The man who stare at goats, regìa di Grant Heslov, sceneggiatura di Peter Straughan, starring Clooney McGregor Spacey Bridges, è semplicemente una puttanata. Inutile perdere tempo a cercarvi qualcosa di buono o meritevole. Trattasi di operazione commerciale hollywoodiana di bassa lega, assurda già a partire da tema e soggetto (antimilitarismo posticcio, adattamento malfatto di un libro del quale nessuno avrebbe sentito la mancanza), che ha ingiustamente sottratto spazio e visibilità a film quasi sicuramente migliori durante l'ultimo festival veneziano. Non c'è molto da aggiungere. Qualche battuta divertente nel corso del film si trova anche, ma nel complesso la noia trionfa. Le interpretazioni di George Ewan Kevin e Jeff sono fra le peggiori delle rispettive carriere: sciatte, approssimative, senza impegno. Tanto valeva fare un film d'animazione, sarebbe stato sicuramente più economico e interessante. Della regìa e del copione non c'è proprio niente da dire, nel senso che sono entrambi inconsistenti. E oltre a due ore e un quarto della mia esistenza terrena, ho perso anche otto euro otto per questa cazzata. Chiedo scusa per lo sfogo.
Michael Mann. E’ la prima volta che scrivo un post su un suo film, e sono quasi emozionato. Perché Mann è uno dei registi che mi piacciono di più in assoluto: per me è un Autore senza eguali nel cinema contemporaneo, e non soltanto in quello americano.
Qui dovrei concentrarmi soltanto sul suo ultimo film, bellissimo, come tutti quelli che lo hanno preceduto. Public Enemies è un’opera senza difetti; è un grande film di un grandissimo regista; è una megaproduzione hollywoodiana e un successo commerciale, ma anche un esperimento linguistico perfettamente riuscito.Non è invece una ricostruzione storica, né tantomeno un film “naturalistico”.
Il film racconta gli ultimi anni di vita di John Dillinger (Johnny Depp) e la sua storia d’amore con Billie Frechette (Marion Cotillard), sullo sfondo della Grande Depressione; vi si narra anche la lotta al crimine condotta dall’agente dell’FBI Melvin Purvis (Christian Bale) sotto il comando del controverso J. Edgar Hoover (Billy Crudup): una guerra vinta infine dalle autorità americane, con l’uccisione di Dillinger e altri gangster leggendari come Pretty Boy Floyd e Baby Face Nelson.
Ambientato negli anni ’30 del Novecento, il film è girato completamente in digitale. Perché? Si tratta soltanto di un esercizio di stile? No. Mann è forse il regista tecnicamente più all’avanguardia di tutto il cinema americano contemporaneo, questo è già il suo terzo film digitale dopo il sublime Collateral (2004) e Miami Vice (2006): ciò significa che la sua decisione di continuare a usare il digitale corrisponde a una scelta estetica ben precisa e assai lungimirante.
Sull’immagine cinematografica digitale si potrebbe scrivere un libro, è chiaro. Ma forse qui può essere sufficiente ricordare che il digitale nel cinema ha due declinazioni principali: quella del naturalismo e quella del suo opposto, che è la via scelta da Michael Mann. Il cinema fin dai suoi albori analogici ha sempre avuto questa possibilità di scelta, Lumière o Méliès ecc. ecc. Ma da quando anche i mezzi della ripresa, dopo quelli del montaggio, si sono convertiti al bit, è come se la duplicità di cui sopra si fosse in qualche modo estremizzata. Ovvero: le macchine da presa digitali prosumer, estremamente leggere, mobili ed economiche (prefigurate da Astruc con la sua espressione caméra-stylo) hanno rivoluzionato il modo di fare cinema documentario e hanno dato a generazioni di cineasti giovani e squattrinati la possibilità di esprimersi; invece, all’altra estremità del continuum tecnico-produttivo, la qualità dei mezzi di ripresa digitali pro è cresciuta esponenzialmente ed è ormai a un livello qualitativo pari a quello delle cineprese analogiche tradizionali, tanto che la ripresa digitale si caratterizza sempre più come un’alternativa a queste ultime.
