Bel colpo, Danny. Slumdog Millionaire è un film totalmente indovinato, senza per questo essere soltanto un ottimo "prodotto". Che sia un film tecnicamente ineccepibile e destinato a fare un sacco di soldi lo hanno riconosciuto gli 8 oscar assegnati: film, regìa, sceneggiatura non originale, montaggio, fotografia (Anthony Dod Mantle), suono, colonna sonora, canzone originale. Tutti questi premi sono meritati, non c'è dubbio; ma sono anche, come sempre avviene per gli Academy Awards, ulteriore propellente per il successo economico della pellicola. Se poi ultimamente l'Academy premia anche film davvero belli, come questo o come l'inarrivabile No Country For Old Men l'anno scorso, ciò può voler dire molte cose, incluso forse il fatto che gusti e aspettative degli spettatori riguardo al cinema americano abbiano fatto un salto di qualità; ma è un discorso che non mi interessa più di tanto.
Tornando al film, il marchio autoriale di Boyle si riconosce chiaramente: nella violenza, nel cinismo esasperato, nella volontà costante di colpire lo spettatore, disgustandolo o mettendo in evidenza i lati più oscuri della natura umana. Su questo punto il film conferma la visione nichilista dell'autore scozzese, anche se si potrebbe obiettare che Boyle abbia perso un po' di mordente rispetto a Piccoli omicidi fra amici, Trainspotting o The Beach; in realtà Slumdog Millionaire prosegue e completa il discorso iniziato con i film precedenti. Nelle opere citate è presente in misura minore o maggiore il tema dell'apparenza, e dell'inganno che la società di massa mette in atto nei confronti dell'individuo: il pop, la cultura della comunicazione globalizzata, sono risponsabili dei miraggi che i protagonisti dei film di Boyle inseguono ad ogni costo, pronti a commettere le peggiori nefandezze per soddisfare i bisogni indotti dall'immaginario collettivo contemporaneo (si tratti di droga, ricchezza facile, celebrità, successo, fuga). In quest'ultimo film, l'inganno finale e definitivo è quello dell'amore, dell'happy ending ad ogni costo. Non a caso il film si chiude con una surreale scena da musical, sui binari di una stazione ferroviaria, e con la didascalia "It is written" che simula la risposta esatta di una domanda iniziale in stile, appunto, "Chi vuol essere milionario". Per questo film, Boyle ha scelto gli elementi peculiari dell'immaginario odierno, elementi irrimediabilmente pop, e li ha mixati alla perfezione: i quiz alla tv, il guadagno facile, l'individualismo esasperato, la ricerca forsennata dell'amore, il terzo mondo che diventa primo... Ed è andato a girare il film a Bollywood (a quattro mani con Loveleen Tandan), che rappresenta la forza del nuovo mondo emergente ma anche un punto nevralgico di creazione dell'immaginario a livello mondiale. E chissà quante citazioni di film bollywoodiani ci sono in Slumdog Millionaire... Insomma, nonostante l'apparenza naturalistica che lo caratterizza per quasi tutta la sua durata, il film è finzione che parla di finzione, non di realtà. E' un film che dice tutto sul nostro tempo, proprio perché nel nostro tempo la finzione e l'apparenza hanno ormai ingoiato la realtà; e questo è forse il più duro pugno nello stomaco che abbiamo mai ricevuto da parte di Danny Boyle.
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