lunedì 21 gennaio 2008

Io sono leggenda

Mi è capitato quasi per caso di vedere questo film, ed ero assai prevenuto. In realtà non tutto è da buttare in I am legend: per prima cosa, vedere New York disabitata, deserta, con le erbacce lungo la Fifth Avenue e cervi e leoni che pascolano indisturbati sul cemento, fa già un effetto abbastanza piacevole. E il silenzio che pervade gran parte del film è tutt'altro che noioso: la suspence rimane sempre alta, gli ingranaggi del copione sono ben oliati e girano come si deve. Ci sono i difetti e i problemi, per carità: la verosimiglianza e la logica devono essere ben presenti anche nei film di fantascienza, mentre è proprio qui che il film talvolta incespica un po' troppo visibilmente. Will Smith non è un cattivo attore, ma questa non è certo la sua interpretazione migliore; non credo però che sia tutta colpa sua: il ruolo gli si addice, perché il personaggio è più attivo che introspettivo, e Smith fa quel che può per conferirgli un minimo di tridimensionalità interiore; non ci riesce del tutto, ma bisogna dire che non è per nulla aiutato da regia e sceneggiatura, assai più attente ai lati spettacolari della vicenda che al suo potenziale "psicologico". E' un peccato, perché da un soggetto simile sarebbero potute venire meraviglie: l'ultimo uomo sulla terra, civiltà distrutta, ricordi... Del resto, suppongo che il valore più alto di I am legend risieda nel suo essere onesto seguace di un nuovo sotto-genere cinematografico, che si è sviluppato negli ultimi tempi e che si occupa proprio dei "tempi ultimi", con il valore aggiunto della rispondenza alla psicologia di massa. Non è di certo questa la sede per trattare il tema in modo opportuno; mi sia concesso soltanto di notare, da ultimo arrivato, che l'immaginario sta diventando sempre più apocalypse-friendly e che i prodotti di questo mutamento sono oramai frequenti al cinema (taccio, per decenza, sulle altre arti; ma mi viene in mente l'ultimo romanzo di Cormac McCarthy, The Road). E così lo spettacolo puro e ben congenato di un blockbuster come questo si vela di significati ulteriori, ben al di là del semplice appagamento sensoriale provato dallo spettatore.

martedì 8 gennaio 2008

Lussuria

Non si creda a tutto quello che la televisione dice su Lussuria (Lust, Caution, 2007). Non è un capolavoro, non è nemmeno un grande film; è un'opera interessante, esteticamente impeccabile, ma mi chiedo quali altri film fossero in gara quest'anno a Venezia; se hanno premiato di nuovo Ang Lee con il Leone, due anni dopo il bellissimo - questo sì - I segreti di Brokeback Mountain, vuol dire che il concorso ha toccato il fondo. Venezia non sembra saper uscire dalla sua crisi: continua a proporsi come l'unico festival internazionale di alto livello interessato al cinema come arte e non come prodotto, ma la scelta del vincitore 2007 è l'ultima contraddizione, in ordine di tempo, dell'immagine che la manifestazione lagunare vuol dare di sé; intanto i film più belli continuano ad arrivare da Cannes e da Berlino, luoghi in cui l'interesse per gli aspetti mercantili della settima arte è assai più marcato. Niente di strano a mio parere: il cinema è stato a lungo - e spero continui a rimanere - un fenomeno di massa, ovvero per le persone tutte e non soltanto per i critici; la bellezza, quando c'è, parla a chiunque e nessuno può sfuggirle: non si può scegliere un film in base al suo essere o non essere "commerciale", credo che questa distinzione non abbia oggi molto senso, se mai ne ha avuto in passato.
Tornando a Lussuria - il titolo italiano è una furba storpiatura del già azzeccato titolo originale - è facile trovare più di un difetto. Lee voleva probabilmente girare un film "psicologico", che raccontasse il tormento interiore della protagonista ecc. ecc. Peccato che il personaggio di Wang Jiazhi (Tang Wei, niente male) abbia ben poco spessore: il gioco del film consiste nel mostrare la pressione e le mutilazioni subìte dall'anima di Wang, costretta per (soprav)vivere
a recitare in uno spettacolo del quale alla fine perderà il controllo; ma l'ambiguità del personaggio, che avrebbe dovuto sostanziare la scelta della regìa, rimane poco più che evanescente. Anche l'altro personaggio protagonista, Yee, interpretato da Tony Leung (attore fantastico, ma qui un po' sottotono), è delineato in modo troppo superficiale, troppo rigido e repentino: una specie di robot che agisce a scatti, senza che sia possibile spiegarsi del tutto le rare emozioni che appaiono sul suo volto. Pure il racconto lascia a desiderare: a parte l'antinaturalismo insistito, l'andamento è prolisso e un po' sconclusionato, e in sala tocca sbadigliare più di una volta; forse la parte migliore è il finale, che riscatta una quasi totale assenza di tensione narrativa. Il film è una produzione cino-americana, e sconta un difetto comune a entrambe le cinematografie d'origine, l'estetismo: una fredda, quasi morbosa attenzione alla bellezza dei dettagli prevarica ogni altro aspetto del film, dall'introspezione all'analisi storico-politica, peraltro assai periferica nel quadro dell'opera. Ecco perché all'inizio parlavo di contraddizione: Venezia ha premiato il film per venderlo meglio, come se già esso non sapesse vendersi da solo, a partire dal titolo. Cio' detto, bisogna riconoscere che il discorso di Ang Lee regge il proprio peso, e Lussuria merita comunque di essere visto, ma ripeto: non bisogna ascoltare quel che blaterano i critici in tv, è solo pubblicità.

