lunedì 12 novembre 2007

Un'altra giovinezza

Youth Without Youth è il titolo originale dell'ultimo film di Francis Ford Coppola, tratto dal romanzo omonimo di Mircea Eliade, pubblicato in rumeno, negli Stati Uniti, nel 1976 (titolo originale: Tinereţe fără de tinereţe). Evito di fare una riassunto di pessima qualità della voce inglese di Wikipedia che lo riguarda, e lascio il link per chi voglia approfondire. Non posso dire che il film mi sia piaciuto, ma neppure che si tratti di un film sbagliato, o brutto. Anzi. Francis Ford Coppola non è mai stato uno stupido per quanto ne so, e in questo film deve avere creduto molto, se non altro perché si tratta del suo ritorno dietro la macchina da presa dopo dieci anni, dai tempi cioè di L'uomo della pioggia. Credo che per apprezzare il film fino in fondo sarebbe stato necessario conoscere il romanzo di partenza, che è probabilmente un compendio delle teorie filosofiche e delle conoscenze storico-linguistiche e religiose di Eliade sotto forma narrativa. Non sapendo nulla del libro, mi limito a parlare di quel che ho visto sullo schermo. Il film, a partire dal titolo originale, è dominato dal tema del doppio, in particolare come riflesso speculare del sè. Il montaggio del mitico Walter Murch sottolinea assai bene questo tema, sicuramente arduo da affrontare visivamente. Anche Tim Roth, bravissimo protagonista del film, fa un ottimo lavoro nello sdoppiarsi in due diverse personalità (anche se è talvolta a disagio nel ruolo del protagonista da anziano; e d'altronde questo personaggio è per Roth una sfida, essendo assai lontano dai ruoli che si è soliti riconoscergli come "ideali"). Ad ogni modo, a causa di questa dominanza tematica del doppio, il film soffre talvolta di eccessivo schematismo, mentre in altri momenti rischia di divenire patetico e quasi morboso, cosa sottolineata dalla fotografia crepuscolare e a tratti stucchevole. Nel cast ci sono Bruno Ganz, sempre straordinario, Alexandra Maria Lara, intensa e anch'ella in un doppio ruolo, nonchè il buon Matt Damon in veste di comparsa.

Giorni e nuvole

Finalmente è tornato anche Silvio Soldini, tre anni dopo Agata e la tempesta; questo Giorni e nuvole ha tutta l'aria di essere un'opera "minore" (sia detto senza alcuna connotazione negativa) nella cinematografia del regista milanese, per più di una ragione. Innanzitutto manca la fotografia di Luca Bigazzi, quasi un marchio per i film di Soldini (e sarebbe stato davvero bello vedere la sua interpretazione di Genova, città nella quale il film è ambientato); poi manca Licia Maglietta, che se non altro è l'attrice con la quale ha girato i migliori film del recente passato. Ma non si tratta soltanto di cast&credits: Giorni e nuvole è un film sommesso e accorato, con unità di luogo e concentrato su due soli protagonisti, la coppia formata da Elsa (Margherita Buy) e Michele (Antonio Albanese). Un film realistico: totalmente legato alla realtà contemporanea, disincantato e amaro, quasi privo di quelle spendide aperture al caso e all'inatteso che per i protagonisti di tanti film del regista segnano l'inizio di un'esistenza nuova. In Giorni e nuvole è come se Soldini facesse definitivamente i conti con questo aspetto del suo cinema: anche qui è l'inatteso a dare il via alla storia, e anche qui le esistenze dei protagonisti sono destinate a mutare radicalmente; ma la sostanza del film è assai diversa da quella, ad esempio, di Le acrobate o di Pane e tulipani. Giorni e nuvole è caratterizzato da uno sviluppo narrativo quasi assente: non ci sono svolte, vertici o cadute, ma soltanto una accumulazione di brevi segmenti narrativi che mostrano situazioni tipiche e ripetute. Il montaggio è assai indicativo di questo nuovo tipo di narrazione: le scene sono molto brevi, girate spesso con un'unica macchina da presa, mentre gli stacchi fra una scena e l'altra intervengono proprio quando pare che la tensione narrativa del singolo segmento stia salendo; in altre parole, Soldini sembra voler trasmettere allo spettatore stesso la frustrazione di cui sono vittima i suoi protagonisti, allo stesso tempo dando l'idea della nuova, imperfetta e - è il caso di dirlo - precaria esistenza quotidiana di Elsa e Michele. E' come se il Soldini di Agata e la tempesta si fosse calato dalla atemporalità stralunata del suo film precedente alla contemporaneità triste e banale delle vite di molti di noi. Ma c'è sempre un punto di fuga, foss'anche soltanto la volta affrescata di una cappella riportata alla luce da Elsa dopo un lungo lavoro di restauro: alla fine del film i due protagonisti si rispecchiano dal basso in quell'affresco, scoperto passo dopo passo proprio come il montaggio del film, scena dopo scena, procede nel denudare l'esistenza dei protagonisti per lasciarli infine alla estatica contemplazione dell'unica cosa che gli è rimasta, il loro legame. Il finale, bellissimo, è la sola parte del film in cui la poetica del regista si fa evidente, ma Giorni e nuvole rimane un film differente: esperimento o svolta radicale è difficile a dirsi, data la magnifica imprevedibilità del lavoro di Soldini. Sta di fatto che Antonio Albanese è un bravissimo attore, anche se non è una novità; mentre Margherita Buy, pur in una delle sue parti migliori, dimostra ancora una volta di possedere uno spettro espressivo non particolarmente ampio. Elogio infine a Giuseppe Battiston: come Soldini si è accorto da tempo, l'attore friulano ha un valore inestimabile, essendo forse l'unico vero caratterista a tutto tondo del cinema italiano di questi anni. Anni Buy, appunto.

