martedì 26 giugno 2007

Luigi Meneghello nel Paese dei morti


Oggi se n'è andato Luigi Meneghello. Stavo lì come un'ameba davanti al monitor, per caso ho aperto il sito del Sole24Ore e ho letto quelle poche righe. Dicevano che il corpo dello scrittore era stato ritrovato "senza vita" nella sua casa di Thiene, dove si era trasferito nel 2000 da Londra, dopo la morte della moglie. Era appena accaduto evidentemente, la data era proprio di oggi e cercando altrove nella Rete non ho trovato traccia del fatto. Meneghello aveva ottantacinque anni. Alla televisione l'equivalente di un altro trafiletto, trenta secondi per dire cosa, come, dove quando e perché, più la citazione del suo libro più noto, Libera nos a Malo. Trenta secondi e l'espressione bovina dell'annunciatore Tg5. Poi, avanti con il prossimo servizio: ovviamente si era già alla fine del giornale, nella cosiddetta terza pagina, e il Tg5 ha mandato in onda un servizio di un paio di minuti sull'ultimo episodio di Harry Potter. Poi il Tg1, in tempo per il sommario, in cui la morte di Meneghello non appare nemmeno; si parla invece, verso la fine, dell'omicidio-suicidio di un wrestler americano che ha ucciso la moglie e il figlio. Poco dopo, nel giornale non si parlerà proprio dello scrittore vicentino; ma di Harry Potter sì.
Chi scrive non ha mai letto, per stupidità e accidia, alcun libro di Luigi Meneghello; ma seguiva negli ultimi tempi il suo diario, che appariva a cadenza pressappoco mensile sul Domenicale del Sole24Ore. La sua scrittura, anche in questi episodi "minori", era unica, irraggiungibile; un nitore estremo, un'eleganza senza tempo, un'anima squisitamente italiana tornita da cinquant'anni di vita e insegnamento in Inghilterra. Le parole di Meneghello erano precise, sapevano scavare nel senso degli eventi con esattezza e con una lucidità implacabile, senza pietà alcuna per l'orribile banalità mortifera di questi nostri giorni. Meneghello era uno dei pochi rimasti vivi in questo Paese di morti. Un Paese che non lo ricorda e non sa, nè vuol sapere, che da oggi non è più in mezzo a noi forse il più grande scrittore italiano sopravvissuto al Novecento.
Sono ormai quasi le nove di sera: nessuna traccia di ricordo sul portale dell'Ansa, dove pure oggi pomeriggio compariva un breve e frettoloso articolo di circostanza; il Sole24Ore, che ospitava le parole dello scrittore, ha lasciato per tutto il giorno quel misero paragrafo apparso in mattinata; sul sito del Corriere, neanche a dirlo, uno schifo di articoletto da 20 righe, in fondo alla pagina. Nessuno stasera ne parlerà più, c'è da scommetterci. Italia, Paese dannato e maledetto, patria che vorrei non mia.

La città proibita

Non sapevo nulla del genere wuxiapan, non ho visto i due precedenti "episodi" firmati da Zhang Yimou, ovvero Hero e La foresta dei pugnali volanti. All'inizio non ero entusiasta, ma il film piano piano mi ha catturato con la sua forza visiva e con il suo crescendo di astratta violenza. Oggi, ripensandoci, credo di avere visto un grande film, un vero e proprio kolossal cinese, con effetti digitali all'ultimo grido e attori di primissima grandezza (la divina Gung Li naturalmente, ma anche Chow Yun Fat e un manipolo di giovani da noi poco noti eppure bravissimi). Film sontuoso, ricchissimo ed elegante oltrechè probabilmente rigoroso nella sua filologia (purtroppo non so nulla nemmeno della storia cinese del X sec. d. C., periodo in cui è ambientato il film), La città proibita dà il meglio di sè, com'è ovvio, nelle scene di combattimento e di battaglia: sequenze dalla perfetta geometria, ma mirabilmente prive di freddezza. Del resto, se il vecchio Yimou non fosse così bravo non avrebbe fatto quello che ha fatto in questi 30 anni, e soprattutto non avrebbe vinto tutto quello che ha vinto (un'occhiata alla sua biografia su MyMovies basterà per farsi un'idea).

