venerdì 28 settembre 2007

Espiazione

Non molto da dire su Espiazione, tratto dall'omonimo romanzo di McEwan ad opera del regista Joe Wright, già autore di un adattamento da Pride and Prejudice di Jane Austen. Non è un brutto film - come pensavo prima di vederlo, vittima di stupidi preconcetti da trailer e dei pregiudizi su Keira Knightley; non è un capolavoro, certo, ma c'è una buona trovata narrativa: niente di nuovo nella sostanza, ma il film - credo seguendo le tracce del suo ipotesto - si concentra sulla possibilità, grazie alla finzione, di restituire ai personaggi ciò che il destino (narrativo) gli ha tolto. In tal modo Atonement crea una sorta di nastro di Moebius fra realtà e finzione, alla fine (?) del quale coloro che sopravvivono, nel ricordo dello spettatore (rimanendo così, in qualche modo, vivi nella cosiddetta realtà) sono coloro ai quali la realtà (del romanzo) aveva tolto tutto. Potere della finzione appunto, in questo caso utilizzato per espiare un 'peccato' di gioventù dalle terribili conseguenze. Alla fine del film c'è Vanessa Redgrave, cinque minuti di fuoco freddo che valgono da soli il film.

martedì 18 settembre 2007

L'ora di punta/Il dolce e l'amaro

Questi due li metto insieme per diverse ragioni: innanzitutto, sono talmente brutti che insieme non valgono nemmeno il prezzo di un biglietto, e mi rompe perdere troppo tempo su roba simile; poi, entrambi erano in concorso a Venezia, rappresentanti del cinema italiano contemporaneo. Terza ragione: questi due pasticci sono l'ennesima dimostrazione che in Italia spesso se vuoi uscire al cinema devi girare un film per la tv.
L'ora di punta è diretto da Vincenzo Marra, che non è esattamente un regista da buttare (Vento di terra, del 2004, era un bel film, sentito e dolente) e per questo dà il maggior dispiacere: la storia, la semplice trama del film, scritta dallo stesso Marra, è assurda, implausibile; per di più è mal raccontata, piena di buchi, dimenticanze, svarioni drammaturgici. Un mezzo disastro, e il resto lo fanno i personaggi e gli attori, a pari merito: il protagonista, una guardia di finanza dalle umili origini e dalla moralità evanescente che si improvvisa palazzinaro, proprio non sta in piedi; ed è interpretato dall'imbarazzante Michele Lastella, faccia da guappo ed espressioni incontrollabili. C'è Fanny Ardant, va bene, ma anche lei ha due facce in tutto, col sorriso e senza; e la giovane amante del protagonista è imbastita alla meglio su Giulia Bevilacqua, la quale al momento non sembra poter fare meglio che in Distretto di Polizia (non che io guardi Distretto di Polizia, si intende). Il film è prodotto da Rai Cinema.
E veniamo a Il dolce e l'amaro, definito da Marco Muller "il più graffiante film sulla mafia degli ultimi anni" (sic; la citazione l'ho trovata sul sito ufficiale di Donatella Finocchiaro, protagonista del film). La prima cosa che mi è venuta in mente vedendo il film è stata: ma come hanno fatto la Finocchiaro e Luigi Lo Cascio, due attori davvero grandi e che io amo molto, ad accettare di fare questo film? La regia dell'esordiente Andrea Porporati è praticamente nulla, sembra che gli attori siano lasciati a se stessi e perfino i due protagonisti finiscono col non fare una gran figura. Per il resto, Il dolce e l'amaro si potrebbe definire come "il primo film trash sulla mafia che non sa di essere trash", pieno com'è di luoghi comuni preistorici su mafiosi, donne dei mafiosi, riunioni di mafiosi, sughi al pomodoro di mafiosi in carcere, ecc. ecc. Il copione è pessimo, un colabrodo al pari della sceneggiatura di Marra, e anch'esso del tutto implausibile e talvolta ridicolo. Illumina brevemente la scena Fabrizio Gifuni, nel piccolo ruolo di un magistrato, ucciso però prima dal film stesso che da una bomba di Cosa Nostra. Il film è prodotto da Medusa Film.
Doppio aborto. E lo sappiamo tutti di chi è il merito: se due film come questi escono in sala e arrivano in concorso a Venezia, la colpa non è dei registi o degli attori, ma di chi li fa uscire e arrivare in alto. I produttori ragazzi, i produttori! Il cinema italiano è più o meno in mano alla casta dei produttori, che a parte Fandango e Maggioni sono rimasti dei cinematografari vecchio stile ammanicati con la politica romana. Chissà quanti film sono rimasti nei cassetti
a Roma, girati solo per avere i soldi dei finanziamenti statali e poi buttati via; chissà quanti di essi erano migliori di questi due, e intanto i film italiani più belli escono con dieci copie in tutto e tocca vederli per la prima volta sei mesi dopo, in qualche sperduto cinema d'essai a metà settimana. E' l'Italia, monnezza!

