Colpo d'occhio
Mah. Non è sicuramente il capolavoro di Sergio Rubini, questo suo ultimo Colpo d'occhio. Eppure tenta di essere coerente, semplicemente coerente. Rubini è un istrione - su questo non ci sono dubbi - e il suo film gli somiglia in tutto e per tutto: totalmente antinaturalistico, trova la propria ragion d'essere unicamente nella finzione, declinata in un paio di suoi significati fondamentali. Il primo dei quali è sicuramente l'inganno: da qui proviene la sostanza narrativa della storia, e anche la scelta di un'enunciazione che tenta di circuire lo spettatore medesimo; fino alla fine, o quasi. Un'altra sfumatura di finzione si riconosce poi nella scelta di ambientare il film in un sottomondo peculiare, quello dell'arte contemporanea; l'arte è la finzione per eccellenza, certo, ma in Colpo d'occhio essa sembra soltanto un pretesto, o meglio il contesto ideale per la tessitura di una trama impregnata di apparenza sin dai primissimi fotogrammi. Così è l'arte, così pure il cinema e perfino la vita, ci dice il deuteragonista Rubini dall'alto della balconata di un museo, nei momenti iniziali della sua opera; non si spiegherebbe altrimenti, tra l'altro, la scelta degli attori protagonisti Vittoria Puccini e Riccardo Scamarcio, le cui recitazioni, più per necessità che per merito, sono imbevute di una tracotanza talvolta insopportabile; anche Paola Barale, piccola icona della superficialità televisiva nostrana, trova la propria giusta collocazione; e lo stesso Rubini, nel quale l'attore da sempre è superiore all'autore, fornisce un'interpretazione particolarmente, e volutamente, posticcia. Il limite di Colpo d'occhio è però la sua incapacità di portare alle estreme conseguenze il proprio gioco perverso: il film cade sul finale melodrammatico e consolatorio, certo, ma soprattutto sembra finire vittima di se medesimo, laddove non ha il coraggio di affermare fino in fondo il carattere sostanzialmente artificioso dell'esistenza umana, che esso stesso aveva cercato di accreditare lungo tutto il proprio svolgersi.