamente? A questa gente si chiede di essere dei bravi professionisti, di fare bene il proprio mestiere: e saranno proprio la professionalità e la fede estrema nel proprio lavoro che porteranno Frost al trionfo, e alla sconfitta di Nixon. Eppure nel film non c'è proprio nessun vincitore: persino l'integerrimo James Reston Jr. (Sam Rockwell), nemico acerrimo dell'ex presidente, sarà costretto a stringere, disgustato, la mano di quest'ultimo, rimangiandosi una parola appena data e venendo meno ai suoi imperativi più radicati. Alla fine Nixon, per il quale il film mostra in fondo di non avere nessuna pietà, verrà sconfitto da un suo simile, una persona come lui indifferente alla morale e all'etica: e a uscirne distrutta non sarà soltanto l'immagine di un ex presidente, ma quella del potere in generale, e forse anche dell'intera America.