La giusta distanza

Non mi ha convinto l'ultimo film di Carlo Mazzacurati, e anzi ho faticato talvolta a riconoscere l'autore - che ho sempre apprezzato moltissimo - dietro le sue immagini e i suoi personaggi. Eppure il regista padovano con La giusta distanza è ritornato ai luoghi del suo lavoro d'esordio, il bellissimo Notte italiana: a fare da sfondo alle vicenda narrata, oggi come allora, è il paesaggio del Basso Polesine, vicino al delta del Po; oggi quel paesaggio viene mostrato attraverso la fotografia di Luca Bigazzi, certamente il miglior direttore della fotografia oggi in Italia; e Bigazzi fa molto bene il suo lavoro, come al solito, trasformando il paesaggio nel vero protagonista del film. Il problema, per uno che conosca almeno un po' quei luoghi, è proprio la distanza fra il modo in cui sono raffigurati nel film e la loro, oserei dire, ontologia. Bigazzi si accosta al paesaggio con grande rispetto, sapendo di esservi straniero, lui che tanti anni fa esordì splendidamente assieme all'amico Silvio Soldini con un nuovo tipo di rappresentazione dello spazio urbano (penso a Giulia in Ottobre e a L'aria serena dell'ovest): la sua fotografia è sommessa, tenue, e si tiene lontana dalle potenziali suggestioni "bucoliche" di quelle terre remote; eppure è una fotografia, che non aderisce alla realtà di quei luoghi, finendo - a mio parere quasi per eccesso di eleganza, o di ricerca formale - con l'allontanarsi dallo spirito dei luoghi e con l'offrirne una rappresentazione a volte scontata, altre volte eccessivamente "poetica". Le terre del Delta sono estreme in ogni senso: in quei luoghi l'animo si trova contemporaneamente di fronte all'Infinito e al Nulla, mentre la rappresentazione di Mazzacurati e Bigazzi tende ad attenuare le specificità del paesaggio, integrandolo nella generica e inflazionata idea cinematografica della "provincia italiana", con tutte le approssimazioni che ne conseguono. Questa banalizzazione dei luoghi fa il paio con quella dei personaggi: non soltanto di quelli secondari, nel film poco più che macchiette, ma soprattutto dei protagonisti. Buona è l'interpretazione di Hassan data da Ahmed Hafiene, discreta quella di Mara ad opera di Valentina Lodovini; ma entrambi i personaggi a mio parere hanno difetti di scrittura, specialmente quello della ragazza (non è ben chiaro quanto la sua superficialità e il suo comportamento quasi casuale siano volontà oppure "sviste" del copione, o della regia). Anche il narratore, Giovanni, interpretato dal notevole esordiente Giovanni Capovilla, è controverso: per tre quarti del film la sua presenza sulla scena è strumentale soltanto a quella della sua voce narrante, oltre che al tentativo di costruire un intreccio giallo peraltro assai malriuscito. E proprio la volontà di Mazzacurati di girare un film che, partendo da sotto-generi ben precisi (film "di provincia", storia d'amore interrazziale, giallo, film di denuncia) risulti altro dalla sommatoria dei sotto-generi stessi, porta alla estrema fragilità dell'impianto narrativo, lontanissimo dalla solidità e dalla compattezza di opere come Un'altra vita, Il toro o Vesna va veloce; mentre qui, e dispiace molto dirlo, si è ancora una volta più vicini allo sguardo e alla dimensione della fiction televisiva. Mazzacurati, a differenza di quello che accade al suo giovane protagonista, non sa tenere la giusta distanza: il suo sguardo vuole essere troppo comprensivo, e così il regista si allontana dall'umanità dei suoi personaggi e dallo spirito dei suoi luoghi.