La masseria delle allodole
Rabbia e incredulità sono i miei unici ricordi de La masseria delle allodole, inguardabile pastrocchio dei (furono) Paolo e Vittorio Taviani. Che io sappia, è il primo film - perlomeno in Italia - a raccontare l'orrore senza fine e senza colpevoli del genocidio armeno in Turchia; è tratto dal romanzo omonimo di Antonia Arslan, per quanto liberamente adattato; gli autori sono stati tra i più visionari e anticonformisti della storia del cinema italiano nel secondo Novecento...
Ma sono stati, furono, appunto: nulla sembra essere rimasto della loro forza e della loro identità. Per più di due ore al malcapitato e fiducioso spettatore tocca sopportare, ancora una volta, uno sciropposo film per la televisione gonfiato a 35 millimetri. Personaggi senz'anima, a due dimensioni, deprimenti anche per le interpretazioni da operetta di Paz Vega, Ángela Molina, Mohammed Bakri, Tchéky Karyo, Hristo Jivkov, André Dussolier, Arsinée Khanjian e via maledicendo. Una vergogna ridurre a tal modo questa pagina terribile della storia universale: il "Grande Male", le Marce della Morte, due milioni e mezzo di persone assassinate dai Giovani Turchi... Tutto ridotto e appiattito, trasformato in un melodramma patetico e insulso, scritto malissimo e girato da novellini, senza un moto interiore, senza empatia, nulla. Un disastro.
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