venerdì 22 giugno 2007

Le ferie di Licu

Non mi ha convinto l'esperimento di Vittorio Moroni, che afferma d'aver cercato di mescolare, in questo lungometraggio, la fiction e il documentario. Poco dopo ha aggiunto anche di aver dovuto, qualche volta durante le riprese, "far ripetere" le scene (l'ho sentito dire queste cose ieri sera a Carpi, dopo la proiezione del film); alchè il personaggio che lo intervistava, il più grande esperto di cinema a Carpi, ha borbottato qualcosa come "dài, che poi vendiamo tutto alla Endemol": spiace dirlo, ma non aveva torto. Gli intenti di Moroni sono sicuramente buoni, molto interessante è l'idea, ma lo svolgimento mi lascia perplesso. Prima di tutto perché, come il buon Heisenberg non smette di insegnare, l'osservatore modifica l'osservato; e poi perchè, anche se non è essenziale per realizzare un buon documentario che gli osservati non si accorgano di essere tali, credo che la presenza costante degli osservatori, e il loro arrivare a "far ripetere le scene", tolga qualche cosa. Purtroppo questo "qualche cosa" ha lo stesso peso del fumo di cui si parla all'inizio di Smoke (Wayne Wang e Paul Auster, 1995), ed è quindi assai evanescente e aleatorio, ma è la sostanza e il senso del fare un film: è l'anima di chi si ha di fronte, anche quando capita di vedere il mondo attraverso il display di una videocamera digitale. Dopo le due ore di Le ferie di Licu, non so chi siano davvero Licu e sua moglie Fancy, a parte ciò che viene rivelato dal contesto (Licu è un immigrato bengalese da sette anni a Roma, che torna in Bangladesh per sposarsi e portare con sè la moglie Fancy in Italia...); e non lo so proprio perché loro interpretano se stessi, ovvero forniscono una loro immagine pilotata ad uso e consumo della onnipresente videocamera di Moroni e compagnia. Non so se il regista sia la prima vittima della sindrome da reality nel cinema italiano; il suo intento, ripeto, è certamente ottimo; ma anzichè girare e girare e girare (le riprese sono andate avanti per due anni e otto mesi), forse agli autori un po' più di riflessione non avrebbe fatto male, se non altro per evitare le ovvie allusioni/metafore da fiction televisiva che infestano il film. Bella, comunque, la scena finale.

giovedì 21 giugno 2007

Il destino nel nome

Tratto dal romanzo omonimo di Jhumpa Lahiri, The Namesake di Mira Nair ha il gusto della cucina bengalese d'esportazione: apparenza molto curata, piacevolezza e l'aura esotica del caso; ma una volta usciti dal ristorante/cinema, non si sa dell'India nulla più di quanto si sapeva entrando. Non ho visto altri film della Nair, a parte il sopravvalutato Monsoon Wedding, però credo di essermi già fatto un'idea - per quanto superficiale - del suo cinema: patinato, altoborghese, globalizzato e, appunto, insipido. Non ho letto il romanzo, ma il modo in cui viene tirato in ballo Nikolaj Gogol mi è sembrato un po' fuori luogo; e basare il film sull'omonimia del giovane protagonista con l'autore del Cappotto, a ripensarci, è abbastanza ridicolo. Il film non è mai troppo pesante, bisogna riconoscerlo; recitazione professionale e dignitosa, confezione americana, insomma un buon prodotto (per tacere della frequente superficialità con la quale rende conto dei rapporti fra i membri della famiglia protagonista e fra questi e il mondo esterno statunitense). C'è qualche svarione di sceneggiatura, d'accordo, ma cosa importa? Sarebbe come arrabbiarsi quando ti mettono patatine e ketchup nel kebab...

