Il nastro bianco
Di fronte alla pagina vuota rivedo le immagini in bianco e nero del sublime e tremendo Das weisse Band. Inutile usare la parola capolavoro per un film di Michael Haneke: ogni sua opera è un vertice, un estremo. So di non avere strumenti adeguati per l’interpretazione; di certo ho però una predilezione irresistibile verso il cinema del sommo regista austriaco, e se voglio scrivere qualcosa di sensato devo innanzitutto chiedermi cosa sia a nutrire questa mia passione. Cosa rende tutti i film di Haneke così affascinanti ai miei occhi?
Risposta semplice ma non banale: la paura. Il cinema di Haneke incute timore, spaventa; colpisce senza pietà sui punti deboli dell’anima, e fa male. Il cineasta viennese è una specie di filosofo torturatore, che sa parlare con uguale efficacia alle componenti razionali e a quelle irrazionali dello spirito umano.
Ci sono poi altri due tratti tipici della cinematografia di Haneke che devono essere sottolineati. Il primo è la freddezza, che si accompagna ad un controllo totale della forma: Haneke ha una padronanza suprema del mezzo cinematografico, una tecnica tanto eccelsa da poter essere usata contro se stessa – come in Funny Games, Code Inconnu o Caché - oppure resa quasi invisibile – come accade in Das weisse Band. In tutti i casi, Haneke si muove con precisione chirurgica e senza pathos, metodicamente.
Il secondo elemento essenziale nel cinema di Haneke è il giudizio morale. In contrasto apparente con la glacialità della forma, non c’è indifferenza ma una precisa visione etica, una critica silenziosa ma sempre netta e severa; tale critica però non vuole insegnare nulla e non cerca proseliti. Haneke mostra la condotta dei suoi personaggi senza condannarli, quasi con fatalismo, eppure è tutt’altro che un semplice osservatore. Egli mostra senza voler dimostrare: paradossalmente, Haneke è uno dei registi europei che più sembrano avere seguìto e messo in pratica il celebre motto felliniano.
In effetti non c’è proprio nulla di dimostrato nel cinema di Haneke, semmai è vero il contrario: all’inizio tutto pare sempre semplice e lineare, quasi senza sviluppo; ma in fondo c’è ogni volta una trappola, perché il cerchio non si chiude, i conti non tornano e il senso non arriva. Questo è forse, dello stile di Haneke, l’elemento più inquietante e seducente allo stesso tempo: ne risulta un cinema sempre spiazzante, contro-intuitivo e senza speranza, che però proprio grazie a queste caratteristiche arriva, con un altro paradosso, a imitare la “realtà”.
Michael Haneke è in definitiva un maestro, un outsider, uno dei più grandi registi del cinema contemporaneo. Ciò peraltro non costituisce una novità, a tal punto che la Palma d’Oro vinta quest’anno da Das weisse Band potrebbe ad una prima considerazione risultare un riconoscimento attribuito ex-post all’intera opera del regista; ma non è così semplice. Haneke non fa mai un film uguale all’altro, nonostante la ricorrenza degli elementi di cui si diceva in precedenza; e anche se non ho visto praticamente nessuno degli altri film in concorso a Cannes 2009 sono incline a scommettere che quello di Haneke sia superiore a tutti gli altri; la mia scommessa non ha alcun valore naturalmente, ma non c’è dubbio che Das weisse Band sarebbe rimasto una pietra miliare anche senza Palma.
Opera enigmatica e cupa, in cui il bianco e nero insaturo e lattiginoso della fotografia ha un valore sostanziale, Das weisse Band è un film corale e acefalo: la voce fuori campo di uno dei protagonisti della vicenda è in realtà soltanto un inganno, uno stratagemma diversivo tramite cui la regìa ostacola deliberatamente la comprensione dello spettatore. Cosa ci si aspetta dalla voce over di un personaggio che ha preso parte agli eventi narrati e li rievoca dal futuro? Sicuramente un ausilio alla comprensione di tali eventi, o perlomeno un punto di vista privilegiato sulla vicenda. Al contrario, alla fine del film sarà chiaro che il giovane maestro elementare, colui al quale appartiene la voce narrante, non potrà essere di alcun aiuto nella spiegazione degli eventi e delle loro cause, non sapendo nulla più di quanto visto e conosciuto dallo spettatore stesso. La prima immagine del film, un immobile paesaggio pianeggiante della Germania settentrionale, emerge lentamente da una dissolvenza; in modo speculare, l’ultima inquadratura si dissolve nel nero, e al termine d’una serie di eventi inquietanti e misteriosi - quando sembra che una labile traccia sia stata lasciata allo spettatore per lasciargli individuare anche solo un semplice nesso di causalità fra gli episodi ai quali ha assistito - tutto sprofonda di nuovo nel nulla, senza spiegazioni. Poco prima la voce narrante aveva riferito dell’attentato di Sarajevo, e del tragico destino della Germania stessa e dell’Europa.
Ciò che più colpisce è a mio avviso il modo in cui Haneke riesce a mantenere un’oscura e quasi impercettibile tensione per tutta la durata del film. C’è sempre il senso di una minaccia imminente, di una deflagrazione narrativa prossima; invece anche i fatti più rilevanti nel racconto si susseguono senza apparenti nessi consequenziali e gli episodi più atroci, quasi privati di un legame con ciò che li segue e ciò che li precede, perdono pregnanza. Qualcosa di simile accade con le relazioni fra i personaggi: inizialmente questi ci vengono presentati come mònadi dotate unicamente di un nome e di una localizzazione contestuale; per tale motivo essi appaiono inizialmente “puri” e netti, senza sbavature ma anche senza psicologia, come se si trattasse di immagini della classicità. Con il trascorrere del film i rapporti fra gli attanti divengono più evidenti nella loro duplicità oscena: ogni relazione ha una doppia faccia a seconda che la si osservi dal punto di vista della sfera pubblica o di quella privata. Intanto le caratteristiche psicologiche emergono portando alla luce la mostruosità interiore, la follia, i tradimenti e ogni altro genere di nefandezze…
Ho già scritto più di quanto la decenza consenta. Rimando chi voglia farsi un’opinione seria sul film a questo link.