domenica 21 dicembre 2008

Changeling

Come può un film essere tanto splendido mentre visita i recessi più terribili dell'essere umano? Come accade che un'estetica puramente classica, adamantina, sia in grado di misurarsi con l'orrore assoluto e di tenergli testa senza deformarsi? 
A Clint Eastwood non interessa tanto narrare una storia terrificante, realmente accaduta nella Los Angeles del 1928, quanto fare il ritratto morale di una società. Ciò è particolarmente evidente nella prima metà del film, la migliore, in cui si avverte con dolore e incredulità la presenza di una follia diffusa che, come un'epidemia, ha atrocemente contaminato non soltanto alcuni singoli, ma anche le stesse istituzioni; e forse, un'intera cultura. E' pazzia, e nient'altro, l'agire di Gordon Northcott (Jason Butler Harner), cacciatore di umani; ma anche quello del capitano J. J. Jones (Jeffrey Donovan), investigatore del LAPD, o dello stesso capo della polizia, James E. Davis (Colm Feore); e addirittura è follia il comportamento del dottor Jonathan Steele (Denis O'Hare), psichiatra e direttore di un manicomio criminale. Tale follia collettiva sembra poter sopraffare anche una persona come Christine Collins (Angelina Jolie, matura e misurata: brava), una delle poche che ancora sappiano distinguere fra realtà e finzione. La società intera sembra ad un certo punto attaccare Christine, mobilitandosi per distruggerne l'immagine e l'interiorità: e in platea si assiste con profonda angoscia a questo gioco tremendo e insensato, all'orribile spettacolo del Potere che calpesta impunemente verità e giustizia. Come, in cosa si può ancora sperare, a questo punto?
Eppure Christine compie un miracolo: non perde la speranza. E lo fa non per se stessa, non con propositi di vendetta, ma unicamente per amore; non si lascia distruggere dal male, rifiuta di lasciarsene contaminare. E nel frattempo, impossibile dire come o perché accada, altre persone che si rifiutano di piegarsi allo stesso male iniziano a convergere verso un unico proposito: cercare di ristabilire un equilibrio, combattere contro quella follia che sembra poter coprire ogni cosa.
E' un cinema altamente e squisitamente morale, quello di Clint Eastwood; ed è troppo facile pensare che si tratti del cinema di un giusto, che parla semplicemente ad altri giusti. Questo cinema è come uno specchio, e se gli specchi sono fatti per riflettere, vuol dire che al centro di esso c'è una domanda, un instancabile interrogarsi, un mistero. Guardate la scena dell'esecuzione, al centro della seconda parte del film, e chiedetevi se lo sguardo di Eastwood abbia in sè più compiacimento che pietà. Io non so dare una risposta, riesco soltanto a sentire quelle domande: come si può essere giusti? Come si può continuare a sperare?

giovedì 18 dicembre 2008

Redacted

E' un dannato capolavoro, Redacted. Di quelli che ti lasciano muto, annichilito mentre scorrono i titoli di coda. E cosa vuoi dire ancora? Nulla da aggiungere o da togliere... 
C'è la morte, al centro del film. La morte di ogni cosa. La morte dello sguardo, innanzitutto; e con essa la morte della pietà, e come logica conseguenza la morte del concetto stesso di umanità. Nulla vi è di umano in Redacted: non lo sono i soldati americani sul fronte di Samarra, nè le loro vittime o i loro carnefici iracheni. L'umanità è scomparsa dalla scena, perché non vi è più modo di vederla: non esistono più possibilità percettive che permettano un ancoraggio non già a qualche sorta di verità, ma perlomeno a una visione condivisa, una forma che permetta un riconoscimento reciproco. Non c'è più nulla, soltanto registrazioni monoculari di momenti che si susseguono nel tempo lineare, inconciliabili le une con le altre.
Se il film è scritto e diretto dal maestro Brian DePalma, è già ben chiaro come la macchina da presa possa mentire, ventiquattro volte al secondo. Ma qui non rimane più nemmeno la menzogna, perché non esiste più verità: la guerra, e ancor più di essa la nostra contemporaneità, negano ontologicamente e drasticamente l'idea stessa della verità. Il "vero" è una bugia, anzi, pensare che esista qualcosa di "vero" è pura follia. Non è soltanto questione di manipolazione mediatica: sono gli esseri umani ad essere irrimediabilmente persi nell'autoreferenzialità, prigionieri del loro singolo punto di vista, per il quale soltanto ciò che è "documentato" può avere il benché minimo valore. 
E a questo punto, cosa importa che il film sia ispirato a fatti realmente accaduti? Non c'è salvezza nel modo più assoluto, secondo DePalma, semplicememte perchè "i fatti" non esistono più, infinitamente riflessi e frammentati, rimbalzati come pura informazione da una parte all'altra del globo, ovunque esista un'infrastruttura per la registrazione e la trasmissione di ciò che è meramente visibile. Ma persino le foto che si susseguono alla fine del film sono state create "artificialmente"...
Ecco, a tutto questo si aggiunge poi l'infamia definitiva: Redacted, che ha vinto il Leone d'Argento a Venezia 2007 per la migliore regìa, non è stato distribuito in Italia. Non me lo sto inventando, ecco uno dei link che lo confermano: vuol dire che il film non è stato proiettato in nessuna sala cinematografica di questo paese (lettera minuscola); soltanto gli abbonati di Sky hanno potuto vederlo; io l'ho avuto per altre vie. Negli stessi Stati Uniti il film ha avuto una distribuzione pessima, soltanto nei circuiti d'essai o underground che dir si vogliano. Come accade una cosa del genere? Non chiedetelo a me; io credo soltanto che sia una questione di potere (sempre lettera minuscola), e il potere è tanto più forte quanto più sa far credere di non esistere.

lunedì 15 dicembre 2008

Machan

A prima vista sembra un film di fattura inglese, proprio come Full Monty o Sognando Beckham: fattura ottima dunque, con quell'estetica working-class dietro la quale si cela un artigianato filmico di prima qualità. Ma il regista è italiano e si chiama Uberto Pasolini (che per Full Monty fu produttore, undici anni fa); il cast è tutto singalese, la produzione è anche tedesca. E uno pensa: se questo non è un prodotto tipico della globalizzazione, la globalizzazione non esiste... Invece non siamo al fast-food del grande schermo, forse anche perché Machan racconta una storia vera. Vera, e in qualche modo eroica; una storia di coraggio, che però fa sorridere. Che bello questo cinema che ti stupisce, e ti commuove anche (bellissima la scena finale); come si sta bene quando si entra in un cinema soltanto per far passare un paio d'ore senza pensare, e se ne esce sentendo di avere guadagnato qualcosa. A parte questo, Machan è un ottimo spettacolo: regia robusta e senza fronzoli, copione che mescola bene i toni e le emozioni, con il ritmo giusto; attori di mestiere e in gran forma.

Galantuomini

Niente male l'ultimo lavoro di Edoardo Winspeare: che non è, occorre ricordare, una storia d'amore, bensì un bel ritratto femminile che si regge in gran parte sull'ottima interpretazione di Donatella Finocchiaro. L'attrice catanese offre qui una delle prove migliori della sua carriera e mostra una grande maturità e la ormai totale padronanza dei propri mezzi espressivi. Un film al femminile quindi, nonostante il titolo (che è del tutto ironico). C'è sicuramente qualche imperfezione nella scrittura, qualche personaggio di troppo sullo sfondo; talvolta anche la protagonista è un po' sfuocata... Ma l'energia e il coraggio di Lucia, femmina salentina dalla doppia vita, hanno valso alla Finocchiaro il premio come migliore attrice all'ultimo Festival di Roma. Invece mi aspettavo un po' di più da Fabrizio Gifuni, altro grande attore, ma qui forse un po' troppo fuori parte: il suo magistrato di origine salentina, cresciuto professionalmente a Milano e ora tornato a Lecce, è ambiguo da copione e interpretato di conseguenza, ma mi è sembrato mancare di sfumature e appiattirsi progressivamente nel corso del film; è comunque lui a rappresentare, più di tutti gli altri, i "galantuomini" del titolo: incapace di tenere fede agli obblighi di coscienza richiesti dalla sua professione soltanto per soddisfare i propri desideri carnali, il giudice si dimostrerà anche persona poco coraggiosa e non in grado di sfidare le regole della "buona morale" in nome dell'amore... Ma ripeto, tutto il genere maschile esce malconcio dal film di Winspeare. Bella la scena finale.

venerdì 28 novembre 2008

Pa-ra-da

Bello l'esordio alla regìa di Marco Pontecorvo, che di mestiere fa soprattutto il direttore della fotografia. Un film pieno di sentimento, ma per niente patetico; al regista interessa più mostrare che dimostrare, e ci riesce bene. Pa-ra-da è secco e rapido, un gran racconto, anche se a volte un po' disarticolato; e la rapidità non va a scanso dell'interiorità dei personaggi, che sentiamo vicinissimi grazie soprattutto alla recitazione di un gruppo di prodigiosi attori ragazzini.

Non può mancare, com'è ovvio, la luccicanza etica di tutta l'operazione; ma Pa-ra-da è un film che racconta persone, non buone pratiche, ed è qui che sta il suo valore, oltre che nell'efficacia narrativa. Evito di raccontare la storia dell'associazione, del suo fondatore e delle loro attività: se vi interessa, trovate tutto qui. Il mio consiglio è semplicemente di andare a vedere il film, se non l'avete già fatto: perderete un po' di fiducia, forse, ma guadagnerete altrettanto in speranza.

Nessuna verità

Body of Lies è un film di poca importanza, tutto sommato. La sceneggiatura è un casino, in senso deteriore: soprattutto non riesco a trovare una logica nei rapporti fra i protagonisti, e nelle loro psicologie. Il personaggio Roger Ferris, in particolare, non ha nè capo nè coda: perché mai un agente della CIA pronto ad uccidere a sangue freddo e a distruggere per lavoro la vita della gente dovrebbe ad un certo punto farsi venire dei sensi di colpa? O preoccuparsi per qualcuno? E perlopiù, perchè dovrebbe farlo in maniera intermittente? Non si capisce poi la natura del legame che esiste fra Ferris e il suo capo Hoffman: lealtà, contrasto, disgusto, rispetto, boh! Il plot in sè, pure, non è niente di speciale: nulla di particolarmente illuminante sui metodi della CIA o sulla situazione del Medio Oriente contemporaneo, una storia non particolarmente avvincente, nemmeno un tentativo di spiegare qualche perché su come vanno le cose da quelle parti. Si punta soltanto allo spettacolo, m non si arriva neppure a quello: lo sceneggiatore, William Monahan (oscar per The Departed) qui ha fallito su tutti i fronti. La regia di Ridley Scott ormai è standardizzata: tiene bene, è robusta, ma non dà particolari emozioni. Da segnalare semmai è il buon feeling che sembra essersi instaurato fra il regista e Russell Crowe, che è al suo terzo film con Scott e la cui interpretazione qui è la cosa migliore di tutto il film; non si può dire la stessa cosa di Leonardo DiCaprio, e dispiace: questa non rimarrà certamente fra le sue performance da ricordare. Ma bisogna ricordare che, per quanto un attore sia bravo, non può dar vita a un personaggio che non funziona.