mercoledì 20 giugno 2007

Il matrimonio di Tuya

Lieve ma per niente leggero, semplice e bellissimo, pieno di autentica saggezza: ecco Il matrimonio di Tuya. Un film traboccante di vera umanità e di profondi sentimenti, che è anche un racconto perfetto, senza un attimo di noia, senza cadute. E' davvero mirabile il modo in cui il regista Wang Quanan sa rivelare l'anima dei personaggi senza quasi mai usare primi piani, e riprendendo i suoi attori spesso avvolti da pesanti abiti che ne celano le movenze e le fattezze: la protagonista Yu Nan, molto brava, recita per la maggior parte del film con il viso parzialmente visibile per via di una sciarpa sempre avvolta attorno alla testa. Il paesaggio sublime della Mongolia cinese è poi mostrato nella sua nudità, senza alcun compiacimento e anzi con un amore celato e intimo per le creature che popolano quelle lande desolate assieme agli uomini. Il matrimonio di Tuya è fatto di una materia sempre più rara al cinema: la reticenza. I silenzi, gli sguardi che si sfiorano appena, i sentimenti più nobili non esibiti e anzi il più possibile nascosti dietro modi di agire sconnessi e imperfetti; così come i grandi gesti di magnanimità nascondono o si fanno portatori di discordia e interessi personali mascherati. Se c'è un messaggio in questo film, una "morale" per così dire, più o meno si può riassumere così: anteporre il proprio interesse e il proprio benessere a quello altrui è male, mentre il bene si ritrova soltanto nel sacrificio e nell'abnegazione. Ben lontano però dall'essere una fiaba edificante, il film non dimentica mai la pochezza delle cose umane; ma senza mai giudicarla, e anzi trasfigurandola attraverso la contemplazione della natura e l'empatia verso tutti gli esseri umani.

venerdì 15 giugno 2007

Still Life

Still Life di Jia Zhang-Ke ha vinto il Bradipo, ehm, il Leone d'Oro lo scorso anno a Venezia: chissà com'erano gli altri film in concorso. Sulla carta il metraggio è di 108 minuti, ma la durata in sala pare almeno doppia. Avete presente quei film orientali languidi, estatici e soprattutto estenuanti, di cui almeno un esemplare è sempre presente ai più importanti festival cinematografici? Still Life ne è la quintessenza. Ci sono due protagonisti, tre movimenti, cinque o sei parti (non ricordo bene) nominate a partire da oggetti del quotidiano come cigarettes, tea, toffee... Il senso di quest'ultima scansione mi rimane oscuro, ma il film sembra possedere un movimento centripeto: dal basso e dall'alto della società cinese, un minatore e un'infermiera arrivano a Fengjie, villaggio allagato dopo la costruzione della Diga delle Tre Gole, per ritrovare rispettivamente la ex-moglie, comprata per alcune migliaia di yuan 15 anni prima, e il marito, scomparso da due anni. La prima e la terza parte del film sono del personaggio maschile, quella centrale è per il personaggio femminile. I due convergono verso uno degli infiniti non luoghi della Cina contemporanea, non incontrandosi mai, ma riuscendo a trovare coloro che stanno cercando; per ripartire di nuovo, infine, con il nulla o quasi alle loro spalle. Al centro del film sembra stare proprio il vuoto che incombe dietro la modernizzazione forzata cinese, un vuoto di valori collettivi e individuali; fin troppo eloquente è l'immagine che chiude il film, un funambolo che tenta di attraversare lo spazio fra due palazzi in demolizione: riuscirà il gigante asiatico a traghettarsi dalla civiltà arcaica a quella globalizzata, o cadrà vittima del suo stesso peso, della propria mancanza di equilibrio? Domande classiche, sentite forse un po' troppo negli ultimi tempi; il buono del film sta nelle notazioni naturalistiche sulla vita dei meno abbienti, in un taglio che tuttavia rifiuta di farsi documentaristico per tentare di conservare un'aura estetizzante dal dubbio valore: i nomi nei titoli di coda sono tutti cinesi, ma il film ha uno sguardo da occidentale, con tutto quel che ne può conseguire in termini di ingenuità e superficialità.

