mercoledì 12 dicembre 2007

Paranoid Park

Gus Van Sant è uno dei miei autori preferiti, i suoi capolavori a mio parere sono Drugstore Cowboy (1989) e Elephant (2003). Proprio a partire da quest'ultimo, Van Sant ha intrapreso un cammino stilistico assai particolare, proseguito con il successivo Last Days (2005) e giunto oggi all'estremo Paranoid Park (che non potendo vincere un'altra Palma d'Oro ha ricevuto a Cannes il "Premio per il 60° Anniversario" del festival). Il mondo filmato da Van Sant è privo di alcuni tratti fondamentali che caratterizzano la "normale" esperienza della cosiddetta realtà: in primo luogo a mancare sono le connessioni causa/effetto, la cui assenza trasforma le storie narrate dal regista in una serie di avvenimenti poco più che casuali, senza alcun apparente legame a parte il loro svolgersi in successione sulla superficie dello schermo. A questa mancanza di senso "esteriore" corrisponde un altrettanto profondo vuoto interiore dei personaggi: incapaci di trovare un motivo per le loro azioni, i ragazzi e le ragazze su cui - quasi unicamente - si concentra lo sguardo di Van Sant sono vittime della casualità degli avvenimenti che li riguardano, e che sempre irrimediabilmente li travolgono; ma questo accade senza che la loro psiche o la loro interiorità ne soffra particolarmente, dato che psiche e interiorità di questi giovani personaggi paiono ridotte ai minimi termini. Del tutto privi di sentimenti di solidarietà e di empatia, i protagonisti di Van Sant sono automi freddi e sradicati, dèditi a reiterare azioni primarie ed elementari, e condannati a vagare senza meta nella luce livida e altrettanto glaciale della metropoli o della provincia americana. Nello stile di Van Sant due elementi sono poi particolarmente rilevanti e coerenti con le tematiche scelte: il montaggio e la colonna sonora. Nel primo caso, alla predetta casualità degli avvenimenti narrati (a livello semantico) si accompagna la casualità del loro accostamento narrativo (a livello sintattico): il montaggio è infatti apparentemente casuale, mescola i diversi piani narrativi e i diversi punti di vista per giungere alla costruzione della storia attraverso un racconto frammentato e sghembo, fitto di flashback e prolessi mediante i quali l'enunciazione intende confondere lo spettatore, per renderlo partecipe dello stato quasi catatonico in cui si trova il protagonista. Strumento atto al medesimo scopo è la colonna sonora: lo spettatore è infatti spesso incapace di stabilire se i suoni e le canzoni siano on, off oppure over (la voce narrante di Alex in Paranoid Park, in apparenza un monologo interiore che commenta gli avvenimenti mentre accadono, si rivela al termine del film la lettura di una lettera scritta dal protagonista stesso nel finale della storia); tanto più che al pari del montaggio visivo anche quello sonoro procede in modo discontinuo, abbinando rumori e voci a segmenti visivi ai quali essi non "appartengono", essendo relativi ad avvenimenti anteriori o posteriori nella storia. In Paranoid Park (tratto da un romanzo di Blake Nelson) il vuoto emotivo del protagonista è rappresentato dalle lunghe riprese amatoriali di skateboarding al rallentatore che - con una colonna sonora di ballate retrò totalmente fuori contesto - riempiono i pensieri del personaggio, incapace di provare emozioni di livello più che elementare (paura e disgusto). La visione antropologica di Van Sant è senz'altro terrificante, ma non conosco nessun altro regista che sappia entrare con tale dolorosa profondità, e agghiacciante disincanto, nell'animo giovanile contemporaneo. Assenza di sentimenti, nessi logici, motivazioni; conformismo e consumismo come unici punti fermi di esistenze poco più che biologiche. Non manca molto a tutto questo e anzi, forse già ci siamo.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Grazie Damiano,
sei tra le mie letture culturali
e insieme molto piacevoli.
Giulia