La giusta distanza
Non mi ha convinto l'ultimo film di Carlo Mazzacurati, e anzi ho faticato talvolta a riconoscere l'autore - che ho sempre apprezzato moltissimo - dietro le sue immagini e i suoi personaggi. Eppure il regista padovano con La giusta distanza è ritornato ai luoghi del suo lavoro d'esordio, il bellissimo Notte italiana: a fare da sfondo alle vicenda narrata, oggi come allora, è il paesaggio del Basso Polesine, vicino al delta del Po; oggi quel paesaggio viene mostrato attraverso la fotografia di Luca Bigazzi, certamente il miglior direttore della fotografia oggi in Italia; e Bigazzi fa molto bene il suo lavoro, come al solito, trasformando il paesaggio nel vero protagonista del film. Il problema, per uno che conosca almeno un po' quei luoghi, è proprio la distanza fra il modo in cui sono raffigurati nel film e la loro, oserei dire, ontologia. Bigazzi si accosta al paesaggio con grande rispetto, sapendo di esservi straniero, lui che tanti anni fa esordì splendidamente assieme all'amico Silvio Soldini con un nuovo tipo di rappresentazione dello spazio urbano (penso a Giulia in Ottobre e a L'aria serena dell'ovest): la sua fotografia è sommessa, tenue, e si tiene lontana dalle potenziali suggestioni "bucoliche" di quelle terre remote; eppure è una fotografia, che non aderisce alla realtà di quei luoghi, finendo - a mio parere quasi per eccesso di eleganza, o di ricerca formale - con l'allontanarsi dallo spirito dei luoghi e con l'offrirne una rappresentazione a volte scontata, altre volte eccessivamente "poetica". Le terre del Delta sono estreme in ogni senso: in quei luoghi l'animo si trova contemporaneamente di fronte all'Infinito e al Nulla, mentre la rappresentazione di Mazzacurati e Bigazzi tende ad attenuare le specificità del paesaggio, integrandolo nella generica e inflazionata idea cinematografica della "provincia italiana", con tutte le approssimazioni che ne conseguono. Questa banalizzazione dei luoghi fa il paio con quella dei personaggi: non soltanto di quelli secondari, nel film poco più che macchiette, ma soprattutto dei protagonisti. Buona è l'interpretazione di Hassan data da Ahmed Hafiene, discreta quella di Mara ad opera di Valentina Lodovini; ma entrambi i personaggi a mio parere hanno difetti di scrittura, specialmente quello della ragazza (non è ben chiaro quanto la sua superficialità e il suo comportamento quasi casuale siano volontà oppure "sviste" del copione, o della regia). Anche il narratore, Giovanni, interpretato dal notevole esordiente Giovanni Capovilla, è controverso: per tre quarti del film la sua presenza sulla scena è strumentale soltanto a quella della sua voce narrante, oltre che al tentativo di costruire un intreccio giallo peraltro assai malriuscito. E proprio la volontà di Mazzacurati di girare un film che, partendo da sotto-generi ben precisi (film "di provincia", storia d'amore interrazziale, giallo, film di denuncia) risulti altro dalla sommatoria dei sotto-generi stessi, porta alla estrema fragilità dell'impianto narrativo, lontanissimo dalla solidità e dalla compattezza di opere come Un'altra vita, Il toro o Vesna va veloce; mentre qui, e dispiace molto dirlo, si è ancora una volta più vicini allo sguardo e alla dimensione della fiction televisiva. Mazzacurati, a differenza di quello che accade al suo giovane protagonista, non sa tenere la giusta distanza: il suo sguardo vuole essere troppo comprensivo, e così il regista si allontana dall'umanità dei suoi personaggi e dallo spirito dei suoi luoghi.
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