mercoledì 5 settembre 2007

Fast Food Nation

E' profonda la tristezza che prende lo spettatore dopo la visione di Fast Food Nation, del bravo ed eclettico Richard Linklater (molti, probabilmente, ricordano il piccolo cult Prima dell'alba). Non si tratta solamente di quello che viene raccontato sullo schermo, ma anche del modo in cui lo si racconta. Linklater ha raggiunto una specie di maturità sommessa grazie alla quale riesce a rimanere lontano da ogni retorica facile e magniloquente che può prendere il sopravvento ogniqualvolta si formula un giudizio, ad esempio, sul proprio Paese. Perché questo è Fast Food Nation: non un film sugli hamburger e sulla merda che da sempre contengono, bensì un amaro squarcio sulla realtà contemporanea degli Stati Uniti d'America. La storia dei fast-food che vendono panini ripieni di batteri fecali è quasi soltanto un pretesto, un abbozzo di racconto lungo il cui tenue percorso allo spettatore capita di incontrare frammenti di varia umanità e di tutte le classi sociali; e la cosa migliore nello sguardo di Linklater è che non c'è un inizio e non c'è una fine in questa storia: tutto è così da sempre, e probabilmente, anche se non di certo, così continuerà a essere. I personaggi del film si svelano a poco a poco o cambiano faccia repentinamente, ma nessuno di loro alla fine risulta ancora apparire come ce lo eravamo immaginato all'inizio; e quasi tutti cambiano in peggio, perché se nelle persone c'è qualcosa di buono, sembra voler dire Linklater, prima o poi questo qualcosa sparirà a causa del contesto in cui le persone si trovano prigioniere. L'unica eccezione forse è ancora rappresentata dai giovani, in special modo dal personaggio interpretato da Ethan Hawke (attore feticcio di Linklater) e dalla sua giovane nipote Amber: il primo, non più adolescente, sprona la seconda a non fermarsi, a cambiare, a fare qualcosa: la ragazza sembra raccogliere la sfida, anche se forse troppo ingenuamente, e con altri giovani come lei tenta di passare all'azione; ma ciò che ne risulta è stupido e banale. Eppure, l'autore del film sembra credere ancora nella possibilità che le cose cambino: prova ne è il fatto che, se anche alla fine del film nulla muterà nella realtà rappresentata rispetto all'inizio, le vicende di ogni personaggio non si chiudono, ma rimangono come sospese; i diversi fili narrativi non si incontrano, ognuno viene lasciato a se stesso senza indizi, ma anche senza una vera conclusione, come se (quasi) ognuno potesse fare ancora in tempo a cambiare vita.
Però è la tristezza a dominare; e i poveri capi di bestiame macellati e smembrati alla fine del film potrebbero anche essere una metafora degli individui che della loro carne si nutriranno in un qualunque fast-food americano: incapaci di fuggire dal proprio recinto anche con i cancelli aperti, incapaci di rinunciare alla propria condizione di eterni prigionieri del sistema.

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