giovedì 27 novembre 2008

The Hurt Locker

The Hurt Locker è uno strano film. Per essere preciso, direi che è un'opera disturbante, a tratti addirittura misteriosa. Eppure ha un andamento lineare, uno stile che, per quanto deciso, è quasi "canonico": macchina sempre a mano e assai mobile, luce naturale, primi piani, insomma: il famigerato stile documentaristico. Qui, si intende, declinato alla maniera di Kathryn Bigelow, ovvero con dosi massicce di adrenalina, tensione sempre al massimo, personaggi "al limite". Io sono un grande fan della Bigelow, mi piace quel cinema "forte", che non dà tregua, assolutamente nevrotico ma tecnicamente ineccepibile e sempre di grande originalità: Blue Steel, Point Break, Strange Days per me sono piccoli capolavori.
E così fa un effetto particolare, e molto piacevole, ritrovare la Bigelow dietro la macchina da presa in un film di guerra. Una "femminista" come lei dirige un film di soli uomini, soldati nell'Iraq infernale di oggi: anche soltanto per questo varrebbe la pena vedere The Hurt Locker; ma c'è molto di più. Già il raccontare una guerra mentre ancora si sta svolgendo non dev'essere cosa facile. Se sei americano e decidi di girare un film sull'Iraq contemporaneo, immagino che la tua coscienza prima o poi ti chiederà da che parte hai deciso di stare; una domanda non semplice (se sei americano, soprattutto) che non accetta risposte facili. E infatti questo film è tutt'altro che facile; si apre con una citazione molto forte e passa immediatamente all'azione, letteralmente. Due ore e mezza di film che quasi volano via, mentre si assiste con gli occhi sgranati alla vita di una squadra di artificieri, quelli che devono disinnescare gli IED per le strade delle città irachene. Ogni missione potrebbe essere l'ultima, il confine fra la vita e la morte è talmente labile che l'esistenza umana perde ogni valore, che sia quella della popolazione locale o dei propri compagni d'armi. Eppure il protagonista del film, il sergente William James (benissimo interpretato da Jeremy Renner) è un enigma: maestro nel suo lavoro, sembra credere ancora alla vita ma affronta ogni missione da puro incosciente, come se nulla gli importasse di se stesso e degli altri; si affeziona ad un bambino iracheno, ma non sa essere padre per il proprio figlio, o marito per la propria moglie. Una schizofrenia di cui la Bigelow sa dare conto benissimo, con uno sguardo perfettamente equilibrato fra l'empatia e la fredda distanza del puro osservatore. Si è affascinati dal sergente James, ma non lo si riesce a comprendere; anche alla fine del film, mentre si conclude l'ultima sequenza, si ripensa alla citazione d'apertura e ancora non si riesce a trovare una risposta: come può la guerra dare dipendenza, essere una droga, al punto da portare via ogni altra cosa dalla vita di un uomo? E' questa la domanda più importante che la coscienza pone alla Ragione, al di là di ogni schieramento o appartenenza, e Kathryn Bigelow l'ha capito molto bene. The Hurt Locker è un film bellissimo, in cui si ritrovano tutti i temi amati dalla regista: la techné che irrompe nella vita degli esseri umani e la trasforma radicalmente; l'amore per le situazioni estreme, uniche occasioni in cui si manifesta la vera natura delle persone; e anche il principio femminile come via per la salvezza, anche se in The Hurt Locker ciò si percepisce proprio nell'assenza di tale principio salvifico, o nell'incapacità di comprenderlo da parte del protagonista. Oltre tutto questo però, The Hurt Locker è un'indagine inquietante sulla psiche, e su quanto ancora vi sia in essa di umano.

lunedì 24 novembre 2008

La terrazza sul lago

Lakeview Terrace è il nuovo film di Neil LaBute, regista e drammaturgo americano di cui ho amato soprattutto due film: l'esordio folgorante del 1997, In the company of men, e Nurse Betty, del 2000. Dico subito che quest'ultimo lavoro non è all'altezza di quei due precedenti; ma LaBute ha un tocco particolare, che si percepisce chiaramente anche in questa nuova opera.
I problemi riguardano soprattutto il copione e gli attori, e la loro sintesi sta tutta nel protagonista del film: il poliziotto di colore Abel Turner, interpretato da un Samuel L. Jackson stranamente non eccelso. Il personaggio di Turner non arriva mai alla verosimiglianza: non è tanto il fatto che si tratti di un villain eccessivo quanto contraddittorio; il problema è che le varie componenti del suo carattere sono come scollegate, e semplicemente ammassate una sull'altra: al di là della mancanza di logica - o della perversione di ogni logica - che lo caratterizza, Turner è soltanto un personaggio, e non arriva ad essere persona. Ripeto, si tratta di un problema di scrittura in primo luogo, e di recitazione in misura minore: probabilmente il vecchio Sam Jackson non si è trovato molto a proprio agio nel dover interpretare un personaggio scritto in modo così scombinato: impossibile trovare una "media" emozionale dalla quale partire. Jackson ci mette comunque del suo, ed è sempre un piacere vederlo al lavoro; ma dato che Lakeview Terrace si regge quasi del tutto sul suo cattivo protagonista, i guai diventano molto visibili.
E' un film che vale la pena vedere? Non ne sono sicuro. Ma la cattiveria sincera di LaBute, la sua capacità di sviscerare i conflitti latenti fra le persone a livello sociologico ed emozionale, questa c'è tutta. Dal punto di vista tematico non si vede nulla di nuovo: l'uomo oscuro della porta accanto, il poliziotto corrotto, i problemi etnici a Los Angeles... Tutte cose che fanno parte dell'immaginario hollywoodiano da un bel pezzo. Ma lo sguardo luciferino del regista, il cinismo che non risparmia nessuno, il disincanto al vetriolo danno a questo film il suo unico autentico valore.

Le tre scimmie

Mette quasi soggezione il film di Nuri Bilge Ceylan, regista turco di Istanbul, classe 1959. Migliore regia a Cannes 2008, Ceylan non è nuovo alle vittorie, sulla Croisette e altrove; io non lo conoscevo prima di quest'anno, e ho letto su Wikipedia che di mestiere fa anche il fotografo. Sto perdendo tempo volutamente con queste note biografiche, perché non so da dove cominciare per parlare del film... Opera oscura, morbosa e affascinante, Le tre scimmie è pervaso da un'atmosfera soffocante, una claustrofobia che non viene per nulla mitigata dagli squarci assolati sul Bosforo, o dal luminoso paesaggio anatolico. In effetti gran parte dell'"azione" si svolge all'interno di un modesto appartamento alla periferia della capitale, casa nella quale abita una famiglia di tre persone, padre madre e figlio. Pieno di silenzi tesi e opprimenti, il film procede con un sapiente accumulo di reticenze, fatti inspiegati e visioni, senza lasciare tregua allo spettatore. Fin dall'inizio si percepisce un senso di tragedia imminente, di catastrofe; ma Ceylan non mostra tale catastrofe nel suo avvenire, come se al regista interessasse molto di più analizzarne le cause, anzi, la catena di eventi successivi all'avvenimento casuale e tragico che apre il film. Fin da quel primo momento, una punizione sembra certa per i protagonisti; ma quando tale punizione arriva, per ognuno si tratta di qualcosa di inaspettato e aleatorio, come se i personaggi venissero colpiti dal Caso laddove meno se lo aspetterebbero. E così da un fatto esterno e accidentale, di cui i tre personaggi principali non hanno alcuna colpa, si sviluppa una serie di eventi che non solo travolgeranno i protagonisti e distruggeranno i loro rapporti reciproci, ma li renderanno anche colpevoli a loro volta.
Non ci sono risposte nel film, semplicemente perché nemmeno le domande vengono poste: Ceylan mostra avvenimenti che accadono, uno dopo l'altro, legati da nessi più o meno casuali, più o meno decisionali: e il rapporto, mai svelato, fra caso e libera scelta è al centro del film. Le proporzioni di tali componenti nelle vite dei personaggi non sono mai chiare; appare ben chiaro, invece, che la salvezza non è possibile. E' senza musica e senza speranza, Le tre scimmie: rimane soltanto lo sguardo, interiore o meno, per cercare di avvicinarsi al mistero dell'esistenza umana.

martedì 18 novembre 2008

La classe

Mica facile parlare di questo bel film di Laurent Cantet, regista di cui sin dall'inizio ho amato il lavoro. Mica facile non tanto per il logo della palma dorata stampigliato prima dei titoli di testa; quanto piuttosto perché, nonostante la linearità e la semplicità stilistica che lo caratterizzano, si tratta di un'opera complessa, anzi, iper-complessa. Innanzitutto Entre les murs porta lo stesso titolo del romanzo da cui è tratto, pubblicato nel 2006 e scritto da un vero professore di francese che narra la propria esperienza in una scuola media del XX° arrondissement di Parigi; il quale professore, François Bégaudeau, è anche coautore della sceneggiatura nonché protagonista del film, nelle vesti di un professore di francese di nome François. Gli alunni sono tutti ragazzi presi dalla scuola media del XX° di cui sopra. Questa la superficie delle cose. Oltre, cominciano le domande: di cosa parla davvero il film? Del sistema educativo francese, di una scuola della banlieue, della Francia contemporanea? Delle persone e dei loro rapporti in un contesto strutturato e regolamentato? Della responsabilità individuale, della colpa? Non lo so. Probabilmente di tutte queste cose assieme, senza sbilanciarsi; ma non senza prendere posizione, perché è abbastanza chiaro al termine del film che, almeno secondo gli autori, a perdere di più sono sempre i ragazzi.
Entre les murs parla della scuola francese, sì, ma tende a portare il proprio discorso a un livello superiore di astrazione: nonostante lo stile documentaristico, la macchina a mano, la luce naturale, il fatto che la vicenda si svolga tutta all'interno della scuola tende a connotare quest'ultima come universo chiuso e autoreferenziale, eterno, con proprie regole, gerarchie e sanzioni. Un tale ambiente autoreferenziale, se da un lato presenta caratteristiche che mettono in secondo piano la sua appartenenza geografica e culturale, dall'altro lato è un contesto sterile, freddo, scollegato dalla realtà "esterna", e pertanto inutile e vano. L'analisi di Cantet e Bégaudeau dunque, se ad un primo livello appare di tipo sociale, è in realtà soprattutto metafisica. A questo tipo di lettura si ricollegano le ultimissime scene del film, nelle quali lo sguardo della macchina da presa si libera di una certa pesantezza "da inchiesta" e assume infine una levità "filosofica". Va da sè che non ci sono risposte; e come potrebbero esserci, quando la materia di cui si tratta è l'umanità stessa? Umanità, tra l'altro, benissimo rappresentata dal professore protagonista e dalla sua classe, tutti ottimi attori.

