Soffio
Kim Ki-Duk fa un tipo di cinema che amo particolarmente: astratto, silenzioso, criptico, lento ma con improvvise accelerazioni di violenza e disperazione. I suoi copioni sono sempre piuttosto ineffabili, e quest'ultimo Breathe non fa eccezione: ad un'inizio dal naturalismo quasi ottuso seguono sviluppi imprevedibili e soprattutto totalmente implausibili; ma questo non è assolutamente un problema, perché il cinema di Kim vive di simboli, accostamenti, risonanze e correlativi - oggettivi o meno. La vicenda della languida madre di famiglia tradita dallo stolido marito che si innamora di un condannato nel braccio della morte è soltanto un pretesto per esplorare le possibilità e i limiti estremi del sentimento amoroso: il soffio che dà il titolo al film potrebbe rappresentare la vita, ma anche l'amore, che si può dare, ricevere o togliere; tentare però di ridurre a schema un film del regista sudcoreano sarebbe sbagliato, oltre che probabilmente impossibile. I personaggi di Kim sono sempre soli, in fondo, anche se non da sempre: hanno perso qualcosa, prima o poi nella loro esistenza, e continuano a vivere tentando di riconquistare ciò che hanno perduto, ad ogni costo. Il regista compare qui in una specie di cameo, nel ruolo demiurgico dell'invisibile direttore carcerario che osserva gli incontri fra il condannato a morte e la giovane madre attraverso una videocamera e un monitor: Kim non è estraneo nemmeno all'ironia e all'autoironia, purché esse servano a costruire un universo parallelo a quello reale, che da quest'ultimo mutua i caratteri fisici e psichici basilari ma che funziona in un modo tutto suo. Cinema di ricerca instancabile e imprendibile, che non si cura delle regole e delle convenienze, in questo assai simile alla biografia dell'autore: per Kim la macchina da presa è uno strumento - fra altri - di comprensione ed esplorazione dell'universo, specialmente di quello interiore.
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