martedì 4 dicembre 2007

Across the Universe

Un interessante ma freddino concept movie. Così definirei Across the Universe, ultimo film di Julie Taymor (il suo precedente è il ben noto Frida, ma la Taymor è soprattutto una regista teatrale, qui qualche notizia). Curiosa coincidenza che questo film esca a poca distanza dal bellissimo I'm not there, con il quale condivide l'idea di base: partire dalle canzoni e dalle biografie di mostri sacri della musica "pop" contemporanea (là Bob Dylan, qui i Beatles) e cercare di ricavarne storie buone per lo schermo. La Taymor non è Todd Haynes, e Across the Universe è assai diverso da I'm not there, anche se non proprio da buttare. Qui il canone del musical è il punto di riferimento principale: le canzoni dei Beatles cantate dagli attori sono gli snodi del film e il suo punto forte, anzi si può dire che il copione sia stato sviluppato usando i pezzi più gloriosi dei Fab Four come puntelli. Poi ci sono altre amenità: Jude, il protagonista, arriva a New York da Liverpool all'inizio dei '60 scorsi e porta un caschetto inconfondibile, mentre Lucy perde il fidanzato in Vietnam e si trasferisce a sua volta nella Grande Mela, in un appartamento assieme a Sadie (tipa assai sexy che canta come Janis Joplin), alla cara Prudence e a un chitarrista di colore che suona e veste come Jimi Hendrix e ha una storia con Sadie. Un altro inquilino dell'appartamento, Max, somiglia un po' troppo a Kurt Cobain, mentre fanno comparsate i veri Joe Cocker e Bono Vox. Detto questo, a tratti il film è una vera palla, specialmente negli inserti psichedelici virati in acido; ma alla fine il baraccone resta in piedi, grazie alla dose massiccia di immaginario pre- e post-sessantottino post-modernamente riciclato per l'occasione. Soltanto una domanda: che bisogno c'era?

Lascia perdere, Johnny!

Un mezzo pasticcio l'esordio alla regia di Fabrizio Bentivoglio; eppure al film non mancavano certo i crediti, a cominciare dal cast: Toni Servillo ed Ernesto Mahieux, per cominciare, più lo stesso Bentivoglio semi-protagonista. Recitazioni impeccabili, per carità; ma anche Servillo (che del resto appare in un ruolo marginale, da star conscia della propria grandezza) gigioneggia e alla fine perde ai punti con il fratello Peppe, fondatore degli Avion Travel ma anche ottimo attore; mentre Mahieux non aggiunge nulla a una macchietta che sembra uscita dal cinema italiano di serie B degli anni '50. Si respira aria di commedia all'italiana in Lascia perdere, Johnny!, ma è aria viziata: Bentivoglio non ha particolari doti registiche e perde ben presto il controllo del film, fra personaggi che compaiono e scompaiono senza motivo, buchi di sceneggiatura e uno svolgimento che in realtà è un insieme di scenette buono solo per giustificare qualche bella performance da cantante di Peppe Servillo (lui e Bentivoglio sono molto amici, qualche anno fa girarono il Paese con un concerto-spettacolo teatrale degli Avion Travel). La storia non ha senso, le gag non fanno ridere, si ha l'impressione che tutti siano lì per divertirsi senza preoccuparsi troppo del risultato. Un sacco di talento sprecato dunque: a quello degli attori (ci sono anche Lina Sastri e Valeria Golino, oltre al giovane esordiente protagonista Antimo Merolillo, non male) si aggiungono quello di Luca Bigazzi alla fotografia e di Domenico Procacci, alla produzione con la sua Fandango. Mi fa rabbia, e spero serva di lezione a Bentivoglio e a chi come lui pensa che un perfetto commediante debba per forza essere anche un regista decente.

Nella valle di Elah

Bellissimo e sconvolgente. In the valley of Elah conferma Paul Haggis uno dei migliori sceneggiatori americani di oggi, oltre a metterne in piena luce il talento registico già affiorato con il precedente Crash. Il copione ha un impianto splendidanebre anticonvenzionale: per gran parte del suo svolgimento esso sembra configurare un perfetto plot di genere investigativo che ha le apparenze di una cupa e serrata indagine poliziesca di ambientazione militare; ma nell'ultima parte il film svela la sua vera natura di riflessione morale ed esistenziale sull'America contemporanea: dopo avere creato una tensione altissima ed avere prefigurato la soluzione dell'enigma, Haggis libera improvvisamente l'opera dalle sovrastrutture di genere, facendo "implodere" drammaturgicamente l'indagine narrata per lasciare un vuoto attraverso il quale traspare l'assurda condizione della società statunitense, simboleggiata perfettamente dal proprio apparato militare. Livido e quasi privo di speranza, In the valley of Elah diviene ancora più agghiacciante quando si ricorda che il film racconta fatti realmente accaduti negli Stati Uniti alla fine del novembre 2004, proprio mentre in Iraq stava avendo luogo la terribile "offensiva" di Falluja, durante la quale gli americani utilizzarono le tristemente note bombe al fosforo bianco (le cui tremende conseguenze sulla popolazione vengono mostrate nel film dai video amatoriali dei soldati statunitensi).
Haggis è poi magistrale nel delineare i suoi personaggi: nonostante il film segua per buona parte i canoni del genere poliziesco, i mirabili personaggi del film vengono connotati più attraverso le loro reticenze, le loro stasi e i loro silenzi che mediante le parole o le azioni. In questo il regista è ben coadiuvato dalla straordinaria recitazione dei protagonisti: Tommy Lee Jones è in stato di grazia, la sua interpretazione è quanto mai sofferta, partecipe e commovente, senza mai nemmeno lontanamente sfiorare il patetico e anzi rifuggendolo con tutte le forze. L'attore, ormai senza dubbio uno dei più grandi del panorama internazionale, è giunto alla sua apoteosi e il suo personaggio, duro, profondo e controverso, rimarrà nella Storia del cinema. Bravissima anche Charlize Theron, attrice vera e matura, qui ancora alle prese con un personaggio complesso dalle molte sfumature al quale sa conferire profonda umanità e dolcezza, assieme alla coscienza della propria impotenza di fronte agli eventi e a una rabbiosa volontà di farvi fronte, o almeno tentare; ricordo infine Susan Sarandon, mater dolorosa e allucinata, alla fine senza più lacrime da versare.