Control

E' magnifico e straziante, Control. Bellissimo, come quelle persone la cui interiorità traspare in superficie e illumina lo sguardo e i gesti, creando un'aura. Con intensità "autoriale" e devozione profonda Anton Corbijn racconta, nel suo primo lungometraggio di finzione, la vita di Ian Curtis. Prima ancora di essere la voce e l'anima dei Joy Division, Ian è stato un eroe romantico, nel senso che gli studi letterari danno a questa definizione. Non a caso arriva all'inizio del film la citazione, sotto forma di versi declamati dal protagonista, di William Wordsworth; e Corbijn compie un miracolo, tacitamente, portando il romanticismo nella periferia di Manchester, nell'Inghilterra sfasciata dalla fine degli anni '70 del secolo scorso. In un bianco e nero quasi insaturo, senza ombre, con tanto silenzio e poca musica over. Una forma che contrasta in pieno con il clima di quegli anni e quei luoghi, ma che è pienamente sostanza del protagonista, splendidamente interpretato da Sam Riley (davvero grande, assai più di una promessa). Un altro grande merito del film è poi quello di narrare l'esistenza di Curtis non in funzione dell'ultimo suo momento, ma partendo dall'inizio; il contrario di quello che fece Michael Winterbottom nell'orribile 24 Hour Party People, in cui Ian Curtis non era persona ma semplice figura, manichino assurdo, oscenamente inverosimile; un film di cui vergognarsi.
Corbijn invece ha firmato un piccolo capolavoro di sensibilità e umanità, di introspezione e mistero, senza estetismi fini a se stessi; nessuno potrà mai capire del tutto la vita di Ian Curtis, se non forse le persone che l'hanno conosciuto e amato; e il film si guarda bene dal dare stupide spiegazioni o interpretazioni; si mette - e ci mette - semplicemente in ascolto, con una innocenza e una leggerezza mirabili e con profonda, vera empatia. Un applauso alla regia, agli autori e agli attori, alla fotografia e a tutti coloro che hanno contribuito a realizzare questo film; quanto alla colonna sonora, non posso aggiungere nulla; se non che mi vergogno di non avere mai ascoltato i Joy Division fino a pochi giorni fa. Credo di avere appena cominciato.

lunedì 10 novembre 2008

Il passato è una terra straniera

Non funziona, l'ultimo film di Daniele Vicari. Lo scrivo con tristezza, perché Vicari è un bravo regista; però Il passato è una terra straniera è stato una grande delusione. Tutto lascia un po' a desiderare: la regia, il copione, la recitazione. Vicari perde ben presto il controllo del film, dopo un inizio promettente e pieno di atmosfera: il racconto si sfrangia, perde senso, si abbandona allo sterile autocompiacimento di sequenze tanto crude quanto insignificanti. Ma dal punto di vista narrativo il film è tutt'altro che agile; parte molto veloce ma non sa conservare il moto iniziale, e alla fine si ferma del tutto; - l'ultima parte è davvero insopportabile, non per la violenza ma per la noia.
Il vero problema del film è però il copione. Il lavoro è tratto dall'omonimo romanzo del 2004 di Gianrico Carofiglio, magistrato barese divenuto famoso negli ultimi anni per i suoi romanzi e saggi; la sceneggiatura è opera di Vicari, Gianrico e Francesco Carofiglio e Massimo Gaudioso. Bene, io non ho letto il libro, ma la scrittura del film è pessima e non si fa mancare neppure gli errori drammaturgici più banali. Il punto più catastrofico del film è il finale, dalle sequenze ambientate a Barcellona in poi: qui si intuisce quello che il film vorrebbe dire, ma ciò viene detto talmente male che perde senso, non sta in piedi. I "buchi neri" drammaturgici non mancano comunque in tutto il film, e mi chiedo se con una sceneggiatura scritta meglio, anche la regia avrebbe potuto essere più robusta. 
Terzo grande problema del film sono, ebbene sì, gli attori. Il difetto nasce sicuramente in fase di scrittura e si aggrava passando per la regia, dato che nessuno degli autori del film ha le idee davvero chiare sui personaggi; la cosa strana è che lo stesso Carofiglio avrebbe potuto in qualche modo intervenire, e non l'ha fatto; se questo significa che il suo romanzo è ben "portato" dal film, i casi sono due: Carofiglio non è un esperto di scrittura per lo schermo, oppure non è un buon romanziere (la prima ipotesi è probabilmente la più verosimile). Ad ogni modo, ecco il cast: Elio Germano protagonista, Michele Riondino copro/an-tagonista, Chiara caselli, Marco Baliani, Daniela Poggi, Valentina Lodovini. Nessuno fa il suo mestiere come saprebbe farlo; forse Vicari non è molto comunicativo con i suoi attori, fatto sta che perfino Elio Germano lascia a desiderare: gira al minimo, si scalda soltanto in un paio di scene (nemmeno molto sensate) e per il resto tira a campare; intendiamoci, non che il suo sia un personaggio memorabile: del suo carattere si capisce poco o nulla, non si sa bene come o perché decida improvvisamente di provare una vita differente e poi di ritornare indietro; l'altro personaggio principale, il baro, è ancora peggiore: dovrebbe essere un mostro a due facce nell'intenzione degli autori, ma è soltanto uno smidollato senza interiorità. Daniela Poggi è inespressiva come non mai, Marco Baliani è come bloccato, Valentina Lodovini è una bambolina e nulla più. Insomma, tutti quelli che hanno lavorato in questo film, autori e attori, avrebbero potuto fare - e hanno fatto in passato - ben di meglio. Evidentemente la chimica ha la sua importanza, al cinema come altrove.

mercoledì 5 novembre 2008

Vicky Cristina Barcelona

C'è poco da ridere negli ultimi film del vecchio Woody, e quest'ultimo non fa eccezione. E' un lavoro ben riuscito in fondo, che non fa rimpiangere i film precedenti. In Vicky Cristina Barcelona ho ritrovato lo stesso nichilismo cupo percepito in Sogni e delitti, ma con una sostanziale differenza stilistica: il regista ha dato al suo primo film "spagnolo" un'aura volutamente e totalmente posticcia, un senso irritante di finzione esistenziale all'interno della finzione filmica. I personaggi ritratti in Vicky sono del tutto antinaturalistici: vivono giorni superficiali, all'insegna della precarietà sentimentale, prigionieri e schiavi del proprio ego; e tutto questo ha luogo in una scenografia volutamente "turistica", che copre tutti i luoghi comuni su - e di - Barcellona, la Spagna e i suoi abitanti. Lo stesso regista ha dichiarato che voleva rappresentare il Paese iberico attraverso lo sguardo dei viaggiatori stranieri che vi trascorrono le loro vacanze più o meno durature, si tratti di due mesi di studio nella capitale catalana o di un'esistenza intera dentro un matrimonio senza amore; e perfino la voce fuori campo, onnipresente quanto sgradevole, alla fine ha una sua ragion d'essere in un tale contesto di pura fatuità; anzi, la voce over è lo strumento unico al quale l'enunciazione si affida per descrivere la psicologia dei personaggi e le ragioni che li muovono; senza di lei, essi apparirebbero automi insensati (ben più di quanto lo sembrino alla fine del film, in ogni caso). E a forza di incroci amorosi e di mosse sulla scacchiera, Woody sembra perfino voler costruire uno schema e dare un messaggio strutturato, verso la fine; invece niente, anche quello schema è finto e non porta da nessuna parte. Le protagoniste se ne torneranno in America esattamente come erano partite, e le loro esistenze rimarranno vuote e precarie com'erano prima del viaggio in Spagna. Così siamo noi tutti, sembra pensare Allen: turisti mordi-e-fuggi della vita intera. Si prende qualcosa di qua e qualcosa di là, si fanno un sacco di fotografie e ci si racconta un mucchio di storie, ma alla fine è tutto inutile, si ritorna sempre alla propria natura, buona o cattiva che sia, migliore o peggiore delle altre. L'unica cosa che ci rimane, anche se serve a ben poco.

venerdì 31 ottobre 2008

Non pensarci

E' bravo, Gianni Zanasi. Questo film non è impeccabile, ma di certo lascia un segno profondo. Il titolo è perfetto, tanto per cominciare: un imperativo apparentementre amichevole e leggero, che nasconde un pesante paradosso. Che cos'è una situazione paradossale? Cerco di ricordare le stronzate che mi hanno insegnato all'università quando fingevo di studiare "psicologia del linguaggio e della comunicazione": trattasi di una situazione nella quale un povero cristo si ritrova automaticamente dopo che qualcuno gli ha detto qualcosa appunto come <<non pensarci>>, o <<sii spontaneo>> o <<sii te stesso>>, ovvero gli ha dato un "comando" la cui esecuzione comporta automaticamente la trasgressione del comando stesso. Cerco di spiegarmi: come fai a non pensare a una cosa quando uno ti dice di non pensarci? Per smettere di pensarci devi prima pensare a quella cosa, e così ti ritrovi un casino pazzesco dentro la testa; se non ricordo male, tali situazioni paradossali sono talvolta corresponsabili - fatte le dovute proporzioni - dell'insorgere di atteggiamenti e/o patologie di tipo schizofrenico. Perché vado a rivangare queste cazzate da università? Perché lo scopo del film di Zanasi è proprio quello di raccontare la follia della vita contemporanea, possibilmente facendo riflettere per bene anche chi si trova da questa parte dello schermo (con me ci è riuscito, nel senso che mi ha creato un bel rovello interiore, tuttora in attività; vediamo se dormendoci sopra...). E schizofrenico è anche lo stile del film: perché per farci pensare, Zanasi ci fa ridere come dei matti. E' una comica quasi continua, e davvero divertente, a parte qualche trovata di sceneggiatura un po' troppo improbabile. Ma dove ha origine questa comicità dal fondo amarissimo? Innanzitutto dalle differenze fra i protagonisti: le loro caratteristiche peculiari li portano all'attrito continuo, fra loro e con il mondo esterno, e Zanasi è stato efficace in fase di scrittura e di regia nel ritagliare figure nette, solide, prigioniere di loro stesse ma in contrasto totale con la società che le circonda. Un grande aiuto viene anche dalle ottime interpretazioni dei fratelli Valerio Mastandrea (sempre in bilico fra un dolore reticente e un'indolenza fisiologica) e Giuseppe Battiston (caustico e svampito insieme, con tracce di idealismo e generosità): il loro continuo scontro li porterà infine a scambiarsi i ruoli e perfino i temperamenti; ma non c'è schematismo, nè manca mai la sostanza umana in tutti i personaggi, perfino quelli marginali (forse il meno riuscito è la madre, un po' approssimativa, un po' macchietta, forse anche banale).
Il regista modenese ci mostra fra una risata e l'altra che la vita di relazione è qualcosa di assurdo; che le bugie non è detto siano peggio della verità a tutti i costi; che non ci sono vie di fuga; e che se il mondo non ti schiaccia, ti lascia comunque solo. Nel finale non c'è speranza, ma solo un punto interrogativo; tutto rimane sospeso, soluzioni provvisorie sembrano profilarsi all'orizzonte senza dare un senso alle vicende dei singoli... Ci provo a non pensarci, ma è come guardarsi allo specchio.

