venerdì 21 dicembre 2007

La promessa dell'assassino

Titolo italiano assai becero per il bellissimo Eastern Promises, ultimo lavoro del mio adorato David Cronenberg. Film cupo, difficile, enigmatico; film ingannatore, che promette senza mantenere. Il movimento di macchina iniziale sembra quasi da musical; ma subito lo spettatore è investito da un paio di colpi allo stomaco in perfetto stile Cronenberg, con il rischio del knock-out. Sembrano due inneschi narrativi, e buona parte di quel che segue pare confermarlo; ma nel film non ci sarà nessun fuoco d'artificio finale, nessuna detonazione-risoluzione narrativa. Proprio così: Cronenberg fa credere di essere alle prese con un gangster movie, splendidamente morboso e iperrealistico; ma è soltanto una copertura. Nel procedere del film, la narrazione viene sapientemente disarticolata, fino a farla giungere a una specie di punto morto (proprio nel luogo in cui Nikolai e Kiril sono soliti scaricare cadaveri nel Tamigi, come se a venire scaricato nel fiume fosse ora il "corpo" del film di genere). Splendida è l'immagine che segue: una oscura "natività" profana che squarcia il velo dell'apparenza e fa precipitare nelle profondità del simbolico, alla ricerca disperata di appigli attraverso i quali decifrare tutto quel che si è appena visto. Ma è troppo tardi, alla conclusione del film lo spettatore rimane solo di fronte al mistero, un po' come accade ai protagonisti. Nulla è davvero come sembra: il film è ambientato in una Londra livida e priva di speranza, ma quasi tutti i fatti si svolgono nell'ambito della comunità russa (e sono frequenti nel film i riferimenti all'altrove della patria lasciata o del passato sovietico); mentre tutti i personaggi hanno segreti indicibili, ai quali la sceneggiatura accenna senza rivelarli pienamente. Un discorso a parte merita Nikolai, interpretato dal fantastico Viggo Mortensen, sempre più bravo: l'enunciazione associa il protagonista di questo film a quello del precedente lavoro di Cronenberg, lo splendido A History of Violence: in entrambi i film una brusca svolta della sceneggiatura rivela il negativo e il positivo del personaggio, e appare ben chiaro che c'è un vero e proprio gioco di specchi fra le due opere; superfici riflettenti essendo il volto e il corpo di Mortensen, che è doppiamente bravo proprio perché recita avendo ben presente anche il personaggio del film precedente (là una storia americana, qui una storia russa... E via congetturando). Bravissimi anche Vincent Cassel e Armin Mueller-Stahl, mentre Naomi Watts è un po' troppo matrioska, a mio parere; ma forse la colpa non è sua, bensì del personaggio che interpreta... Ad ogni modo, tutto quel che ho appena scritto è una misera accozzaglia di appunti, basati su ricordi gentilmente offerti dalla mia sgangherata memoria visiva; quel che è certo è che il film è un capolavoro, da vedere e rivedere, tentando di avvicinarvisi come una parabola fa con il proprio asintoto.

