Workingman's Death
Non è un buon documentario questo Workingman's Death, diretto da Michael Glawogger e di produzione austro-tedesca. Non mi piace, e anzi mi infastidisce: non perché è un film dal budget molto alto, girato in pellicola con ottime riprese; anzi, ce ne fossero ancora di documentari girati con la profondità formale e sostanziale della pellicola; no, è una questione di sguardo. La regia osserva da lontano, anche quando la macchina da presa tallona le persone e segue da molto vicino le loro azioni; i soggetti sono semplicemente oggetti da studiare, e lo studio non è nemmeno approfondito, ma assai superficiale. Questo film è un paradosso: è stato girato in pellicola, è uscito nelle sale, dura quasi due ore; ma avrebbe dovuto passare al massimo in TV, in un posto come Discovery Channel o roba simile, essere più breve e soprattutto avere più empatia.
Workingman's Death è composto da cinque episodi che intendono raccontare il lavoro manuale nel XXI° secolo; ciascuno ha un banale titolo di sensazione, appiccicato lì solo per fare spettacolo: "Eroi" racconta la vita dei minatori ucraini del Donbass; "Fantasmi" mostra un giorno di lavoro dei portatori di zolfo in Indonesia; "Leoni" scende - con ottuso sadismo - nel girone infernale di un mattatoio a cielo aperto a Port Harcourt, in Nigeria; "Fratelli" narra degli operai che sulle coste pachistane smantellano le petroliere in disuso; infine l'immancabile capitolo sulla Cina, girato nelle fonderie di Liaoning, si intitola - indovinate un po' - "Futuro". In tutte queste storie, nonostante le immagini banalmente spettacolari e le interviste ai lavoratori, non c'è anima. L'"Epilogo" è stato girato a Duisburg, in Germania, nell'ex complesso siderurgico ora trasformato in parco di divertimenti; i protagonisti non sono più lavoratori manuali, ma ragazzini che si rincorrono facendosi scherzi idioti: è qui il centro del film. Lo scopo di Workingman's Death non è comprendere, ma mostrare; non è empatizzare con i lavoratori, bensì spettacolarizzarli, trasformarli in fenomeni da baraccone per noi "fortunati" occidentali che nel lavorare non ci sporchiamo (fisicamente) le mani e non usiamo quasi più i muscoli. Tutti i protagonisti del film odiano il proprio lavoro, e l'insistenza sull'associazione lavoro-morte, a partire dal titolo, è talmente forte che alla fine perde di significato: il lavoro manuale è morte, consiste nella morte, tutto qui; "la morte al lavoro" sarebbe stato un buon titolo italiano, per quanto imbecille, da affibbiare a Workingman's Death. Leggete cosa scrive l'autore sul sito web promozionale del film: "Il lavoro può essere molte cose. Spesso è a malapena visibile; qualche volta, difficile da spiegare; e in molti casi, impossibile da ritrarre. Il duro lavoro manuale è visibile, spiegabile e si può ritrarre. Ecco perché penso spesso che sia l'unico lavoro reale". Belle parole, complimenti. Che fortuna esistano ancora quei poveri disgraziati da ritrarre, eh Michael? Bella la vita del documentarista, fosse sempre così...