venerdì 24 ottobre 2008

Fine pena mai

Qui ci starebbe il turpiloquio. Primo, perchè questo film è una schifezza inguardabile, un niente. Secondo, perché Fine pena mai è stato riconosciuto, incredibilmente, film d'interesse culturale nazionale dal Ministero per i Beni Artistici e Culturali; è stato finanziato da Eurimages (il Consiglio d'Europa!), dalla Regione Puglia e dalla Provincia di Lecce. Com'è possibile che un simile pasticcio abbia avuto aperte tutte le porte? Non funziona nulla in questo film, nulla; la sceneggiatura è uno scandalo: dovrebbe raccontare la storia vera dell'ergastolano Antonio Perrone, boss della Sacra Corona Unita che sta scontando una condanna a 49 anni sull'Asinara (il film è tratto da un suo libro autobiografico - sì, qualcuno ha pubblicato le memorie di questo tizio); beh, non ci si capisce nulla! Non ci si spiega come quest'idiota abbia potuto diventare quel che è diventato, come abbia cominciato e come abbia finito: il film proprio non lo dice, i nodi narrativi più importanti semplicemente non esistono. Il montaggio di Roberto Missiroli è banale quando non del tutto inappropriato: perché mi fai un alternato se poi la scena finisce nel nulla? Perché mi metti un arresto concitatissimo all'inizio del film e poi le sequenze del carcere dove non si vede anima viva? Ma la cosa peggiore del film sono i protagonisti, poco più che fantocci: il rapporto che lega il boss alla moglie è semplicemente assurdo, perché non c'è senso nelle azioni dei due. Da cosa sono spinti? Che cosa desiderano, cosa cercano? Cosa li tiene assieme? Non si sa, nulla si può supporre, non vi sono indizi o ipotesi da parte degli "autori". Già, gli autori: gli sceneggiatori sono Massimiliano e Pierpaolo Di Mino con Marco Saura; i due registi, Davide Barletti e Lorenzo Conte, fanno parte del collettivo Fluid Video Crew, fondato a Roma nel 1995 da quattro videoartisti di origine pugliese, se non sbaglio. Beh, tutte queste persone è meglio che lascino perdere il cinema, non è il loro mestiere. Ragazzi, come si fa a mettere la voce fuori campo del protagonista se egli stesso non sa dare conto delle proprie azioni? Tanto peggio se si tratta della voce atona da cane bastonato di Claudio Santamaria, qui in una delle sue peggiori interpretazioni (e già il ragazzo non è fra i migliori attori italiani del momento); per tacere di Valentina Cervi, pure lei di solito non eccelsa, che qui ha soltanto un'espressione per tutto il film. Un disastro insomma, la pena che non finisce mai è soltanto quella del povero spettatore; e il film dura soltanto un'ora e mezza.

giovedì 23 ottobre 2008

Miracolo a Sant'Anna

Non mi è piaciuto l'ultimo joint del vecchio Spike, ci ho visto diverse cose che non funzionano. La prima è il racconto: casca a pezzi, la forma non tiene. Il film è una serie di episodi accatastati, che non riescono a farsi flusso; eppure il film comincia bene, il colpo di scena iniziale promette benissimo. Poi il copione (tratto da un romanzo di James McBride, chiunque esso sia) comincia a disporre i pezzi sulla scacchiera, e piano piano il film perde mordente: è la cosa peggiore che possa capitare in un film di Spike Lee, di solito narratore sopraffino con un gran senso del ritmo. Stavolta di ritmo ce n'è ben poco, e stare seduti davanti allo schermo è a tratti davvero pesante; anche se la storia alla fine diviene chiara, in modo banale e prevedibile, spesso le scene che si susseguono sembrano non avere rapporto con quelle che precedono o vengono dopo. Un altro guaio del film sono i personaggi, maltrattati dalla sceneggiatura e dalle recitazioni approssimative (ricordo solo il cameo iniziale di John Turturro, il volto di Omero Antonutti e quello del bambino, Matteo Sciabordi, assai intenso). Non c'è emozione, manca quasi la tridimensionalità sui volti dei giovani soldati di colore; mentre sul versante italiano non sono migliori le prestazioni di Pierfrancesco Favino e Valentina Cervi, per tacere del macchiettismo con cui sono dipinti i personaggi italiani di contorno o alcuni ufficiali tedeschi. Probabilmente il regista non si è trovato bene nella sua prima coproduzione internazionale, non ha avuto le mani del tutto libere, chissà; fatto sta che il film è approssimativo e si trascina per due ore e mezza senza concludere granché. Il terzo grande problema poi è la troppa carne al fuoco: Lee tenta di mettere assieme la lezione di storia (buona e giusta) sui soldati di colore odiati dal loro Paese e un ritratto (malriuscito e superficiale) della piccola comunità italiana, il film di guerra dalle suggestioni soprannaturali e il thriller... C'è anche qualche merito: i conflitti a fuoco sono abbastanza ben girati, la violenza ha sua brutalità inesorabile che non fa sconti, e i soldati tedeschi sono quasi sempre esseri umani, non macchine per uccidere o mostri assetati di sangue; troppo poco comunque, per fare un film.
Alcuni link sull'eccidio di Sant'Anna di Stazzema: Wikipedia, il sito ufficiale, una puntata di "La Storia siamo noi".

venerdì 17 ottobre 2008

Cover Boy

Se esistesse ancora la commedia all'italiana, quella vera, penso che oggi sarebbe qualcosa del genere. Cover Boy è davvero un bel film, dai molti pregi: il maggiore è la sua malinconia celata e silenziosa, che si avverte dal primo all'ultimo fotogramma senza bisogno di scene madri o stratagemmi più o meno patetici; questa malinconia senza speranza è sullo sfondo e permea ogni cosa, eppure la vicenda del film è picaresca, scoppiettante, con momenti e situazioni che - visti con uno sguardo diverso e più banale - si sarebbero potuti considerare "divertenti". Invece non c'è nulla di divertente nel film: il motivo è che esso racconta con lucidità ed empatia l'Italia del nostro tempo, il suo disastro quotidiano, i giorni da vivere uno dopo l'altro prendendo tutto il possibile subito, senza aspettarsi nulla dal futuro. Girato in un digitale ad alto tasso di naturalismo, Cover Boy non rinuncia però - e fa bene - alle divagazioni del racconto, ai flashback e alle immaginazioni del protagonista: si conferma così come un'opera umanissima, interessata alle storie dei singoli e alle loro anime. I due personaggi principali, Ioan (Eduard Gabia) e Michele (Luca Lionello, bravissimo) sono dolorosamente, disperatamente veri: il primo si lascia andare al flusso degli eventi senza porre resistenza, ma anche senza dimenticarsi di sé e della propria storia; e sarà proprio questa indifferenza soltanto apparente che in qualche modo lo salverà; l'altro, più viscerale e passionale, non saprà sopportare il nulla senza fine offertogli da una quotidianità squallida e priva di futuro. Non ci si può permettere di avere sogni, desideri, speranze nell'Italia di oggi, dominata dal berlusconismo e dalla Chiesa Cattolica: l'ottima fotografia del film sottolinea questa tristezza invincibile con immagini molto belle della Roma più periferica e deserta, o del centro di Milano tanto allegro e scintillante quanto irreale. Solida, senza errori è la regia di Carmine Amoroso; altrettanto forte e deciso è il copione, scritto dallo stesso Amoroso insieme a Filippo Ascione. Un gran bel film italiano, un film necessario su un paese oramai arresosi a se stesso, senza rimedio.

mercoledì 8 ottobre 2008

Povero pianeta...

L'ho letto stamattina e non mi è sembrato male segnalarlo: un articolo davvero inquietante sulla lenta e inesorabile agonia della Terra. Meditiamo gente... Tanto resta solo quello da fare ormai. Siamo in caduta libera, a quanto pare.

giovedì 25 settembre 2008

Burn after reading

"Che cazzo di casino". Con questa frase, pronunciata da un pezzo grosso della CIA nel suo studio a Langley, si chiude l'ultimo bellissimo film di Joel e Ethan Coen. E molto prima che quella frase venga pronunciata, lo spettatore sta pensando esattamente la stessa cosa, e non ha nemmeno torto. Ma non facciamo casino e cominciamo dall'inizio.
Il film parte con la macchina da presa che inquadra la superficie del nostro pianeta e, in uno zoom in avanti, in accelerazione, seleziona un punto a caso su questa mappa, un punto irriconoscibile; zoomando sempre di più, la mdp sceglie infine un edificio nel quale "atterra" sul pavimento, o meglio sui passi veloci e ben calzati di un uomo in abito scuro. Il pavimento in questione è quello di Langley, Virginia, sede centrale dell'agenzia più famosa e meno conosciuta del pianeta; i passi sono quelli di Osborne Cox (John Malkovich, in grande forma), analista con papillon che, percorrendo i corridoi della Sede centrale, sta andando verso il suo destino. E così facendo sta mettendo in moto uno degli intrecci più pazzamente complicati che il cinema americano possa ricordare. Eppure si tratta di un racconto perfetto: i Coen sono narratori straordinari, e qui hanno quasi superato loro stessi. Il loro copione è tecnicamente ineccepibile, e ottiene l'effetto desiderato di "incasinare" lo spettatore attraverso un accumulo ipertrofico di filoni narrativi che si intrecciano e si allontanano senza alcun ordine o schema rintracciabile. Ed è proprio questa la grandezza degli autori, qui come in molte altre loro opere: riuscire mirabilmente a imitare il Caso, o meglio, a dargli forma. Burn after reading è esilarante, dall'inizio alla fine, sembrerebbe quasi un film comico; eppure, ripensandoci, non c'è proprio nulla da ridere. Perché quello che i Coen vogliono mostrare è l'assurdità del Caso, la sua crudeltà, la sua assoluta indifferenza verso gli uomini e persino forse verso l'idea di "destino". Penso al dischetto che viene ritrovato casualmente nella prima parte del film, e che mette in moto l'intreccio delle storie dei vari protagonisti; il dischetto viene ritrovato da un personaggio marginale, che a malapena riesce ad esprimere concetti e a rispondere alle domande che gli sono poste: una specie di personificazione del Caso stesso, che non dà risposte, è in sè vuoto di senso e di significato. E il dischetto ritrovato, che contiene una serie di codici inspiegabili e non interpretabili, è un simbolo del film medesimo; anche quest'ultimo è apparentemente privo di significato, non interpretabile, senza capo nè coda. Tutti i personaggi vedono cambiare radicalmente le loro esistenze fra l'inizio e la fine del film, alcuni perdono anche la vita in modo appunto crudele, assurdo e insensato; e in tutto questo non c'è alcuna logica, nessun codice. Su quel dischetto qualcuno ha copiato una serie di dati segreti non interpretabili, e quindi caotici e privi di senso; allo stesso modo, la macchina da presa seleziona una porzione casuale di realtà con il suo zoom iniziale verso il basso, la copia sulla pellicola, e poi zooma all'indietro per chiudere il processo di copia; ma ciò che si legge in questa copia non è comprensibile, non ha alcuna chiave di decrittazione: l'esistenza umana è priva di un significato intelligibile, è puro caos, non c'è nessun destino. E come sempre nel cinema dei Coen il cerchio non si chiude: non ci si lasci ingannare da quei (finti) movimenti di macchina all'inizio e alla fine del film, nè dal fatto che tutto inizia e finisce nel quartier generale della CIA (della CIA è la mossa che dà inizio alla catena causale/casuale degli eventi, ma la CIA stessa alla fine del film non saprà comprendere ciò a cui essa stessa aveva dato origine). Non c'è nessuna reale apertura o chiusura del film, nessun meccanismo scatta prima o dopo per rimettere le cose a posto (e quale posto, del resto?); si tratta soltanto di una selezione temporale in un flusso ininterrotto di casualità. Burn after reading è allora proprio come un messaggio in codice, da distruggere dopo avere letto: forse perché contiene segreti impossibili da tollerare.