Ora, tutto il bravo riassuntino di cui sopra serve appunto a collocare l’opera di un autore come Michael Mann che, a un certo punto della propria carriera, ha scelto di utilizzare il nuovo mezzo in funzione di una nuova estetica. Il suo antinaturalismo digitale sembra autocontraddirsi ad ogni inquadratura, per esempio a causa dell’incredibile profondità di campo o del colore iperrealistico che le nuove cineprese consentono di ottenere. Invece a Mann non importa nulla del realismo: quel che gli interessa è raccontare storie, e sono storie che valgono sempre il tempo che chiedono. E’ un film realistico un capolavoro come Collateral, dominato dal simbolismo, dalla geometria e dall’astrazione? Sarebbe come dire che la matematica è realistica. E Miami Vice, con le sue inquadrature sul nulla?
In Public Enemies Mann continua magistralmente per la sua strada. Ha fatto un film su un periodo storico e su figure della cultura statunitense ben precisi, eppure se ne infischia della Storia. Il copione del film è zeppo di quelle che uno studioso della Storia chiamerebbe “inesattezze” (si segua questo link) o che uno studioso di Letteratura chiamerebbe “licenze poetiche”: a me piace pensare che l’infedeltà ai cosiddetti “fatti accertati” sia piuttosto una sfida, lanciata a coloro che la Storia l’hanno scritta in quanto vincitori. Sono Hoover, l’FBI, e l’amministrazione americana dell’epoca gli autoproclamati vincitori della war on crime; ma chi sono i veri “cattivi” nel film se non loro? E’ J. Edgar Hoover (magistralmente interpretato da Crudup), non Baby Face Nelson a impersonare il Male assoluto: se Nelson è uno psicopatico sanguinario guidato soltanto dai suoi istinti, Hoover è – pur a sua volta psicopatico – un freddo calcolatore, un opportunista, un sadico e un cinico che crede di agire per il Bene della società ed è disposto a sacrificargli perfino la stessa legalità di cui pretende d’essere paladino. All’assurdità sua e dell’intera società di cui egli è prodotto si contrappone la figura di John Dillinger: idealista, romantico, eroico, un outsider che pur nel suo materialismo conserva un’anima di cristallo. A Dillinger, come in fondo a Mann, la realtà non interessa granché: entrambi cercano il sogno, entrambi amano il cinema. E due delle scene più belle del film si svolgono proprio in un cinema: nella prima, una sequenza quasi priva di azione ma che toglie il fiato, Dillinger sfida idealmente il conformismo della società americana, rischiando di essere riconosciuto in mezzo a una platea gremita ma anonima di spettatori-automi; nella seconda, commovente, Dillinger si identifica con il protagonista dell’ultimo film visto prima di morire, un gangster come lui, interpretato da Clark Gable. Qui Mann riafferma senza ombra di dubbio, in totale empatia con il suo personaggio, che a contare più di tutto nell’esistenza di ciascuno dovrebbe essere il sogno, il desiderio, la tensione verso l’Altrove. Ecco che cos’è in fondo Public Enemies: un Altrove della Storia, un film girato con mezzi tecnici nati per seguire il più possibile la realtà, ma qui trasfigurati in uno strumento di riscatto dalla schiavitù del pensiero unico; il digitale che non racconta “La Storia” ma soltanto una storia, e la racconta splendidamente, senza preoccuparsi di cosa sia esatto o ragionevole. Chi sono dunque i nemici pubblici del titolo? I rapinatori e assassini che la Storia ha sconfitto, oppure i criminali ben peggiori ma meglio organizzati che quella Storia hanno scritto?
