venerdì 19 ottobre 2007

In questo mondo libero

E' tornato anche il nostro caro vecchio Ken Loach, e quando esce un suo nuovo film è sempre come incontrare un amico che non vedevi da tempo e che conosci molto bene. Settantuno anni portati da leone, con la rabbia e l'energia di un trentenne ma la maestria registica della sua età, Ken racconta un'altra storia di ingiustizia della sua Gran Bretagna (questa volta l'attenzione è sul lavoro interinale e sull'immigrazione). E' chiaro che ci sono alcune tipicità nel cinema di Loach: i suoi protagonisti provengono sempre da una certa classe sociale, e ciò che loro capita dipende sempre dal sistema delle classi di cui essi fanno parte. Loach crede nella Rivoluzione, certo; è un regista politicamente impegnato, anzi, è il regista impegnato per eccellenza, se vogliamo continuare ad usare un certo gergo trito e ritrito con il quale si è soliti approcciare il lavoro del cineasta inglese. Eppure, vedendo quasi tutti i film di Loach da Ladybird, Ladybird (1994) in avanti, mi sono convinto che non si tratti soltanto di classi, proletariato, rivoluzione e via dicendo. I film di Loach hanno una dimensione più profonda, una risonanza di eternità: sia che affrontino vicende del passato, sia che guardino in faccia il presente, sono sempre il male e la tragicità della condizione umana a mostrarsi ben evidenti sullo schermo. Lo stesso plot di It's a free world..., opera del bravo Paul Laverty (che ha vinto l'Osella per la migliore sceneggiatura a Venezia 2007), ha una struttura che ricorre in molti altri film di Loach: un personaggio proveniente dal proletariato cerca di uscire dalla propria condizione sconfinando nell'illegalità e finisce col pagarne le conseguenze, impreviste e imprevedibili; eppure ogni film del grande Ken possiede una sensibilità a sè stante, mai replicabile. Come sempre poi, a questa autorialità fortissima fa da contraltare la recitazione perfetta del cast, che riesce a far apparire sullo schermo le persone, non i semplici personaggi; ed è davvero mirabile il modo in cui il taglio documentaristico dei film di Loach riesce a produrre ogni volta una rappresentazione straziante dell'eterna tragedia umana.

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