domenica 21 settembre 2008

Denti

Teeth, lo dico subito, è un film ridicolo e assurdo, poco più di una barzelletta involontaria. L'idiota che l'ha scritto e diretto, Mitchell Lichtenstein, è figlio di un genio dell'arte contemporanea, il ben più famoso Roy, pensa un po'. Mitchell invece ha lavorato soprattutto come attore, ma ha anche fatto un altro film come "autore", Resurrection, del 2004 (mai sentito? io no). Comunque sia, questo film non fa schifo perché parla di vagina dentata o perché ci sono due o tre scenette splatter malfatte: è che non ha nè capo nè coda. A parte i temi accozzati uno all'altro così, senza legami e senza risonanze (credo che con un soggetto del genere avrebbe potuto uscire un gran bel film, anche se probabilmente soltanto "di genere") il regista non sa proprio raccontare una storia. Non c'è un racconto propriamente detto, c'è soltanto una serie di episodi che hanno in comune protagonisti e ambientazione, ma che sono narrativamente slegati l'uno dall'altro. E' davvero un film inesistente, questo Teeth: è un horror con tre scene horror in tutto, è una cazzata sexy-morboso tipo American Pie, è un film che usa come simbolo la sagoma di una centrale nucleare per significare il dominio maschile sul reale (ma quale dominio, ahò, li mort...)? E' un disastro, una puttanata immonda, ecco cos'è. C'è un'unica protagonista, ma non è coerente o credibile nemmeno per un attimo, a parte la dentatura interna, in un'ora e mezza. Va bene? L'hanno presentato al Sundance, questo film; ma al Sundance come sono messi?

La terra degli uomini rossi

E' bravo Marco Bechis, si sentiva la mancanza del suo cinema. La terra degli uomini rossi è un'opera forte, compatta, senza sbavature. Un autentico film di denuncia, che indigna e sconvolge. Lo stile di Bechis è asciutto e essenziale, ma ci sono anche visioni potenti e suggestive; non è un film girato con lo sguardo provinciale dell'Italia odierna, l'autore è un vero cittadino del mondo, lucido e mentalmente aperto, e questo film testimonia la sua ottima conoscenza della situazione sociale nel Brasile contemporaneo: la ricchezza di pochissimi che causa la povertà nera di tutti gli altri, le barriere sociali che diventano psicologiche, le fazendas, la violenza quotidiana e la corruzione che è parte integrante e indistinguibile delle istituzioni di quel Paese immenso e splendido. E in tutta questa consapevolezza, con tale lucidità, Bechis sa anche tratteggiare molto bene i suoi personaggi: gli bastano poche annotazioni per accendere l'empatia dello spettatore; empatia che, si badi bene, non diventa mai stupida pietà o commiserazione. Gli indios Guarani raccontati nel film hanno una dignità e una forza interiore invidiabili: costretti da altri a condurre esistenze vuote e assurde, che portano molti di loro alla scelta più estrema, non sanno in fondo cedere ai compromessi, nè diventano mai servili nei confronti del "dominatore" bianco, pur non avendo alcun potere di rivalsa. Insomma non si trasformano mai in un riflesso del loro nemico (sì, perché di nemico si tratta); mentre i non-indigeni facilmente si assoggettano ai fazenderos in cambio di una vita miserabile, questi ultimi sono rabbiosamente attaccati ai loro possessi e disprezzano senza vergogna il resto del loro mondo; sullo sfondo, turisti stupidi e irresponsabili sono vittime della menzogna che diventa cultura. Ma soprattutto, e ancora una volta, Bechis vuole mostrare l'orrore silenzioso del potere: l'oppressione dei forti sui deboli, dei molti sui pochi, dei ricchi sui poveri. Un'oppressione che, quando lo strumento dell'esclusione sociale non basta più, non esita a ricorrere alla violenza. Ma c'è qualcosa che non si può vincere nè con l'esclusione nè con la morte, sembra ricordare Bechis nelle sequenze finali: è lo spirito, è l'anima.

martedì 16 settembre 2008

Shine A Light

E finalmente sono riuscito a vederlo. Erano mesi che aspettavo... Peccato soltanto non averlo visto e sentito al cinema. Dico subito la verità: la cosa migliore del film di Scorsese è Scorsese: la parte iniziale è senza dubbio la più bella. E' la nevrosi di Martin che illumina le prime sequenze, quelle preparatorie; il resto del film potrebbe al confronto sembrare soltanto virtuosismo di ripresa e di montaggio. Gli Stones non sono in discussione, mai: ognuno di loro è un personaggio, la band è un insieme di individualità tenute insieme, o semplicemente vicine, dal palco che calpestano suonando. Troppo facile fermarsi al "guarda come si muove Mick Jagger a settant'anni"; ma è proprio vero, saltella come un ragazzino su e giù per il palco del Beacon Theater; e la sua voce. Allora, meglio ancora guardare in faccia Keith Richards, che ha sul volto qualcosa di davvero malsano e irripetibile. Keith è chiaramente il più magnetico delle Pietre Rotolanti, senza nulla togliere all'umiltà stralunata e alla simpatia debordante di Ron Wood, o all'austerità nobile di Charlie Watts. Ma se si possono apprezzare tutte queste differenze, è merito dello sguardo e della passione musicale del vecchio Marty, perfezionista appunto fino all'eccesso, e meravigliosamente nevrotico, ripeto. La musica, la band, l'Autore, tutti perfetti gli uni per gli altri. Il racconto qui non ha nessuna morale di fondo, come avveniva nello splendido No direction home; ma altri sono qui i personaggi, più breve il respiro dell'opera. E del resto che morale vuoi trovare negli Stones? Al diavolo la morale, anzitutto! Siamo qui per ascoltare e divertirci, e se Shine A Light rimane infine un po' sospeso, forse volutamente inconcluso, come una pietra che abbia finito la sua corsadi rotolare, non importa molto. Lo spettacolo c'è stato eccome, e sarà da ricordare.

Funny Games U. S.

Michael Haneke è un filosofo che lavora con la macchina da presa. Si interessa di etica e metafisica senza soluzione di continuità, ed è questo che rende il suo cinema tanto arduo, e tanto affascinante. Nel caso di Funny Games U. S., l'oscurità di Haneke sembra aver raggiunto il suo culmine. Il regista austriaco ha ri-girato un suo film omonimo del 1997, inquadratura per inquadratura, traducendolo in inglese e cambiando gli attori. Oggi ci sono Tim Roth, Naomi Watts, Devon Gearhart, Michael Pitt e Brady Corbet. Inquadratura per inquadratura. Capito? Ora, quanti piani di lettura ci possono essere per un'opera simile? Escludo matematicamente che si tratti di un remake commerciale, voluto da produttori che hanno riscoperto il "primo" Funny Games, ecc. ecc. Haneke ha le idee chiarissime, è determinato e impietosamente lucido, e non si interessa affatto alle dinamiche commerciali. Allora? Ripenso al film e mi vengono in mente le interpellazioni, i riferimenti al pubblico da parte di Paul, e agli altri elementi metanarrativi o metafilmici dell'opera (il rewind verso la fine, la breve discussione in barca fra i due massacratori al termine del film, per esempio). Funny games rappresenta la rappresentazione cinematografica, o la rappresentazione tout-court; ma per forza di cose è anch'esso rappresentazione. Non si esce da questo terribile circuito chiuso della significazione, sembra ribadire con compiacimento Herr Haneke. E così abbiamo oggi, nel 2008, la copia asimmetrica di un film già girato nel 1997, eppure diverso. Un riflesso, un rispecchiamento, a prima vista; e invece si tratta soltanto di due rappresentazioni, in fin dei conti: oggi siamo pur sempre nell'epoca del digitale, dove l'originale non esiste più, le copie non sono più copie perché manca il punto di partenza. Non c'è punto di partenza storico nemmeno in Funny Games, perché quel che i film raccontano è qualcosa di non storico: la violenza dell'uomo sull'uomo. Le ragioni non contano, non ce ne sono mai: uccidere senza ragione o per una ragione, che quando c'è è sempre buona agli occhi di chi uccide, non fa differenza. Ecco tutte le menzogne raccontate da Paul e Peter nel film, menzogne che non hanno una verità a cui essere opposte, come il film non ha un punto di partenza "reale". Non che quelle due letterine in maiuscolo nel titolo del film non facciano differenza: quanta violenza è stata praticata e rappresentata dagli U. S., nella loro Storia e nella Storia del loro cinema? Quante menzogne senza un riferimento finale sono state raccontate anche soltanto negli undici anni che separano il primo Funny Games dal secondo?

domenica 14 settembre 2008

Il mio amico giardiniere

Splendido, commovente, Dialogue avec mon jardinier è fatto con quel poco che abbiamo al di qua dello schermo: parole, luoghi, attese, sentimenti. Eppure quel che ci sembra così poco da questa parte dello schermo è come trasfigurato e mostrato per quello che davvero è, nel magnifico film di Jean Becker. Ovvero, quello che ci può salvare, ciò che dà sostanza e valore al nostro esistere. E' affascinante il modo in cui Becker pare non seguire uno schema, o addirittura un copione: la spontaneità dei suoi personaggi è emozionante, il pittore Daniel Auteuil e il giardiniere Jean-Pierre Darroussin - straordinarie le interpretazioni - sono imperfetti, contraddittori, umorali, reticenti in maniera mirabile; non ci sono eroismi o abissi, ma piuttosto una affezione silenziosa e umile, quasi reticente, per gli eventi della quotidianità. A differenza di quel che accade nel cinema di Rohmer, la narrazione lascia spazio nel finale a una sorta di epigrafe - umile e leggera come tutto ciò che l'ha preceduta - che svela brevemente, quasi di sfuggita, il nucleo tematico del film. Il mio amico giardiniere ha molto da insegnare, ma non si mette mai in cattedra; e si saluta il film con gratitudine, conservando ricordi di persone, non di semplici personaggi.

E venne il giorno

The happening, il titolo originale dell'ultimo lavoro di M. Night Shyamalan, è forse l'unica cosa buona del film. Il ragazzo prodigio di Hollywood, il cui cinema ho spesso amato (The Sixth Sense, Signs), ha perso il tocco magico. Qui anzi ha proprio toccato il fondo, dopo la già assai deludente performance di Lady in the water: E venne il giorno è vuoto come un palloncino gonfiato, non c'è nulla del suo autore. Niente suspence, autentica paura, nè tantomeno riflessione rivelatrice sul reale. Niente personaggi, niente colpi di scena, niente ribaltamenti di prospettiva. E' proprio la storia che è sbagliata, e il modo di raccontarla è stanco e privo di verve. Non sembra crederci nemmeno lui nel suo film, il vecchio M. Night. Anche lasciando perdere la monoespressione di Mark Wahlberg e la mediocrità degli altri recitanti, The Happening non vale qualcosa neppure come (stracco) messaggio ecologista. E' da buttare.