mercoledì 13 giugno 2007

Ocean's 13

Il terzo episodio della serie Ocean's 1X sancisce la nascita di un nuovo genere, il cinema da aperitivo. Il luogo più sensato per godere di questa roba non è la cara vecchia sala buia, ma uno di quei serragli tipo drive-in, mentre la gente davanti allo schermo beve sprizz o negroni, chiacchierando con altra gente e appoggiando talvolta lo sguardo bovino sulle immagini che si muovono, nelle pause delle conversazioni. Ocean's 13 è esattamente questo: il vuoto pneumatico, la pressione zero, il nulla assoluto. Non c'è una storia che possa essere raccontata, non ci sono attori nel vero senso della parola (perfino Al Pacino sembra avere subito il lavaggio del cervello), non un barlume di intelligenza o di arguzia. Niente. Se Soderbergh vuole darsi al telefilm americano di bassa lega, mi chiedo, perché non si fa da parte e libera spazio nelle sale buie, perché non fa un favore a chi ha davvero qualcosa da dire? Oppure bisogna pensare che abbia bisogno di soldi, e sfrutti noi spettatori estivi, annoiati e un po' fessi, che perseveriamo nel prestargli attenzione nonstante le sue ultime pessime prove. Del resto come si può pensare che l'autore di un film del genere sia in buona fede? Faccia degli home movies, se proprio vuole divertirsi con gli amici.

martedì 12 giugno 2007

USA contro John Lennon

Un bel documentario che racconta gli anni americani di John e Yoko dopo la fine dei Beatles; la prima sequenza che mi viene in mente è quella dei roghi di dischi dei Fab Four ad opera degli zelanti integralisti cattolici statunitensi (sì, proprio roghi, come succedeva coi libri in Europa un quarto di secolo prima) dopo che, per voce dello stesso Lennon, i quattro di Liverpool si erano dichiarati "più famosi di Gesù". E' la prima immagine che i registi del film - David Leaf e John Scheinfeld - danno della moralità del loro Paese; più avanti nel film tale moralità verrà impersonata di volta in volta da Richard Nixon, dal suo consigliere Gordon Liddy (ancora convinto del proprio operato, dovreste vederlo), dal capo dell'FBI J. Edgar Hoover, con il triste corredo delle immagini di un altro repertorio, quello del Vietnam.
John Lennon amava molto New York, e voleva assolutamente viverci; per questo si battè, vincendo infine, contro le macchinazioni architettate - incredibile, a pensarci - dall'FBI per espellerlo dagli Stati Uniti, dopo che il cantante stava diventando, secondo i canoni del Bureau, troppo pericoloso politicamente. Pare che lo stesso Nixon sapesse di tali manovre (ma c'è qualcosa che Nixon non sapeva?): secondo Walter Cronkite, se Nixon avesse stilato una lista dei suoi peggiori nemici durante il suo duplice mandato, Lennon sarebbe stato in cima. USA vs. John Lennon è una ricognizione asciutta e incisiva degli anni che cambiarono la Storia degli States, compiuta anche attraverso interviste a molti fra coloro che quella Storia scrissero - nel bene e nel male - con le proprie azioni: Ron Kovic, Bobby Seale, John Sinclair, Liddy, Cronkite, la stessa Yoko Ono. Ma il film va visto anche, e forse soprattutto, per vedere e sentire parlare il vecchio John, un vero working class hero, che sapeva esattamente quello che voleva dire e come dirlo, in ogni momento; forse perché allora e in quel luogo era ancora chiaro chi fossero i buoni e chi i cattivi, e Lennon sentiva di stare dalla parte giusta, senza quell'ingenuità che il film tende talvolta ad attribuirgli. Potessimo incontrarne ancora, di gente così...