Io non sono qui

I'm not there è il titolo di una canzone di Bob Dylan del 1956, prima di essere quello del film - splendido - di Todd Haynes. Ma il titolo italiano è un disastro e rovina subito tutto: non si può tradurre "I'm not there" con "Io non sono qui", non ha nessun senso, non ci azzecca per niente. Perché il titolo della canzone e del film potrebbe ambire a sintetizzare in poche parole il senso di una vita, la vita di Bob Dylan: "io non sono là" (traduzione lievemente più plausibile, dato che "there" è molto diverso da "here": "here" significa "qui", prossimità, vicinanza; "there", distanza, lontananza, altrove). Perché Bob Dylan non ha mai voluto stare là dove la gente lo cercava, nè fare quello che ci si aspettava da lui; ha sempre preferito, nella sua esistenza straordinaria, essere da un'altra parte.
E così fa il film di Haynes: inafferrabile e ineffabile, porta con sè lo spettatore, per quasi due ore e mezza, in un viaggio fantastico che non è una biografia, nè un finto documentario, nè un romanzo per immagini. Impossibile dire cosa sia I'm not there, e ancor più assurdo sarebbe il desiderio di classificarlo, di farlo rientrare in uno schema preesistente o in un genere canonizzato. Questo film in qualche modo è Bob Dylan: ci sono le sue canzoni, gemme eterne, cantate da lui in over oppure in qualche caso dagli attori; ci sono i personaggi delle sue canzoni che prendono vita e si mescolano con le altre storie e vite dylaniane, in un inestricabile e indistinguibile continuo di bellezza; ci sono le parole delle sue canzoni trasformate in battute di dialogo (ed è un peccato non poter avere il film in lingua originale, o perlomeno sottotitolato); ci sono personaggi con vite simili ma non uguali a quelle del Nostro; e ci sono, anche, rimandi, citazioni e prese per i fondelli di tutti i film e audiovisivi che hanno avuto Dylan per soggetto o per oggetto: da Don't Look Back di D. A. Pennebaker fino al recente No Direction Home di Scorsese, passando ovviamente per Pat Garrett & Billy The Kid di Sam Peckinpah. Insomma, è un nuovo tipo di racconto cinematografico: suggestioni, echi, risonanze, tracce che prendono vita sullo schermo e si fanno materia narrativa, allo stesso tempo narrando le varie fasi della vita di Dylan come nessun dannato biopic saprebbe mai fare. Meraviglioso.
Fra gli attori, difficile scegliere: Cate Blanchett, che ha vinto quest'anno la Coppa Volpi per la sua interpretazione (di un personaggio maschile), è quasi incredibile per come ha saputo fare suoi i gesti e gli atteggiamenti del Dylan più indimenticabile, ovvero quello del biennio 1965-66; c'è un bravissimo e insolito Richard Gere che interpreta Billy The Kid, Christian Bale e Heath Ledger sono molto intensi, e Charlotte Gainsbourg è struggente nel suo personaggio pieno di rimpianto e malinconia.