Tropa de Elite

Ecco un'altra assurdità da festival del cinema: Tropa de Elite ha vinto l'Orso d'oro a Berlino quest'anno, ma è soltanto una stupidaggine. Vogliamo scherzare? Il film non vale niente, è un racconto di serie B con odiosa ed ebete voce fuori campo, un viaggio posticcio nelle favelas di Rio de Janeiro attraverso lo sguardo dell'ineffabile capitano Roberto Nascimento, appartenente alle forze speciali della polizia brasiliana, il POBE. Il film dura 118 minuti, che non finiscono mai; ma pensate che in tutto questo tempo il regista Josè Padilha riesca a creare un personaggio credibile, una psicologia rudimentale, insomma qualcosa di umano e riconoscibile? Niente, non si capisce proprio cos'avessero fumato i giurati di Berlino in quel giorno di febbraio. Nel film c'è l'immancabile violenza pop della guerra fra poliziotti e bande delle favelas, qualche atrocità gratuita, tonnellate di cinismo stupido e nient'altro. Nessuna nota sociologica di qualche valore, nessuno da ricordare. Una perdita di tempo.

In Bruges

Sicuramente uno dei migliori film dell'anno, In Bruges è diretto da Martin McDonagh, un drammaturgo londinese di origini irlandesi. McDonagh aveva vinto un oscar per il miglior cortometraggio, Six Shooters, nel 2006; In Bruges è il suo primo copione per un lungometraggio. Non c'è nulla di sbagliato: un soggetto davvero originale, l'ambientazione insolita e significativa, una sceneggiatura che tiene in equilibrio perfetto i due protagonisti, senza sbilanciarsi al momento dell'arrivo dell'antagonista; i dialoghi sono splendidamente volgari e insolenti ma capaci di svelare l'anima dei personaggi, senza alcun macchiettismo; il tutto in un'atmosfera metafisica ma non propriamente antinaturalistica, in cui anche i comprimari sono ottimamente tratteggiati, e credibili. La grandezza del film sta nel suo essere al di là dei generi e delle convenzioni narrative: storia nera, commedia, insieme di sketch riuscitissimi, battute fulminanti, dubbi escatologici, indagine morale... Tutto questo insieme, eppure nella somma le parti si amalgamano e divengono indistinguibili. E alla fine ci si chiede se In Bruges non voglia essere, con mirabile cinismo, soltanto uno stupendo divertissement che suscita domande importanti per poi ridere in faccia allo spettatore, rispondendogli: non ci sono risposte, pensa solo a divertirti finchè puoi. Chi è più bravo fra Colin Farrell, Brendan Gleeson e Ralph Fiennes? Non saprei proprio dirlo, sono tutti davvero grandi.

mercoledì 13 agosto 2008

Un dubbio

Tutti noi credo siamo stati costretti ad assistere alla morte di sette persone sull'autostrada A4 verso Trieste. Il tremendo incidente è avvenuto venerdì scorso, 8 agosto, e il relativo video è stato trasmesso dai telegiornali il giorno stesso, per poi venire diffuso da tutti i principali siti di video e notizie sul web. Il mio dubbio è sempre lo stesso: si tratta di legittima informazione ai cittadini o di spettacolarizzazione della morte? Sulle autostrade italiane ogni anno si verifica un alto numero di incidenti, spesso mortali purtroppo. Di questi immagino, un discreto numero sarà registrato dalle telecamere installate su tutta la rete autostradale. Eppure non mi ricordo di aver visto incidenti trasmessi nei telegiornali del mezzogiorno, negli ultimi tempi. Quest'ultimo forse era più grave del solito? Se si fa l'orribile conta dei morti, è assai triste constatare che il numero è nella media giornaliera: ogni anno sulle strade italiane muoiono in media 5000 persone (vedi questo articolo di Ilvo Diamanti su Repubblica.it). Allora perché, per fortuna, non mostrano ai telegiornali le immagini degli incidenti? Grazie al cielo non siamo ancora a questi livelli. Invece quest'ultima tragedia era particolarmente telegenica: ottima da mostrare all'ora di pranzo, così la gente che guarda e mangia può pensare "Cazzo, tremendo" con la bocca piena, prima che arrivi il servizio successivo. E chissà se ci si rende conto che si ha appena visto morire sette persone, per davvero.

domenica 3 agosto 2008

Il resto della notte

Se devo dire la verità, non credo che l'ultimo film di Francesco Munzi sia all'altezza del precedente Saimir. E' vero d'altronde che si tratta di un film più complesso e quindi più difficile: e non parlo soltanto del fatto che Il resto della notte è un'opera a più voci, mentre Saimir aveva, per così dire, un unico protagonista; anzi, il regista segue con la consueta dedizione e umanità tutti i suoi personaggi, ed è facile per lo spettatore empatizzare con ciascuno di essi dopo essere entrato nelle loro esistenze, accompagnato dallo sguardo preciso della regia. Il problema del film, al quale bisogna riconoscere una grande potenza descrittiva e una decisa onestà, è che non raggiunge una forma. Se Munzi cercava di proseguire lungo la strada del film precedente, conciliando introspezione profonda e analisi lucida del fenomeno sociale dell'immigrazione clandestina, bisogna dire che Il resto della notte non è riuscito nell'intento. E anzi, a mio parere il film non funziona nè sul piano dell'analisi sociale nè tantomeno su quello dell'interiorità dei personaggi: lo sguardo del film sulla Torino dei sans-papiers e della comunità rumena in particolare è nitido nella descrizione degli ambienti e delle dinamiche "di superficie" (microcriminalità, frizioni fra le diverse etnie) ma non dà conto delle ragioni profonde del disagio. Il vero punto dolente del film è però la psicologia: che abitino a Porta Palazzo o in una villa in collina, gli uomini e le donne raccontati nel film sono incongrui e disarticolati, privi di linee di condotta non dico logiche, ma almeno consequenziali. Nonostante la recitazione molto buona del cast (Sandra Ceccarelli, Stefano Cassetti, Aurélien Recoing, Laura Vasiliu, Constantin Lupescu, Victor Cosma, Valentina Cervi) nessuno dei personaggi è del tutto credibile, se non forse quello di Marco (Cassetti), un italiano tossicodipendente che lotta per conquistare il rispetto del figlioletto e che è forse il vero protagonista della vicenda. Ad ogni modo, Francesco Munzi rimane secondo me un buon autore, che può crescere ancora molto: aspetto con fiducia il suo prossimo lavoro.

sabato 2 agosto 2008

Il cavaliere oscuro

Una vera goduria, ecco cos'è The dark knight. Non me ne frega niente se è una macchina concepita e realizzata per sbancare i botteghini o se lo hanno usato per fare product placement a più non posso: si fottano. Io non comprerò mai un cellulare o una moto o un'auto perché ho visto queste cose in un film che mi è piaciuto, e il fatto che io sia anni luce lontano dal potermele permettere è l'ultima ragione. Penso che su queste stupidaggini sia meglio chiudere un occhio e godersi lo spettacolo. Quel che mi fa incazzare semmai è la più che probabile speculazione sulla morte di Heath Ledger, Dio lo benedica, anche se non credo che il pensiero della sua morte sia in cima alla lista nella testa di chi va a vedere il film; credo che vadano a vedere il film perché c'è Heath Ledger e basta, o almeno così ho fatto io e così mi piace pensare abbiano fatto altri. Del resto la sua interpretazione non lascia delusi: il vecchio Heath era già un grande e lo sarebbe diventato ancora di più, poteva fare qualunque cosa, io credo. E non c'è molto altro da dire.
Era un pezzo che non entravo in un cinema e giuro che sedendosi vicino allo schermo, bene al centro della fila, si passano due ore e mezzo assai piacevoli. La prima cosa che colpisce è l'incredibile numero di star hollywoodiane reclutate: oltre a Ledger (ripeto, il suo Joker se la gioca con quello di Jack Nicholson) ci sono Christian Bale, Michael Caine, Aaron Eckhart, Gary Oldman, Maggie Gyllenhaal e Morgan Freeman. E vai. Altra ottima cosa è il ben noto perfezionismo di Christopher Nolan, che si nota nei dettagli e nell'insieme. Nolan ha scritto il film (assieme al fratello) e ha fatto anche parte della produzione, segno che credeva molto nel progetto. E infatti nulla è lasciato al caso, la recitazione non è mai approssimativa nonostante la quantità di gente al lavoro sul set, e il copione è quello del miglior Batman di sempre, grazie anche ad alcune interessanti trovate "sociologiche" e ai trucchetti enunciativi tipici del lavoro di Nolan (in questo caso sono gli "scherzi" e le reticenze che il film mette in atto nei confronti dello spettatore). Insomma, il quarto Batman è un prodotto su cui si è investito parecchio e che non ha deluso nessuna aspettativa: tutto chiaro e risaputo. Un'altra cosa risaputa, ma forse un po' più vecchia e quindi meno evidente, è che la saga di Batman non è soltanto una serie di film fatti per far divertire la gente e fare un sacco di soldi. Come il buon Gianni Canova scriveva qualche anno fa nel suo L'alieno e il pipistrello (Bompiani 2001 o 2002, non ricordo) questi film sono una perfetta cartina di tornasole per il nostro immaginario, e la dicono lunga non solo su quello che sta diventando o è già diventato il cinema, ma anche su quello che siamo noi. Ricordo che Canova scriveva dell'avvento di un cinema "tattile", in cui il coinvolgimento dello spettatore era e sarebbe stato ricercato a tutti i livelli sensoriali e non più soltanto attraverso la visione. Bene, senza farla troppo lunga chi ha visto Il cavaliere oscuro credo converrà con me sul fatto che il film parla a tutto il corpo dello spettatore: e non sto dicendo che si sente un sapore particolare sulla lingua mentre si è seduti in platea, ma che le suggestioni portate dal film ci spingono a un'esperienza totalizzante e totalmente immersiva. Io non sono un avido spettatore di blockbusters, ma immagino che quel che si cerca oggi andando a vedere un film mainstream come questo sia diverso da ciò che ci si aspettava anche soltanto quindici anni fa, se non dieci. E' piacevole immaginare che quando andiamo a vedere un film, anche il film veda noi; e non soltanto attraverso la lente deformante del marketing. Personalmente poi provo più rancore verso un film "d'autore" mal riuscito perché autoreferenziale, che verso un film "commerciale" che fa divertire e si fa amare da tutti, nessuno escluso.