venerdì 8 giugno 2007

Diario di uno scandalo

Ascoltate uno scemo: quando arriva l'estate cercate di avere qualcosa di meglio da fare che andare al cinema tutte le sere. Altrimenti potrebbe capitarvi di incappare in qualche immonda boiata come questo film, considerato - non si sa come ne' da chi - un prodotto addirittura d'essai (wow...). Ci si puo' trovare qualcosa di buono, dice il bravo Roberto Escobar nella sua recensione, peraltro molto bella. Ma io devo essere diventato cieco, perche' non trovo quasi nulla di buono nel film, a parte un acuto senso di disgusto per i miei simili: per l'inettitudine e l'incapacita' di maturare che puo' colpire chi ha avuto tutto dalla vita, come per la freddezza e l'incapacita' di empatizzare che puo' infettare chi invece, per sfortuna o mancanza di volonta', non ha avuto nulla; ma soprattutto provo disgusto per l'odio cieco e sordo che contrappone tutti a tutti e per la diffusa pratica mentale, piu' o meno consapevole, di considerare gli altri come oggetti nelle nostre mani. Di questo mi ha parlato Diario di uno scandalo, e l'ha fatto in modo totalmente convenzionale, da film inglese mainstream, con qualche problemuccio drammaturgico di troppo e con interpretazioni quasi piatte di Cate Blanchett e della altrove grande Judi Dench. Davvero, uscite di casa, l'estate e' vicina per fortuna.

giovedì 7 giugno 2007

Grindhouse - A prova di morte

Quentin's dead, baby. Quentin's dead. Che tristezza. Ricordo ancora quella sera del 1994 in cui vidi per la prima volta, in televisione purtroppo, Reservoir Dogs. Fantastico, quel film mi cambiò la vita, senza scherzi. Poco dopo arrivò Pulp Fiction, e la storia la conosciamo tutti. Poi, dopo il bellissimo Jackie Brown, film della maturità (apparente), iniziò il declino. Purtroppo Quentin ha fatto il percorso classico di tutti quelli che emergono dal nulla, arrivano ad essere considerati dei geni e finiscono bevendosi il cervello: la prima prova di ciò è stata l'onanistico pulp-ettone Kill Bill, che ha mostrato chiaramente le manie di grandezza del nostro ex-genio; e la conferma è arrivata con quest'ultimo Death Proof.
Lasciando da parte le eventuali discussioni sullo specifico filmico, vedere il film non dà nessun piacere in sè, se non quello legato al ricordo del Tarantino che fu, assieme a qualche risata un po' sforzata. Io non so riconoscere tutte le citazioni presenti nel film; sono sicuro che siano moltissime, ma mi chiedo: e se anche fosse? Costruire un film a colpi di citazioni e autocitazioni a chi giova, se non al regista stesso? Altro che "a prova di morte", questo sembra proprio il funerale del cinema. La pratica del rifacimento e della stratificazione di suggestioni provenienti dalla storia del cinema ha fatto il suo tempo, e chissenefrega del postmoderno! Death Proof e' un film morto, e lo spettatore assiste alla sua putrefazione negli interminabili e beceri dialoghi senza alcun legame con la narrazione, cosi' come nelle smodatissime e vuote scene di brutalita' pianificata che conservano ben poco della mirabile, fiammeggiante violenza degli esordi tarantiniani. Fa rabbia pensare che Quentin, uno degli uomini piu' potenti dell'industria cinematografica americana, uno che puo' fare tutto quello che vuole, abbia perso la testa e si sia lasciato andare in questo modo: la particina che si e' scelto nel film sembra dire molto sullo stato attuale della sua ispirazione, come se il nostro ex-eroe si sentisse perfettamente appagato dal suo ruolo di ''capo della baracca'', con intorno gli amici che lo idolatrano e fanno quello che dice lui, e con l'unico scopo di divertirsi sparando cazzate davanti al bancone di un bar. Va bene, ci sono alcune buone trovate, il montaggio e' divertente, la fotografia (di Tarantino) perfettamente mimetica dei bei tempi andati, ma e' tutto qui. Come dice Samuel Jackson a De Niro prima di sparargli, alla fine di Jackie Brown.

