Lettere da Iwo Jima
L'America ha perso l'anima? Non lo so; so soltanto che il suo cinema di anime ne ha ancora parecchie. E tra le più luminose c'è quella del vecchio Clint: vecchio unicamente nel senso affettivo del termine, è ovvio. Perché il suo cinema va oltre qualunque età, è già classico, senza tempo. E oltre a questo, è cinema commovente (in senso etimologico stavolta): ha la capacità di toccare l'anima, di costringerla a muoversi e a interrogarsi, ad andare incontro all'Altro, verso l'altrove e la differenza. Lettere da Iwo Jima è mirabile in tale direzione: la sua empatia è autentica e profonda, la sua comprensione e la sua immedesimazione sono sentite e partecipi. Impressionante è la capacità di Eastwood di entrare in una cultura opposta alla propria, mostrandola dall'interno senza mai farne una banale imitazione, una riproduzione vuota: il film sa fare suo, con garbo e attenzione, lo spirito di chi - con orribili e nefaste semplificazioni - viene considerato Nemico; per poi mostrare come ciò che davvero dà senso all'esistenza sia quel che è comune, condiviso, universale. Una simile comunione si realizza attraverso immagini dalla potenza, appunto, classica: e il regista è così coraggioso da permettersi di girare un film straniero interamente in lingua originale (peraltro con grandi interpretazioni, da parte di attori purtroppo sconosciuti in Estremo Occidente: Ken Watanabe, Kazunari Ninomiya, Shido Nakamura). Clint, ti voglio bene!
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