Be Kind Rewind

Stupendo!!! Michel Gondry - se qualcuno aveva ancora dei dubbi - è un vero matto, e un vero genio. Già lo si capiva vedendo, come in un'estasi pop o un trip ben riuscito, i suoi precedenti Eternal Sunshine of the Spotless Mind (aka Se mi lasci ti cancello, 2004) e La science des reves (aka L'arte del sogno, 2006). Adesso mi sembra di leggere una specie di percorso nel giro di questi tre film: il primo aveva al centro la memoria, il secondo i sogni, il terzo il cinema; tutti parlano d'amore, in fondo. Forse Be Kind Rewind racconta dell'amore per il cinema che diventa sogno realizzato? O di come per amore degli altri ci si metta a sognare e di conseguenza a fare cinema? O di come la memoria, il cinema e la vita abbiano le stesse proprietà fondamentali (mutevolezza, fragilità, inconsistenza)? Ognuno dia la propria risposta, non c'è modo di sbagliare. In ogni caso, uno degli aspetti più affascinanti del cinema di Gondry è l'inserimento di elementi surreali in un contesto del tutto naturalistico; e qui cerco di spiegarmi: il caro visionario disadattato nei suoi film inizia sempre descrivendo un ambiente urbano, in interni e/o in esterni, con piglio da documentarista (ovvero con macchina da presa assai mobile o addirittura a mano, luce apparentemente naturale, fotografia sgranata) e ci mette dentro personaggi apparentemente "normali", soltanto un po' troppo solitari o appartati rispetto alla "media". Molto presto però nelle esistenze di questi personaggi piomba prepotentemente l'Incontrollabile, sotto forma di avvenimenti che da questa parte dello schermo sono semplicemente impossibili. E da quel momento non soltanto la vita dei personaggi cambia senza revoche, ma anche il modo in cui il film si racconta e entra nella testa dell'indifeso spettatore. Intanto mi è venuta in mente un'altra cosa che accomuna tutti i film di Gondry che ho citato: al centro di questi film c'è sempre una rappresentazione creata dai protagonisti, nella quale i protagonisti stessi si autoinseriscono (la memoria in Eternal Sunshine, i sogni in La science, i film "sweded" in Be Kind); e questa autorappresentazione finisce con il diventare più grande di chi la crea, e con il sottrarsi al controllo di questi ultimi fino a ritorcersi contro di essi, per venire infine (sempre apparentemente) domata e ricondotta - letteralmente - a più miti pensieri. Allora si può dire che Gondry racconti sempre la potenza dell'immaginazione? Mah! A me personalmente non interessa saperlo, mi basta solo poter continuare a vedere i suoi film, che mi hanno sempre dato parecchia felicità. Be Kind Rewind è forse quello che me ne ha data di più, perché fra le altre cose è un vero inno al cinema, a quello che il cinema è veramente, alla sua bellezza e a quello che significa nella vita delle persone. E infine, fa morire dal ridere! Le scene in cui Jerry (Jack Black, bravo) e Mike (Mos Def, bravissimo) girano il remake di GhostBusters, oltre a essere da antologia, lasciano senza respiro per le risate che provocano. Buon divertimento!

mercoledì 28 maggio 2008

Gomorra

Aspettavo il ritorno di Matteo Garrone da un bel pezzo: il suo Primo amore, per me splendido, risale al 2004. L'altroieri sera sono stato al cinema a vedere Gomorra, e sono uscito molto triste. Non per quello che il film racconta, ché oramai i media ci assillano da tempo con le storie sul Sistema, i rifiuti, la discesa agli inferi di Napoli, ecc. ecc. (e ci assillano nel modo peggiore, perché continuano a raccontare nudi fatti senza fornirne alcuna spiegazione contestuale, così l'inferno continua nell'impossibilità di comprendere); la sostanza narrativa del film è poi arcinota, essendo Gomorra, prima che ultimo lavoro di Garrone, il romanzo "nonfinzionale" del grandissimo Roberto Saviano (non ho ancora letto il libro, ma ho sentito l'autore in più occasioni: Saviano è un autentico orgoglio nazionale, uno dei pochissimi rimastici).
No, la delusione è amara perché Gomorra è un film non riuscito. Farraginoso e convenzionale, non sembra nemmeno un film di Garrone, ed è questo che più dà malinconia: il cineasta romano ha - aveva - uno stile inconfondibile, una profondità di sguardo che da lungo tempo non si incontrava nel cinema italiano e una tremenda, quasi morbosa capacità di scavare nelle coscienze dei suoi personaggi: quasi sempre mostri e spesso predatori, essi vivono nascosti ai margini della "società normale" ma ne sono, loro malgrado, irresistibilmente attratti, fino a conseguenze estreme.
E invece qui è come se Garrone non riuscisse nemmeno a fare proprio il romanzo di Saviano, a metabolizzarlo per poi riportarlo sullo schermo in modo personale. Forse quel che è narrato da Roberto Saviano è troppo molteplice, c'è troppa carne al fuoco anche per un film di due ore e un quarto (talvolta noioso); eppure il copione è stato scritto da Garrone assieme allo stesso Saviano e a Massimo Gaudioso, Ugo Chiti, Gianni Di Gregorio e Maurizio Bracci. Ad ogni modo, sullo schermo si vede lo sforzo di un adattamento sintetico che evidentemente, a forza di comprimere tentando di rimanere il più possibile fedele al testo, perde quel che più conta, ovvero la propria anima. La regia sceglie un "assetto" semplice e documentaristico, un non-stile fatto di camera a mano quasi costante, colori in presa diretta, sgranature e quant'altro appartiene all'armamentario da cinema del reale; ma c'è poco da fare, Garrone non è a suo agio e non controlla il film, proprio perché in lui l'esigenza di uno stile ricercato e particolare è troppo forte (penso ancora una volta a Primo Amore, davvero esemplare in questo senso). Gomorra sembra quindi un esempio di cinema "impegnato", fatto con le migliori intenzioni, totalmente al servizio del libro da cui è tratto e che in esso trova la propria esclusiva ragion d'essere: con tutto il rispetto per le migliori intenzioni, mi sembra un po' poco; e soprattutto non è da Garrone, che io amo proprio perché non c'entra - non c'entrava - nulla con l'impegno sociale. Si potrebbe obiettare che Garrone ha voluto mostrare il nulla attraverso il nulla: il vuoto totale di un contesto sociale disumanizzante, l'impossibilità dei rapporti umani, la mancanza di nessi causali o di spiegazioni. Insomma, la classica strategia dell'osservare-senza-giudicare. Ma non è così. Perché ogni tanto Garrone ci prova anche qui, ad entrare nell'anima dei suoi mostri, a guardarli da vicino: il problema è che non ci riesce. Si prenda don Ciro (l'interprete Gianfelice Imparato è bravissimo e vale dieci volte Servillo, che gigioneggia o poco più): è uno dei pochi personaggi la cui interiorità Garrone tenta di esplorare, ma esso finisce col rimanere soltanto un abbozzo, così come il sarto Pasquale (Salvatore Cantalupo, anche lui molto bravo) o come Roberto (Carmine Paternoster), braccio destro del camorrista-affarista Franco (Servillo) nel "riciclo" dei rifiuti, che improvvisamente, come folgorato sulla via di Marcianise, decide di cambiare vita. E i vuoti narrativi (il film si apre con una sparatoria che vale unicamente come ouverture, senza sviluppi drammaturgici) si alternano a momenti di ridondanza, come i dialoghi fra capi camorristi o giovani scissionisti.
La cosa forse più triste di tutte, poi, è il Gran Prix a Cannes: è evidente che il Secondo Premio al film è in realtà quasi più un ulteriore riconoscimento attribuito al romanzo (visto anche il successo editoriale che quest'ultimo ha avuto praticamente in tutto il mondo) e, peggio ancora, una specie di pacca sulla schiena di chi fa cinema e vive nell'Italia di oggi, paese allo sfascio di cui Gomorra è divenuto, scritto o filmato, una bandiera. Sarò maligno, ma questo premio sembra uno di quelli che fino all'altro giorno si davano al cinema iraniano o cinese o africano, come a dire "forza ragazzi, siamo tutti con voi" (e chissà se lo stesso vale per il Divo di Sorrentino). Intendiamoci, non che mi importi molto della Patria Italia o del suo eventuale orgoglio ferito - questo Paese personalmente lo amo perché è bello, non perché ci sono nato; ma se si fa un festival del cinema, il premio va dato al cinema soltanto.

sabato 26 aprile 2008

No country for old men

Se non avete già visto il film e avete intenzione di vederlo, non andate oltre: le righe che seguono contengono rivelazioni nocive al godimento dell'opera d'arte in oggetto. Fatevi un favore, davvero.