L'uomo dell'anno

Ultimo modesto lavoro del modesto Barry Levinson, con un discreto Robin Williams come protagonista, Man of the Year è anche un po' strambo: vuole soltanto vendere o cerca anche di dire qualcosa? Non saprei rispondere, perchè non ho capito dove il film volesse andare a parare. La prima parte è nettamente la migliore: fantapolitica, si pensa in platea (un comico televisivo diventa presidente degli Stati Uniti, anche per merito di un software difettoso), il racconto è incalzante e l'atmosfera tesa, quasi opprimente; poi il film diventa una improbabile storia d'amore fra il finto presidente e la programmatrice che ha scoperto l'inghippo informatico; infine si arriva alla sezione "conflitto interiore del protagonista", la parte peggiore, risolta in modo approssimativo e banalmente edificante. La scrittura, dello stesso Levinson, è il peggiore punto debole del film: il protagonista è a due dimensioni, il suo agire automatico, a tal punto da risultare poco credibile. Meglio i ruoli secondari: il grande Christopher Walken riesce a nobilitare il suo personaggio e l'intero film, mentre Laura Linney è brava e efficace come al solito.

martedì 5 giugno 2007

Breakfast on Pluto

Niente male l'ultimo film di Neil Jordan, girato nel 2005 e arrivato soltanto ora in Italia. Un ritorno a temi del passato - la guerra d'Irlanda e la ricerca dell'identità sessuale, come in La moglie del soldato - e a precedenti fonti di ispirazione - anche Breakfast on Pluto, come The Butcher Boy, mai arrivato in Italia, è tratto da un libro di Patrick McCabe; ma con un'allegria che non avevo mai trovato in altri film del regista. E sono proprio l'allegria e l'ironia le chiavi della storia di Patrick Brady, ragazza nata nel corpo sbagliato che, alla ricerca della madre scomparsa dopo la sua nascita, girerà l'Irlanda e approderà infine a Londra, facendo gli incontri più disparati senza perdere mai la voglia di sorridere e la fiducia nel prossimo; dimostrando anche, al grigio e ottuso mondo circostante, di possedere assai più coraggio e nobiltà d'animo dei cosiddetti "veri uomini". La regia di Jordan è sempre robusta ma agile e ben ritmata (memorabile la scena dell'interrogatorio), ci sono una bellissima colonna sonora anni '60/'70 e un'altrettanto indovinata fotografia "vintage"; ma soprattutto c'è uno strepitoso Cillian Murphy, protagonista quasi assoluto del film con la sua stupefacente capacità di calarsi nel corpo e nell'anima di un grande personaggio trans-gender senza cadere nel macchiettismo o nella volgarità. Da ricordare anche il buon Liam Neeson, nel bel ruolo di un prete che per fortuna ama le persone più della propria tonaca.

Una scomoda verità

Basta leggere su Wikipedia la biografia di Al Gore per capire che la sua statura è almeno doppia di quella dell'attuale presidente degli Stati Uniti d'America, se non altro per le sue esperienze passate. An Inconvenient Truth (titolo originale del film) è stato girato l'anno scorso da Davis Guggenheim su misura per l'ex vicepresidente USA, e ha vinto l'Oscar 2007 come miglior documentario. Premio dovuto unicamente alle - sacrosante - istanze ambientaliste dell'operazione: Guggenheim non è Michael Moore, nemmeno lontanamente, e il suo film è più vicino alla pubblicità elettorale che al cinema; ma Gore è un divulgatore preparato, sa bene quello che dice e non fa l'imbonitore, preferisce mettere davanti al suo uditorio soltanto i fatti e le potenziali (o meglio attuali) conseguenze. Meno buone sono le parti più prettamente biografiche del film: nonostante la storia personale di Gore sia piuttosto interessante, anche dal punto di vista cinematografico, il nostro Al compare un po' troppo spesso in compagnia di personal computer della Apple, per la quale lavora dal 2003, e assume talvolta pose da eroico difensore del Bene e del Giusto; ha però il grande dono di non essere spocchioso, almeno sullo schermo, e questo gli va riconosciuto. Il film va visto, non c'è dubbio: sarà pure uno spot ma in fondo vende un buon prodotto, la salute del Pianeta.