sabato 22 dicembre 2007

Leoni per agnelli

Robert Redford è tornato alla regia, sette anni dopo La leggenda di Bagger Vance (The Legend of Bagger Vance, 2000). E' sempre un piacere ritrovarlo e rivederlo: qui è anche attore protagonista, assieme ad altre star come Meryl Streep e Tom Cruise. Si prova una specie di affetto  guardando il suo volto scavato dalle rughe e come denudato dal tempo, che ha lasciato l'anima ben visibile: l'anima di un grande uomo di cinema, sempre lontano dal compromesso e dalla superficialità. Questo Leoni per agnelli (Lions for Lambs) conferma prepotentemente l'atteggiamento politico ed esistenziale di Redford, improntato al dubbio, alla riflessione profonda e alla ricerca continua. Lions for Lambs è un'opera filosofica acuta e complessa basata su presupposti semplicissimi: tre dialoghi che si svolgono contemporaneamente, nel giro di un'ora, in luoghi diversi. A Washington, nello studio del senatore repubblicano Tom Cruise che accoglie la giornalista veterana Meryl Streep per un'intervista; in un'università della California, presso lo studio del professore di scienze politiche Robert Redford che ha convocato il suo studente Andrew Garfield per un colloquio chiarificatore; in Afghanistan, sulle alture innevate del teatro di guerra, dove i militari Michael Pena e Derek Luke, rimasti soli, devono fronteggiare la tempesta e il nemico in avvicinamento. Campi e controcampi, inquadrature a camera fissa, pochissimi effetti speciali o altre diavolerie da action movie, perchè la vera azione sta nei dialoghi: avvincenti, serrati, benissimo scritti, fanno del film non soltanto un duro e assai intelligente pamphlet antimilitaristico, ma una vera e propria meditazione sul libero arbitrio e sul destino, oltre che una analisi lucida e impietosa della politica statunitense contemporanea. Poco naturalismo quindi: i personaggi sono palesemente simbolici, e la regia sottolinea questo, oltre che con i (non) movimenti di macchina, tramite la recitazione. Guardate Tom Cruise, come interpreta senza mezzi toni la sicurezza maligna e ipocrita del politico rampante esperto in strategia militare; godetevi  le idiosincrasie di Meryl Streep, nervosa, piena di dubbi e tormenti, quanto mai "fisica" nella sua interpretazione; mentre Robert Redford sa dosare alla perfezione la sagacia, l'umanità e la sofferenza di uno scienziato che rifiuta di perdere la speranza nel futuro e la fede in un mondo migliore. Lions for Lambs è un film necessario, di quelli che sanno leggere e interpretare la contemporaneità alla luce del passato, e fare domande imprescindibili sul futuro.