lunedì 4 gennaio 2010

Capitalism: A Love Story

Ecco di nuovo il buon vecchio Mike alla carica! Chi c'è nel mirino stavolta? Rispetto ai film precedenti, è un po' più difficile dirlo: cos'è, o chi è, il capitalismo? Non c'è un soggetto unico su cui si possano scaricare le responsabilità per la crisi economica che è diventata evidente per tutti, ormai da più di un anno, e che è la vera prim’attrice di Capitalism, A Love Story. Le brutte storie da raccontare, così come le malefatte del sistema, sono molte; e infatti, per la prima volta, l’attacco del regista avviene su più fronti. Nei suoi ultimi film Moore aveva messo sotto accusa alcuni protagonisti della società e dell’economia negli Stati Uniti contemporanei: l’industria automobilistica, l’industria delle armi, il sistema sanitario e le assicurazioni, l'amministrazione Bush; erano obiettivi ben precisi e individuabili, con nomi e cognomi, e soprattutto erano obiettivi unici. Qui invece il regista ha un nemico più problematico, perché molteplice e indefinito (per quanto sostanziale): insomma, questo è un film un po’ diverso dai precedenti, senz’altro più difficile da tenere assieme perché non si presta al procedimento solitamente usato da Moore, che è più o meno quello dell’inchiesta giornalistica – tanto accurata quanto schierata.

Così, stavolta ci troviamo di fronte un Michael Moore più filosofo e più idealista del solito, mentre il suo occhio documentaristico è costretto a spostarsi abbastanza freneticamente in punti diversi: da Wall Street, dove ormai lavorano tutti i migliori cervelli d’America con il solo scopo di fare più soldi, alla provincia profonda dove le famiglie perdono le loro case e si ritrovano da un giorno all’altro in mezzo alla strada; dai condo vultures che speculano sulle disgrazie degli sfrattati, ai piloti delle linee aeree sottopagati e costretti talvolta a cercare un secondo lavoro per mantenersi. Avanti così, da un posto all’altro degli States: Moore si muove da Washington, dove l’amministrazione dell’economia nazionale sembra essere nelle mani della Goldman Sachs, alla Chiesa Cattolica americana, con domande a vari sacerdoti sul valore morale del Capitalismo…

Cosa posso dire? Io faccio il tifo per Mike, con il cuore; ma il film mi è sembrato un po’ meno riuscito dei precedenti. Non so: forse è la mancanza di una tesi ben precisa, forse c’è troppa carne al fuoco, fatto sta ed è che Capitalism, A Love Story è meno sconvolgente dei suoi predecessori. E’ forse anche un po’ più patetico del solito, e questo non migliora la situazione; in più, non giova il fatto che il regista continui a stare anche davanti alla macchina da presa. L’ha sempre fatto, d’accordo, ed è un segno di onestà intellettuale, come a dire “io ti racconto queste cose in prima persona, perché ci credo e perché secondo me tali cose, così come stanno, non vanno bene”; ma così facendo, è alto il rischio che Moore finisca, anche involontariamente, con il farsi spettacolo, con il diventare una specie di logo o marchio di fabbrica. La sua credibilità continua a uscirne indenne? Ripeto, non lo so; per me personalmente non c’è problema alcuno, ma i suoi detrattori potrebbero avere il gioco più facile.

Michael Moore fa cinema per cambiare la realtà: non c’è mai stato dubbio su questo, ed è una cosa buona e giusta per quanto mi riguarda. Ha il suo stile, che è rimasto immutato, e questo non è un grande problema: non si è evoluto molto, ok, ma fa quello che sa fare con energia e idealismo. Però se i suoi colpi diventano meno precisi o se il suo sguardo si confonde, riuscirà ancora a sconvolgere la gente? Perché è questo che deve riuscire a fare, alla fin fine: contribuire a far sì che tutti noi iniziamo a pensare in modo diverso, per poi agire di conseguenza. E’ un compito immane e già di per sé vale l’ammirazione che Moore si è meritato e continua a meritarsi.

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