Ho dovuto attendere a lungo prima di poter parlare "a ragion veduta" del film. L'ho visto e rivisto diverse volte, sempre in versione originale; era diventato quasi un'ossessione. Ora è arrivato il momento di affrontarlo, anche se sono ben conscio della mia debolezza. Perché era vero tutto ciò che avevo letto e sentito del film prima che uscisse: un capolavoro assoluto, una pietra miliare, già di prepotenza nella Storia del cinema; un'opera devastante, che rimane a tormentarti per giorni e ti costringe a riflettere, se non a meditare; ad oggi il film più duro dei fratelli Coen, come loro stessi avevano dichiarato qualche tempo fa. E nonostante tutto questo, nonostante tutte le mie visioni e riflessioni, No country for old men rimane imprendibile, come ogni vero, sublime capolavoro. Per questo so già che non riuscirò a dire granchè di tutto quello che mi è venuto in mente in questo tempo: non riuscirò a chiudere i conti, fosse soltanto perché nei film di Joel e Ethan Coen i conti non tornano mai; ma soprattutto No country for old men non è un film chiuso, esattamente come non lo è un buco nero, aperto sul nulla per l'eternità. Quel poco che ho da dire lo scriverò quindi all'insegna dell'eventualità e addirittura dell'evanescenza, perché è l'unico modo in cui posso tentare non dico di spuntarla, ma almeno di cavarmela.
Il film inizia con una voce fuori campo, quella dello sceriffo Ed Tom Bell (Tommy Lee Jones): racconta del passato e delle sue memorie, poi si mette a parlare di quello che succede al giorno d'oggi. Intanto sullo schermo si susseguono splendide vedute sul deserto del Texas (il film in realtà è stato girato in esterni quasi tutto nel New Mexico, a parte alcune scene nella cittadina texana di Marfa e poche altre in Messico). Le inquadrature sono campi lunghissimi sullo spazio infinito, mentre arriva il giorno; ma in quelle inquadrature è anche il Nulla totale che vedo, pur se non lo percepisco immediatamente. E il Nulla è qui controllato, ma anche in qualche modo rafforzato, dalla fotografia: le inquadrature seguono tutte la cosiddetta regola dei terzi, che prescrive di dividere l'immagine - affinché essa risulti piacevole all'occhio - in tre parti sia in senso orizzontale che verticale. La linea d'orizzonte segue appunto questa disposizione, e abbastanza rigidamente; ed è come se la macchina da presa volesse costringere all'interno della propria dura, deterministica e finita visione monoculare ciò che non può essere compreso e delimitato: l'Infinito appunto, ma forse anche il medesimo Nulla. Intanto la voce over di Bell termina il suo monologo (e non ci sarà più alcuna voce over per il resto del film: i conti non tornano, e te ne accorgi soltanto alla fine) mentre la macchina da presa fa una mezza panoramica a sinistra ed entra in scena, di spalle, non si sa da dove, il secondo protagonista del film, Anton Chigurh (Javier Bardem). Nella scena successiva lo si vedrà fare quel che meglio sa e più gli piace: uccidere esseri umani, assaporandone la morte. Due scene e due omicidi dopo entra infine in scena il terzo protagonista, Llewelyn Moss (Josh Brolin), e il film stabilisce subito una simmetria deforme fra lui e il suo antagonista: anche Moss si incontra nell'atto di uccidere, pronunciando le medesime parole usate un attimo prima da Chigurh, ma se questi è portatore del "vuoto" (il killer utilizzerà più volte nel film una bombola d'aria compressa per forzare le serrature delle abitazioni altrui, ed ha appena compiuto un'esecuzione con lo stesso strumento), Llewelyn è motore narrativo e portatore di senso dell'intera vicenda (l'analogia è con il padre dello sceriffo, portatore del fuoco nel racconto del sogno finale). Moss conserva il proiettile esploso invano verso la sua preda, e scende dalla rupe sulla quale si trova per cercare eventuali tracce di sangue: ne trova, ma il sangue è quello di un cane mastino nero che fugge, azzoppato, verso l'orizzonte del deserto (rimando all'uscita di scena di Chigurh alla fine del film). Dopo questa scoperta si susseguono in maniera causale e deterministica tutte le successive: i morti abbandonati, la droga sui pick-up, la valigetta con i due milioni di dollari. E nella valigetta piena di soldi sta il vero inghippo: tutti coloro che avranno a che fare con essa, direttamente o indirettamente, verranno uccisi (una ventina di omicidi in tutto il film, per la cronaca; non ricordo il numero esatto). Le eccezioni sono tre: lo sceriffo Bell e Chigurh - cercatori disinteressati del denaro - e la suocera di Moss, personaggio che rimane ai margini ma ha una fondamentale funzione narrativa: connotata come una strega, dalla voce al carattere all'aspetto, essa sarà la vera responsabile della morte di Llewelyn, mandando a monte il suo piano apparentemente perfetto senza nemmeno volerlo. Tornando al denaro: i due milioni di dollari portati con sè da Llewelyn fanno accadere cose e finire vite umane, dando così una direzione e un senso al percorso narrativo; però il denaro è anche e soprattutto indice di non-senso e, ancora, di vuoto. Ho in mente due scene del film apparentemente "simmetriche", quella in cui Llewelyn nasconde il denaro nel condotto di aerazione di una stanza di motel usata durante la fuga, e quella in cui il protagonista recupera il denaro, sempre dal condotto di aerazione di una stanza di motel, planimetricamente opposta ("simmetrica", appunto) alla prima. Nella prima scena Llewelyn nasconde la valigetta in fondo al tunnel spingendola da destra a sinistra nel condotto principale. Quando nella seconda scena Llewelyn recupera la valigetta dalla stanza opposta alla prima, ci si aspetterebbe che la valigetta venisse trascinata da sinistra verso destra; invece accade il contrario, la valigetta viene estratta dal condotto in direzione opposta, da destra verso sinistra. Sembrerebbe un errore, un'incongruenza; nel frattempo Chigurh, che nella prima stanza ha intuito il nascondiglio del denaro, apre la grata di aerazione e si ritrova davanti all'imbocco di un tunnel vuoto, che dà quindi sul nulla; e le tracce lasciate dal trascinamento della valigetta si fondono, con una dissolvenza incrociata, nella segnaletica orizzontale di una strada illuminata dai fari di un'automobile a bordo della quale Llewelyn si sta allontanando dal motel. Prospettive perfette, deterministiche, che hanno come punto di fuga il vuoto, il niente, la morte. In una delle ultime scene del film, lo sceriffo Bell entra in un'altra stanza di motel, quella in cui Llewelyn è stato da poco ucciso; dopo aver esplorato la stanza (dove nell'ombra si trova anche Chigurh, che poi sparisce dalla scena senza che lo spettatore veda come, in "fuori campo") scopre che la grata di aerazione è stata aperta; ma dentro la grata il condotto non è di sezione rettangolare, bensì rotonda, un buco completamente nero nella quale la valigetta non poteva entrare (un buco poi che somiglia a tutti i buchi fatti da Chigurh nelle serrature dei suoi luoghi "di caccia", con il vuoto della bombola di aria compressa). E infatti la valigetta sparisce dal film, senza spiegazioni, senza che si possa sapere dove sia finita (i messicani non possono averla presa, perché sono fuggiti in tutta fretta dopo aver ucciso Llewelyn; e Carla Jean confesserà a Chigurh di non sapere più nulla dei soldi). La valigetta sparisce nel nulla, come dal nulla era emersa, lasciando un vuoto di senso (narrativo e morale). Quello che vorrei dire è che il film è figurativamente pieno di queste prospettive sul nulla: condotti di aerazione, strade notturne, fori nelle serrature fatti con aria compressa, finestre aperte dietro tende svolazzanti, schermi televisivi neri nei quali i personaggi si rispecchiano (nella roulotte di Llewelyn e Carla Jean, prima Chigurh e poi Bell [si] riflettono nello schermo di un televisore spento, con alle spalle una finestra aperta sul deserto). E' il vuoto che appare all'inizio del film, con le inquadrature "perfette" del deserto; si ritrova anche nelle strade delle cittadine texane dove non si vede quasi anima viva, notte o giorno che sia, e attraversa tutto il film fino a incarnarsi nello sguardo in basso finale dello scerifo Bell: in quest'ultima scena, tremendamente commovente, la macchina da presa avanza lentissima come a creare una prospettiva nel cui punto di fuga si ritrovano gli occhi dello sceriffo - che sta raccontando un sogno alla moglie, incapace infine di comprenderlo - mentre alle sue spalle c'è una finestra che dà ancora una volta sul deserto. E' la stessa voce che dava inizio al film, ora non più over ma incarnata, a non-chiudere un cerchio; sempre a parlare di ricordi, pacatamente disperati e impotenti di fronte all'assurdità del mondo. Qualcuno, nei blateramenti insulsi che hanno accompagnato in televisione l'uscita del film, ha tentato - forse senza nemmeno saperlo - di iniziare una riflessione sul genere del film, definendolo "western moderno". Va bene, può essere, almeno in superficie: le ambientazioni, i percorsi narrativi, la violenza. Ma allora perchè non vedere No country for old men come un film dell'orrore, più precisamente un film di fantasmi? Pensiamo al personaggio di Anton Chigurh, e alle sue - letteralmente - apparizioni: il killer si materializza sempre dal nulla, a cominciare dalla prima scena del film (non sappiamo neppure perché il poliziotto lo stia arrestando, o da dove sia arrivato); riesce sempre, più o meno misteriosamente, a localizzare le sue vittime (con o senza transponder) quasi come se possedesse un intuito soprannaturale che lo porta a trovare sempre chi sta cercando, al di là della semplice intuizione; chi lo vede ed è in grado di identificarlo non rimane mai in vita (Carson chiederà a Llewelyn: "Lo hai visto, e sei ancora vivo?"); lo sceriffo Bell, parlando di lui a un collega, dirà: "più che un pazzo, mi sembra un fantasma". E poi, come nei film dell'orrore, il gore e lo splatter che esplodono cupi nel bel mezzo di momenti innaturalmente calmi o silenziosi; e, cosa più inquietante e terribile di tutte, le morti offscreen... Un ultimo pensiero sulla recitazione. Dell'Oscar non mi importa molto, che Javier Bardem fosse un attore - anche letteralmente - da paura lo sapevo già da un pezzo, lo sapevano tutti; chi sia Tommy Lee Jones, poi... Ma è impossibile stabilire chi dei due sia più bravo in questo film, perché hanno ruoli, anche dal punto di vista tecnico, totalmente opposti. I loro personaggi hanno una storia e uno sviluppo incommensurabili: Chigurh è un personaggio statico, come si diceva una volta, perché le sue caratteristiche non cambiano per tutto il film. E' un personaggio che somiglia a un cerchio, chiuso, e dentro il suo perimetro Bardem ha il compito - perfettamente eseguito - di portare alla luce gli aspetti stridenti di una personalità totalmente disorganica: una perversa integrità morale, l'imperturbabilità, la freddezza, l'ironia sinistra, la totale mancanza di pietà, il complesso di superiorità... Bardem fa esplodere queste componenti come fuochi d'artificio in una finestra di cielo notturno. Il personaggio dello sceriffo Bell invece è la quintessenza della dinamicità narrativa: la sua personalità cambia completamente fra l'inizio e la fine del film, e Tommy Lee Jones è sublime nell'accompagnare il suo personaggio verso il nulla finale. Prima l'ironia e l'arguzia, meno fredde ma spietate come quelle del killer che insegue; poi il progressivo disincanto, la paura, il rimpianto, alla fine soltanto i ricordi senza più alcuna speranza (un'altra scena che mi commuove profondamente è quella del colloquio con il vecchio Ellis). Allo sceriffo Bell è affidato il riconoscimento ultimo del vuoto (da notare il fatto che i tre personaggi protagonisti entrano ed escono dal film in ordine simmetrico: primo ed ultimo Bell, secondo e penultimo Chigurh, terzo e terzultimo Moss) e pertanto la storia gli appartiene più che a chiunque altro. E' lui il personaggio più grande, e credo che la recitazione di Jones sia della medesima statura. Quante cose ci sarebbero ancora da dire. Il tema del caso, quello della guerra, quello della memoria... Chiedo scusa a chi è arrivato pazientemente fino a qui: si è trattato di pensieri sperduti, originati da un'ossessione che anzichè attenuarsi si è fatta più forte ad ogni nuova visione. E non mi ha abbandonato: la settimana prossima avrò finalmente tra le mani il romanzo di McCarthy. Non vedo l'ora di ricominciare.

mercoledì 26 marzo 2008

Colpo d'occhio

Mah. Non è sicuramente il capolavoro di Sergio Rubini, questo suo ultimo Colpo d'occhio. Eppure tenta di essere coerente, semplicemente coerente. Rubini è un istrione - su questo non ci sono dubbi - e il suo film gli somiglia in tutto e per tutto: totalmente antinaturalistico, trova la propria ragion d'essere unicamente nella finzione, declinata in un paio di suoi significati fondamentali. Il primo dei quali è sicuramente l'inganno: da qui proviene la sostanza narrativa della storia, e anche la scelta di un'enunciazione che tenta di circuire lo spettatore medesimo; fino alla fine, o quasi. Un'altra sfumatura di finzione si riconosce poi nella scelta di ambientare il film in un sottomondo peculiare, quello dell'arte contemporanea; l'arte è la finzione per eccellenza, certo, ma in Colpo d'occhio essa sembra soltanto un pretesto, o meglio il contesto ideale per la tessitura di una trama impregnata di apparenza sin dai primissimi fotogrammi. Così è l'arte, così pure il cinema e perfino la vita, ci dice il deuteragonista Rubini dall'alto della balconata di un museo, nei momenti iniziali della sua opera; non si spiegherebbe altrimenti, tra l'altro, la scelta degli attori protagonisti Vittoria Puccini e Riccardo Scamarcio, le cui recitazioni, più per necessità che per merito, sono imbevute di una tracotanza talvolta insopportabile; anche Paola Barale, piccola icona della superficialità televisiva nostrana, trova la propria giusta collocazione; e lo stesso Rubini, nel quale l'attore da sempre è superiore all'autore, fornisce un'interpretazione particolarmente, e volutamente, posticcia. Il limite di Colpo d'occhio è però la sua incapacità di portare alle estreme conseguenze il proprio gioco perverso: il film cade sul finale melodrammatico e consolatorio, certo, ma soprattutto sembra finire vittima di se medesimo, laddove non ha il coraggio di affermare fino in fondo il carattere sostanzialmente artificioso dell'esistenza umana, che esso stesso aveva cercato di accreditare lungo tutto il proprio svolgersi.