Le vite degli altri
E' vero peccato che un film giusto e necessario come Le vite degli altri venga penalizzato da tanti difetti, il più evidente dei quali è un grande problema di sceneggiatura che si manifesta nella schizofrenia dei personaggi: le radicali mutazioni negli atteggiamenti dei protagonisti sono tanto repentine quanto inattendibili, e vengono rese ancora più improbabili da attori che, nella maggior parte dei casi, avrebbero dovuto essere scelti con maggiore cura. Le recitazioni sono a tratti imbarazzanti, soprattutto nel caso della coppia Sebastian Koch-Martina Gedeck (lo scrittore e l'attrice); e anche il terzo protagonista Ulrich Muhe (il capitano della Stasi incaricato di spiare i due coniugi) fornisce un'interpretazione quasi monocorde. Su tutto purtroppo incombe - per l'ennesima volta - lo spettro di una regia simil-televisiva, che appiattisce il film fino alla bidimensionalità propria dei suoi personaggi.
Eppure l'esordio (Oscar 2006 per il miglior film straniero) alla regia di Florian Henckel von Donnersmarck, autore anche del copione, non è da dimenticare. Se il suo film è monotono, senza picchi nè abissi, tale dev'essere stata la vita al tempo della DDR e della Stasi: un tempo nel quale alle persone non era consentito avere nulla per sè, ma tutto andava sacrificato al Partito e al Popolo, in un atroce paradosso per cui le vite di ciascuno dovevano venire annullate proprio in nome del bene comune. Allora, se le recitazioni sono piatte e uniformi, tali dovevano apparire anche le esistenze di coloro che si sono trovati a cercare di sopravvivere in quel buco nero del Novecento. E gli occhi di Ulrich Muhe, nell'ultima inquadratura del film, portano mirabilmente in loro il dolore di un'intera epoca e il peso schiacciante degli errori compiuti, ma anche il desiderio del riscatto e della redenzione.
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