venerdì 22 giugno 2007

Le ferie di Licu

Non mi ha convinto l'esperimento di Vittorio Moroni, che afferma d'aver cercato di mescolare, in questo lungometraggio, la fiction e il documentario. Poco dopo ha aggiunto anche di aver dovuto, qualche volta durante le riprese, "far ripetere" le scene (l'ho sentito dire queste cose ieri sera a Carpi, dopo la proiezione del film); alchè il personaggio che lo intervistava, il più grande esperto di cinema a Carpi, ha borbottato qualcosa come "dài, che poi vendiamo tutto alla Endemol": spiace dirlo, ma non aveva torto. Gli intenti di Moroni sono sicuramente buoni, molto interessante è l'idea, ma lo svolgimento mi lascia perplesso. Prima di tutto perché, come il buon Heisenberg non smette di insegnare, l'osservatore modifica l'osservato; e poi perchè, anche se non è essenziale per realizzare un buon documentario che gli osservati non si accorgano di essere tali, credo che la presenza costante degli osservatori, e il loro arrivare a "far ripetere le scene", tolga qualche cosa. Purtroppo questo "qualche cosa" ha lo stesso peso del fumo di cui si parla all'inizio di Smoke (Wayne Wang e Paul Auster, 1995), ed è quindi assai evanescente e aleatorio, ma è la sostanza e il senso del fare un film: è l'anima di chi si ha di fronte, anche quando capita di vedere il mondo attraverso il display di una videocamera digitale. Dopo le due ore di Le ferie di Licu, non so chi siano davvero Licu e sua moglie Fancy, a parte ciò che viene rivelato dal contesto (Licu è un immigrato bengalese da sette anni a Roma, che torna in Bangladesh per sposarsi e portare con sè la moglie Fancy in Italia...); e non lo so proprio perché loro interpretano se stessi, ovvero forniscono una loro immagine pilotata ad uso e consumo della onnipresente videocamera di Moroni e compagnia. Non so se il regista sia la prima vittima della sindrome da reality nel cinema italiano; il suo intento, ripeto, è certamente ottimo; ma anzichè girare e girare e girare (le riprese sono andate avanti per due anni e otto mesi), forse agli autori un po' più di riflessione non avrebbe fatto male, se non altro per evitare le ovvie allusioni/metafore da fiction televisiva che infestano il film. Bella, comunque, la scena finale.

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