Rachel
Ho avuto la fortuna di vedere questo documentario di Simone Bitton al festival di Internazionale a Ferrara, quasi due mesi fa. Non credo avrei avuto molte altre occasioni, ed è triste che il film non abbia goduto di maggiore diffusione perché Rachel è un’opera coraggiosa e piena di dignità.
Vi si raccontano gli ultimi giorni di vita di Rachel Corrie, attivista statunitense dell’International Solidarity Movement uccisa a Rafah il 16 marzo 2003 da un bulldozer dell’esercito israeliano mentre si opponeva alla demolizione della casa di Samir Nasrallah, un farmacista palestinese. Rachel aveva ventitré anni e da un paio di mesi si trovava nella Striscia di Gaza con altri attivisti dell’ISM, impegnati come “scudi umani” durante la seconda Intifada.
La regista franco-israeliana ha raccolto una grande mole di materiale: ci sono le testimonianze filmate dei giovani compagni di Rachel, quelle delle autorità israeliane e quelle degli abitanti palestinesi delle case che gli attivisti dell’ISM erano andati a difendere. Ci sono i genitori della ragazza uccisa, le sue insegnanti e poi numerose immagini di repertorio; la lettura in voce over delle e-mail che Rachel inviò alla madre dalla Palestina si alterna ai racconti di coloro che l’hanno conosciuta e amata.
Due sono essenzialmente gli scopi del film: il primo è ricostruire l’identità della ragazza e tentare di spiegare il motivo delle sue scelte; il secondo è mostrare l’assurdità del conflitto arabo-israeliano; ma tali obiettivi sono in realtà indistinguibili dato che la guerra ci appare tramite lo sguardo di Rachel e dei suoi compagni, mentre questo stesso sguardo muta irrimediabilmente con il passare dei giorni trascorsi nella Striscia. Parimenti, doppio è il merito dell’opera: in primo luogo la regìa mostra grande sensibilità nel raccontare l’anima di una persona “in assenza” e il ritratto della giovane Rachel è profondo e toccante, anche se mai scadente nel patetico. I vari frammenti di testimonianze impiegati nel film si compongono alla fine in un personaggio pienamente delineato, del quale divengono ben chiare le motivazioni e gli scopi: pur essendo figlia della propria cultura d’origine, dell’individualismo e del benessere, Rachel è una figura Altra che trova il senso della propria esistenza nell’esperienza totalizzante dell’Altrove. Esperienza irreversibile, come fanno intuire le lettere alla madre: se anche la morte non l’avesse colta, Rachel non avrebbe potuto fare ritorno a una certa visione del mondo e a un certo miope, tranquillo individualismo; tratti questi che probabilmente non erano mai stati suoi, ma che caratterizzano in maniera sempre più soffocante l’Occidente contemporaneo, ovunque esso sia.
L’altra grande dote del film è la sua misura: Rachel è schierato sì, ma per nulla fanatico. E’ un film che fa domande, che osserva e non condanna. Ciò nondimeno, il suo giudizio è netto nel mostrare la follia di quella guerra e di ogni guerra: perché la guerra non richiede pensiero ma soltanto azione, e trasforma di conseguenza le persone in oggetti ancora prima di stabilire contrapposizioni fra amici e nemici, fra noi e loro. Soltanto così diventa possibile e accettabile sparare per gioco alle case oltre il confine, radere al suolo abitazioni civili come fossero tessere del domino, ignorare del tutto gli attributi di umanità delle persone “dall’altra parte”. La testimonianza del giovane e anonimo carrista israeliano è agghiacciante perché rivela che nel punto in cui egli si trova tutto è ormai perduto in termini di soggettività: restano soltanto ranghi e ruoli, e ordini da seguire; e non rimane spazio per accorgersi delle vite altrui, o tanto meno per fare un paragone tra la propria esistenza e quella di coloro a cui accade di essere considerati, con orribile semplificazione, nemici. A questa immonda cecità, la stessa con la quale l'esercito israeliano tenta di dimostrare che la morte di Rachel è stata un incidente, risultato di una banale catena di cause ed effetti messa in moto da azioni irresponsabili, il film contrappone lo sguardo limpido della protagonista: una visione che ha al suo centro l’individuo, si sostanzia di osservazione e comprensione, e diviene infine scelta e azione concreta – e eroica. Rachel Corrie è stata e rimarrà l’evenienza di un colore diverso, quando l’orrore trabocca e tutto assume la stessa tinta fosca, impossibile da percepire e da capire. E se lo spettro dell’inutilità e dell’oblìo sembra spaventare ancora oggi alcuni fra coloro che furono compagni della ragazza uccisa, il film si conclude con le immagini, malinconiche ma piene di luce, dei graffiti con il nome di Rachel sui muri delle abitazioni di Rafah: a mostrare l’amorevole ricordo della popolazione verso una ragazza venuta dalla parte opposta del mondo per trovare la sua casa.
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