sabato 2 giugno 2007

Grizzly Man

Mai visto nulla del genere prima d'ora. Purtroppo non avevo mai visto nemmeno un film di Werner Herzog, lo confesso con vergogna; ad ogni modo, Grizzly Man mi ha lasciato senza molte parole. Il racconto, che si potrebbe anche definire documentario - ma un po' impropriamente secondo me - narra di Timothy Treadwell, una noto ambientalista americano che trascorse la maggior parte dei suoi ultimi tredici anni di vita fra i Grizzly dell'Alaska, pagando con la vita il suo amore per la natura e la sua volontà estrema di difendere gli orsi. Chi voglia sapere di più su Treadwell potrà come al solito contare su Wikipedia, ma ripeto: il film non è un semplice documentario, nè una biografia, tantomeno un ingenuo inno alla natura. E' la somma di tutto questo mescolata alle ossessioni del regista e del protagonista, in una narrazione ipnotica e a tratti soffocante come la voce da robot dello stesso Herzog, che accompagna le immagini con il suo inglese asettico e impersonale. Il regista tedesco ha uno sguardo malato sulle cose: sa trasfigurare anche le parole e le persone più insignificanti, rivelando di volta in volta l'orrore, la follia, l'oscenità che vi sono insiti. E' lo sguardo di un grande, di qualcuno che sa trasformare semplici riprese non professionali in visioni dai riverberi inaspettati e sinistri; non c'è tregua, sin dai primi minuti le immagini - girate da Treadwell nei suoi lunghi mesi fra gli orsi e montate da Herzog con interviste ad amici e conoscenti dell'ambientalista ucciso - rapiscono e in qualche modo contaminano lo spettatore, che rimarrà vittima della pesante atmosfera del film ben oltre i titoli di coda: costretto a interrogarsi, a continuare a pensare a ciò che ha visto e sentito, cercando una risposta che non potrà arrivare.

Zodiac

E' un film non riuscito l'ultimo di David Fincher, per più di una ragione. Tratto dal libro omonimo di Robert Graysmith, il suo primo problema è dover "concentrare" in due ore e mezza di lungometraggio una serie di fatti, nomi, dati e congetture da far paura, disposti lungo un arco temporale di almeno vent'anni; e la sceneggiatura non mi è sembrata all'altezza del compito (peraltro assai arduo): il copione è pieno di buchi, i personaggi cascano a pezzi o paiono perdersi nel nulla, la vicenda - legata ad un caso di cronaca nera ancora irrisolto - è (volutamente?) confusa, e la lettura del film può risultare difficoltosa (anche se questo di solito non è un problema che si possa imputare all'opera). Mi è sembrato che Fincher proprio non sapesse dove mettere le mani: il film più che procedere arranca, ed è a tratti davvero noioso.
La recitazione, poi, lascia parecchio a desiderare: Jake Gyllenhaal, Mark Ruffalo e Robert Downey Jr. sono bravi attori, ma qui sono del tutto monocordi. Nessun guizzo, nessun mutamento sensibile, niente anima nei loro personaggi: dov'è l'ossessione di cui parlano i recensori del film, se poco o nulla viene mostrato della vita privata dei protagonisti? Che ossessione è, se non divora tutto il resto in maniera realmente dolorosa? La colpa, ancora una volta, non è soltanto degli attori: la regia non sembra davvero all'altezza della situazione. Perfino il solito livore fincheriano, che si ritrova in tutte le opere precedenti del regista (Seven, Alien 3, Fight Club, Panic Room) come un marchio di fabbrica, qui è assai diluito, se non del tutto latitante. Da una storia come quella dell'omicida seriale di San Francisco che dà il titolo al film si sarebbe potuto trarre qualcosa di davvero grande, ma Fincher ha ridotto tutto a trama e svolgimento, senza lasciare spazio fra le righe. Peccato.