mercoledì 12 dicembre 2007

Paranoid Park

Gus Van Sant è uno dei miei autori preferiti, i suoi capolavori a mio parere sono Drugstore Cowboy (1989) e Elephant (2003). Proprio a partire da quest'ultimo, Van Sant ha intrapreso un cammino stilistico assai particolare, proseguito con il successivo Last Days (2005) e giunto oggi all'estremo Paranoid Park (che non potendo vincere un'altra Palma d'Oro ha ricevuto a Cannes il "Premio per il 60° Anniversario" del festival). Il mondo filmato da Van Sant è privo di alcuni tratti fondamentali che caratterizzano la "normale" esperienza della cosiddetta realtà: in primo luogo a mancare sono le connessioni causa/effetto, la cui assenza trasforma le storie narrate dal regista in una serie di avvenimenti poco più che casuali, senza alcun apparente legame a parte il loro svolgersi in successione sulla superficie dello schermo. A questa mancanza di senso "esteriore" corrisponde un altrettanto profondo vuoto interiore dei personaggi: incapaci di trovare un motivo per le loro azioni, i ragazzi e le ragazze su cui - quasi unicamente - si concentra lo sguardo di Van Sant sono vittime della casualità degli avvenimenti che li riguardano, e che sempre irrimediabilmente li travolgono; ma questo accade senza che la loro psiche o la loro interiorità ne soffra particolarmente, dato che psiche e interiorità di questi giovani personaggi paiono ridotte ai minimi termini. Del tutto privi di sentimenti di solidarietà e di empatia, i protagonisti di Van Sant sono automi freddi e sradicati, dèditi a reiterare azioni primarie ed elementari, e condannati a vagare senza meta nella luce livida e altrettanto glaciale della metropoli o della provincia americana. Nello stile di Van Sant due elementi sono poi particolarmente rilevanti e coerenti con le tematiche scelte: il montaggio e la colonna sonora. Nel primo caso, alla predetta casualità degli avvenimenti narrati (a livello semantico) si accompagna la casualità del loro accostamento narrativo (a livello sintattico): il montaggio è infatti apparentemente casuale, mescola i diversi piani narrativi e i diversi punti di vista per giungere alla costruzione della storia attraverso un racconto frammentato e sghembo, fitto di flashback e prolessi mediante i quali l'enunciazione intende confondere lo spettatore, per renderlo partecipe dello stato quasi catatonico in cui si trova il protagonista. Strumento atto al medesimo scopo è la colonna sonora: lo spettatore è infatti spesso incapace di stabilire se i suoni e le canzoni siano on, off oppure over (la voce narrante di Alex in Paranoid Park, in apparenza un monologo interiore che commenta gli avvenimenti mentre accadono, si rivela al termine del film la lettura di una lettera scritta dal protagonista stesso nel finale della storia); tanto più che al pari del montaggio visivo anche quello sonoro procede in modo discontinuo, abbinando rumori e voci a segmenti visivi ai quali essi non "appartengono", essendo relativi ad avvenimenti anteriori o posteriori nella storia. In Paranoid Park (tratto da un romanzo di Blake Nelson) il vuoto emotivo del protagonista è rappresentato dalle lunghe riprese amatoriali di skateboarding al rallentatore che - con una colonna sonora di ballate retrò totalmente fuori contesto - riempiono i pensieri del personaggio, incapace di provare emozioni di livello più che elementare (paura e disgusto). La visione antropologica di Van Sant è senz'altro terrificante, ma non conosco nessun altro regista che sappia entrare con tale dolorosa profondità, e agghiacciante disincanto, nell'animo giovanile contemporaneo. Assenza di sentimenti, nessi logici, motivazioni; conformismo e consumismo come unici punti fermi di esistenze poco più che biologiche. Non manca molto a tutto questo e anzi, forse già ci siamo.

mercoledì 5 dicembre 2007

The Kingdom

Da Peter Berg, regista del mitico Cose molto cattive (Very Bad Things, 1998) e di questo film, mi aspettavo di più. Invece The Kingdom non è niente di speciale. Trattasi di film d'azione semi-manicheo ambientato in Arabia Saudita, dove una squadra di agenti speciali dell'FBI deve indagare su un attentato che ha colpito una comunità di residenti americani, impiegati delle compagnie petrolifere. Ci sono riferimenti ad Al-Qaeda, Osama ecc., il film ha qualche velleità socio-politica: ma tali velleità sono vane, perché non c'è traccia di riflessione o di dubbio lungo le due ore di durata; soltanto la scena finale contiene un bagliore di consapevolezza, un po' pochino. Quindi, dicevo, pura azione: il film è prodotto anche da Michael Mann, e lo si vede chiaramente nell'ultima parte in occasione di un conflitto a fuoco saturo di adrenalina (alla lunga, però, non immune dalla sindrome-sparatutto). Personaggi poco più che robotizzati e interpretazioni scadenti, a cominciare da quella di un Jamie Foxx del tutto fuori parte.