Rachel sta per sposarsi
C'è un fugace, istantaneo sguardo in macchina di Kym (Anne Hathaway, brava davvero) nei primissimi fotogrammi di Rachel getting married. E' quasi nulla, ma è sempre un'interpellazione: abbastanza per suscitare un sospetto. Intanto il film comincia, con la sua macchina da presa digitale sempre in movimento, sbilenca, traballante e dallo sguardo sghembo; in più di un'occasione usa lo zoom, e la cosa ha quasi dell'incredibile fuori da un film Dogma... E qui nasce il secondo sospetto.
Kym riabbraccia i suoi, sta tornando a casa dopo un lungo periodo di disintossicazione, lungo il tragitto si ferma in un bar e la ragazza alla cassa le chiede entusiasta: "Scusa, non ti ho già vista in Cops?" mentre due marines in tuta mimetica entrano nel drugstore. Qui gatta ci cova, comincio a pensare.
Arrivata a casa Kym incontra la sorella Rachel che, assieme a decine di altre persone, sta preparando il proprio matrimonio, da celebrare due giorni dopo.
La sera dell'anti-vigilia c'è una grande cena, presenti tutti gli amici invitati: ognuno si alza a turno per il proprio discorso di circostanza, sotto gli occhi di tutti i presenti e di... un paio di videocamere digitali amatoriali, che qualcuno fra i presenti sta usando per tentare di registrare i ricordi. Ho la mia illuminazione, e subito mi rendo conto che non ci voleva poi tanto a capirlo: Rachel getting married ha un'enunciazione mimetica degli home-movies, quei filmini da battesimo, comunione, cresima, o appunto matrimonio. Insomma, la macchina da presa (digitale) confonde volutamente il proprio punto di vista con quello delle videocamere digitali presenti nel profilmico. Semplice ma geniale. E anche quando le videocamere sono spente, la macchina da presa continua a girare, vuole registrare proprio tutto, tallonando Kym e gli altri protagonisti, incollata alle loro spalle e nuche, ai loro corpi. E la fotografia ce la mette tutta per creare una impressione di (finto) dilettantismo: i movimenti imprecisi che sembrano perdersi l'azione principale, quegli zoom quasi assurdi, e soprattutto tutti questi volti in un'unica inquadratura: non ci sono campi e controcampi nel film, i primi piani saranno meno di un 10% delle inquadrature, il resto è tutto questo abnorme sovraffollamento di facce nello stesso frame, cosa che tra l'altro rende impossibile per lo spettatore "controllare" la scena. Un vero e proprio disagio della visione, voluto per creare disorientamento e fastidio: un po' le stesse sensazioni che prova Kym nel tornare a casa.
Ed ecco che la forma si fa sostanza, nel bellissimo film di Jonathan Demme. Kym si sente come in trappola, perché tutti vogliono in qualche modo "classificarla", controllarla, o etichettarla. Sistemarla in una porzione di realtà chiusa e immodificabile, nella quale Rachel non può fare altro che sentirsi prigioniera: il padre che vuole sempre sapere dove trovarla, la ragazza che all'inizio del film le dice di averla vista in una serie TV, il figurante che le dice di averla già incontrata, il tizio che la riconosce al salone di bellezza... Allo stesso modo Kym è in qualche modo prigioniera anche della macchina da presa, che se ha l'apparenza amichevole di una videocamera da filmino matrimoniale, in realtà è un tormento. Ecco forse il significato di quell'iniziale, e unica, interpellazione: Kym è cosciente di sè e della propria pesante situazione, e la guarda dritta negli occhi senza paura. Ma quello sguardo in macchina ha forse soprattutto un altro significato: Kym è l'unica che può rompere l'incantesimo della finzione, una finzione terribile e ipocrita che rifiuta di accettare la realtà di un passato terribile e di un presente pieno di rabbia e risentimento. Tutti fingono, tutti in qualche modo recitano una parte e rifiutano di accettare la consistenza dei loro sentimenti reciproci: Rachel (Rosemarie DeWitt, anche lei molto brava), il padre Paul (Bill Irwin), la madre Abby (Debra Winger, è bello rivederti). Kym invece, fin da quel primo sguardo in macchina, rompe l'incantesimo, spezza la finzione. E lo fa per il resto del film con la sua presenza, riportando a galla i conflitti mai sopiti e rimettendo i ricordi al centro dei discorsi...
Non posso raccontare oltre, per non togliere nulla al film che è davvero magnifico. E' un'opera amara, dal finale aperto, volutamente irrisolta, capace di creare grande disagio e tristezza nello spettatore, come soltanto la regìa del grande Jonathan Demme sa fare. Il copione, scritto da Jenny Lumet (figlia di Sidney), è perfetto, semplicemente; la colonna sonora bellissima e struggente, suonata e registrata sul momento, come del resto le scene della festa sono state girate in un unico weekend con persone, anche attori non professionisti, che davvero si erano incontrate in quella occasione per la prima volta; della fotografia geniale e degli attori bravissimi ho già detto più in alto. Auguro di riuscire a recuperare da qualche parte questo film, che ha avuto una pessima distribuzione, perché è veramente un piccolo capolavoro.
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