mercoledì 25 novembre 2009

Lebanon

Lebanon di Samuel Maoz si apre con l’inquadratura di un campo di girasoli, immobili nella luce del giorno. Nulla accade per alcuni istanti in quel silenzio; poi, a poco a poco, una specie di ronzìo metallico, lontano, inizia a farsi sentire. Mentre il rumore, quello di un veicolo cingolato, diviene a poco a poco un frastuono incombente il vento comincia a soffiare, agitando con violenza i girasoli. Appare il titolo del film, e subito un duro stacco di montaggio fa precipitare l’immagine filmica nel buio dell’interno di un carro armato. Lo sportello circolare della torretta riflesso dall’acqua immobile sul fondo dell’abitacolo si apre, e un soldato entra: l’azione si avvia. Una didascalia avverte che siamo nel 1982, il 6 giugno, all’alba del primo giorno dell’invasione israeliana del Libano; e la macchina da presa rimarrà per quasi tutto il resto del film all’interno di questo veicolo da guerra, in una soffocante oscurità.
Una modalità percettiva ben determinata sta al centro esatto del bellissimo film di Maoz, vincitore del Leone d’Oro 2009: la visione monoculare. E’ quel cerchio scuro riflesso nell’acqua che ce ne dà subito un indizio: l’apertura stretta e scomoda, unico passaggio fra l’interno e l’esterno del carro, fa infatti il paio con un’altra apertura circolare, quella del mirino da cui il giovane mitragliere Shmulik (Yoav Donat), appena entrato in servizio, osserva i movimenti all’esterno del carro e identifica gli obiettivi da colpire. Non c’è altro modo di vedere quello che accade là fuori; e la regìa costringe lo spettatore più e più volte dentro lo sguardo mutilato del ragazzo attraverso il mirino: una specie di soggettiva artificiale, una gabbia in cui la percezione visiva umana si fonde con quella della macchina da guerra – o, per meglio dire, ne rimane prigioniera. Il cerchio ottuso del mirino non permette altro che semplici spostamenti in direzione laterale o zenitale, nonché una ridottissima gamma di ingrandimenti; con tale rozzo strumento visivo Shmulik deve fare il proprio lavoro, che consiste nell’individuare e eliminare le minacce provenienti dall’esterno, a colpo sicuro, quando gli viene ordinato. Ma il ragazzo non sembra essere all’altezza del compito: Shmulik usa il mirino come uno strumento di visione, e nulla di quanto accade all’esterno sembra sfuggirgli; ma quando è il momento di puntare e fare fuoco il giovane non sa premere il grilletto per uccidere, sopraffatto dalla propria emotività. Ed è proprio così che Lebanon racconta l’assurdità della guerra: in questo voler ridurre la stereoscopia umana, con la sua ampiezza e la sua profondità, all’orribile semplicità di un monocolo; ovvero, fuor di metafora, eliminare dai propri fautori ogni residuo di umanità e emozione e individualità, per trasformarli in semplici macchine compresse in ruoli e mansioni ben definite. Perché a ciascuno la guerra non richiede altro che il mantenimento di un ruolo assegnato, e con esso di una posizione, e poi l’obbedienza agli ordini ricevuti. Pretende, la guerra, di opporsi all’imprendibile complessità del reale con poche e semplici regole, sempre uguali a loro stesse nel tempo e nello spazio. Il risultato di tale pretesa non tarda peraltro a farsi riconoscere in tutta la propria atrocità, dentro a quel mirino: sono la morte, il sangue, lo strazio dei corpi smembrati e la violenza cieca le conseguenze di quell’assurda volontà semplificatrice.
E’ per questa stessa ragione che la guerra non può trionfare: il suo tentativo di controllare il caos, di affrontarlo dall’interno di involucri metallici semoventi, divise o ranghi militari genera soltanto altro caos. E non è quest’ultimo la condizione fondamentale dell’umanità? Il disordine, come le emozioni, non si può controllare molto a lungo: ben presto infatti - mentre il rigido e imperturbabile Gamil, comandante del plotone a cui il carro fa da supporto, va e viene attraverso la torretta o si fa sentire dalla radio di bordo portando ordini e indicando direzioni da seguire - la situazione inizia a precipitare. Sia all’esterno che all’interno del carro i ranghi, come le psicologie individuali, saltano in aria per l’incapacità di sopportare la pressione, o meglio, la compressione che la guerra produce. La tensione aumenta a dismisura, anche a causa di un soldato siriano che prima, all’esterno, colpisce il carro con un lanciarazzi danneggiandolo gravemente; poi, catturato e fatto prigioniero, viene introdotto in catene nell’abitacolo. E’ questo l'ennesimo e più evidente segno che attesta la presenza del nemico: invisibile, nascosto ma potente, esso è una minaccia che diviene sempre più incombente col passare del tempo, mentre le istruzioni dal comando israeliano si fanno via via più vaghe e la presenza dell’ufficiale Gamil diventa sempre più labile, fino a svanire completamente. Abbandonati a loro stessi, con la loro macchina da guerra danneggiata e isolati in una zona ostile, i quattro soldati dell’equipaggio israeliano potranno infine affidarsi soltanto al proprio istinto, la parte più irrazionale e incontrollabile della loro natura. Sarà Shmulik, colui che fin dall’inizio aveva portato confusione e inquietudine a causa della sua insopprimibile emotività, l’unico a raccontare qualcosa di sé e del proprio passato: con la sua storia grottesca ma profondamente personale e sincera il ragazzo saprà momentaneamente alleviare nei compagni il peso insostenibile degli eventi; e lo stesso Shmulik, dimostratosi portatore di sollievo e pietà anche verso il prigioniero siriano, riuscirà infine a portare in salvo il carro. Dopo avere aperto lo sportello della torretta e essere uscito per primo da quella macchina da guerra, nella luce azzurra del mattino il giovane uomo si fermerà a osservare il campo di girasoli della sequenza iniziale, tornato ora alla propria immobile pace.


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