Ecco di nuovo il buon vecchio Mike alla carica! Chi c'è nel mirino stavolta? Rispetto ai film precedenti, è un po' più difficile dirlo: cos'è, o chi è, il capitalismo? Non c'è un soggetto unico su cui si possano scaricare le responsabilità per la crisi economica che è diventata evidente per tutti, ormai da più di un anno, e che è la vera prim’attrice di Capitalism, A Love Story. Le brutte storie da raccontare, così come le malefatte del sistema, sono molte; e infatti, per la prima volta, l’attacco del regista avviene su più fronti. Nei suoi ultimi film Moore aveva messo sotto accusa alcuni protagonisti della società e dell’economia negli Stati Uniti contemporanei: l’industria automobilistica, l’industria delle armi, il sistema sanitario e le assicurazioni, l'amministrazione Bush; erano obiettivi ben precisi e individuabili, con nomi e cognomi, e soprattutto erano obiettivi unici. Qui invece il regista ha un nemico più problematico, perché molteplice e indefinito (per quanto sostanziale): insomma, questo è un film un po’ diverso dai precedenti, senz’altro più difficile da tenere assieme perché non si presta al procedimento solitamente usato da Moore, che è più o meno quello dell’inchiesta giornalistica – tanto accurata quanto schierata.
Così, stavolta ci troviamo di fronte un Michael Moore più filosofo e più idealista del solito, mentre il suo occhio documentaristico è costretto a spostarsi abbastanza freneticamente in punti diversi: da Wall Street, dove ormai lavorano tutti i migliori cervelli d’America con il solo scopo di fare più soldi, alla provincia profonda dove le famiglie perdono le loro case e si ritrovano da un giorno all’altro in mezzo alla strada; dai condo vultures che speculano sulle disgrazie degli sfrattati, ai piloti delle linee aeree sottopagati e costretti talvolta a cercare un secondo lavoro per mantenersi. Avanti così, da un posto all’altro degli States: Moore si muove da Washington, dove l’amministrazione dell’economia nazionale sembra essere nelle mani della Goldman Sachs, alla Chiesa Cattolica americana, con domande a vari sacerdoti sul valore morale del Capitalismo…
Cosa posso dire? Io faccio il tifo per Mike, con il cuore; ma il film mi è sembrato un po’ meno riuscito dei precedenti. Non so: forse è la mancanza di una tesi ben precisa, forse c’è troppa carne al fuoco, fatto sta ed è che Capitalism, A Love Story è meno sconvolgente dei suoi predecessori. E’ forse anche un po’ più patetico del solito, e questo non migliora la situazione; in più, non giova il fatto che il regista continui a stare anche davanti alla macchina da presa. L’ha sempre fatto, d’accordo, ed è un segno di onestà intellettuale, come a dire “io ti racconto queste cose in prima persona, perché ci credo e perché secondo me tali cose, così come stanno, non vanno bene”; ma così facendo, è alto il rischio che Moore finisca, anche involontariamente, con il farsi spettacolo, con il diventare una specie di logo o marchio di fabbrica. La sua credibilità continua a uscirne indenne? Ripeto, non lo so; per me personalmente non c’è problema alcuno, ma i suoi detrattori potrebbero avere il gioco più facile.
Michael Moore fa cinema per cambiare la realtà: non c’è mai stato dubbio su questo, ed è una cosa buona e giusta per quanto mi riguarda. Ha il suo stile, che è rimasto immutato, e questo non è un grande problema: non si è evoluto molto, ok, ma fa quello che sa fare con energia e idealismo. Però se i suoi colpi diventano meno precisi o se il suo sguardo si confonde, riuscirà ancora a sconvolgere la gente? Perché è questo che deve riuscire a fare, alla fin fine: contribuire a far sì che tutti noi iniziamo a pensare in modo diverso, per poi agire di conseguenza. E’ un compito immane e già di per sé vale l’ammirazione che Moore si è meritato e continua a meritarsi.